di Meron Rapoport +972Magazine

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti per Zeitun.info)

La decisione americana di non porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra che avevano consentito l’approvazione di una risoluzione del genere – ha provocato ondate di shock in Israele. Il successivo annullamento da parte di Benjamin Netanyahu di un previsto incontro israeliano con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto altro che aumentare l’impressione che Israele fosse rimasto isolato sulla scena internazionale e che Netanyahu stesse mettendo a repentaglio la risorsa più importante del paese: la sua alleanza con gli Stati Uniti.

Eppure, nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione di queste questioni delicate da parte di Netanyahu, anche i suoi oppositori – sia nel campo “liberal” che nella destra moderata – sono stati unanimi nel respingere il voto delle Nazioni Unite. Yair Lapid, capo del partito di opposizione Yesh Atid, ha affermato che la risoluzione è “pericolosa, ingiusta e Israele non la accetterà”. Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe facilmente se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: “La guerra non deve finire”. Questi commenti non differivano molto dalle reazioni rabbiose di leader di estrema destra come Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.

Questo rifiuto quasi unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trasversale dei partiti per un’invasione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, anche se Netanyahu non sostiene che l’operazione otterrà la tanto attesa “vittoria totale” da lui promessa.

Ad alcuni l’opposizione al cessate il fuoco potrà sembrare strana. Molti israeliani accettano l’affermazione secondo cui Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, stanno diventando sempre più critiche nei confronti del “trascinare i piedi” di Netanyahu e amplificano le loro richieste per un “accordo adesso”.

Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliana sempre più persone affermano apertamente che “eliminare Hamas” non è un obiettivo raggiungibile. “Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una completa menzogna”, ha recentemente affermato l’ex portavoce dell’IDF Ronen Manelis. “Israele non può eliminare completamente Hamas in un’operazione che dura solo pochi mesi”.

Quindi, se cresce l’opinione che Netanyahu stia continuando la guerra per interessi personali; se diventa sempre più chiara l’inutilità di continuare la guerra, sia per quanto riguarda il rovesciamento di Hamas che il rilascio degli ostaggi; se diventa evidente che la continuazione della guerra rischia di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, come si può spiegare il consenso in Israele sul “pericolo” di un cessate il fuoco?

Questioni di fondo

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esiste e gode del sostegno popolare, non c’è alternativa alla guerra. Una seconda spiegazione riguarda l’innegabile talento retorico di Netanyahu, che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare lo slogan della “vittoria totale” anche tra coloro che non credono a una parola di quello che dice, e tra coloro che capiscono, consciamente o inconsciamente, che questa vittoria non è possibile.

Ma c’è un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre il consenso tra l’opinione pubblica ebraico-israeliana era che la “questione palestinese” non avrebbe dovuto preoccuparli troppo. Il 7 ottobre ha sfatato questo mito. La “questione palestinese” è tornata all’ordine del giorno in tutta la sua sanguinosa rilevanza.

Sono venute alla luce due possibili risposte alla fine di questo status quo: un accordo politico che riconosca realmente la presenza di un altro popolo in questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà, o una guerra di sterminio contro il nemico al di là del muro. Il pubblico ebraico, che non ha mai veramente interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda.

Alla luce di ciò, l’idea stessa di un cessate il fuoco sembra minacciosa. Costringerebbe l’opinione pubblica ebraica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – “rovesciare Hamas” e liberare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. L’opinione pubblica dovrebbe ammettere quello che potrebbe essere percepito come un fallimento, addirittura una sconfitta, nei confronti di Hamas. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerire una simile sconfitta.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica ad affrontare questioni più basilari. Se lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora ciò che resta è la verità: che l’unico modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

Il rifiuto totale del cessate il fuoco e la sua presentazione come una minaccia per Israele dimostrano che siamo lontani dal riconoscimento di questa verità. Ma stranamente potremmo anche essere più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una frattura con gli Stati Uniti – a causa del rifiuto dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir di accettare lo schema presentato dagli americani per i colloqui con i palestinesi – o la ricucitura della frattura, scelsero la seconda opzione. Yitzhak Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli accordi di Oslo.

Riuscirà l’attuale spaccatura con l’amministrazione americana a convincere gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e ad accettare di dare una possibilità ad un accordo politico con i palestinesi? Non è molto chiaro. Ma quello che è certo è che Israele si sta rapidamente avvicinando a un bivio in cui dovrà scegliere: o un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o una guerra senza fine e un isolamento internazionale come non ha mai conosciuto. Perché la possibilità di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con The Nation e Local Call.