di Geraldina Colotti –
Pagine Esteri, 29 Aprile 2024. Agli inizi di aprile, il Tribunale Costituzionale del Perù (Tc) ha respinto la richiesta dei legali dell’ex presidente peruviano, Pedro Castillo, che ne chiedevano la scarcerazione per arresto ingiustificato. Ora, un giudice del Juzgado Supremo de Investigación Preparatoria, ha fissato per giovedì 9 maggio l’udienza preliminare relativa all’accusa di tentato colpo di stato del 7 dicembre 2022, per cui si trova in carcere da quella data. Il 12 gennaio scorso, il Pubblico ministero aveva chiesto una pena di 34 anni per i reati di ribellione, abuso di potere e grave perturbazione dell’ordine pubblico.
L’ex maestro rurale aveva assunto la presidenza il 28 luglio del 2021, dopo aver vinto l’elezione presidenziale dell’11 aprile, subito contestata dall’avversaria di estrema destra, Keiko Fujimori. Avrebbe dovuto governare fino al 2026, ma venne destituito appena 17 mesi dopo, durante i quali non aveva potuto realizzare neanche una delle promesse elettorali: men che meno quella di un’Assemblea nazionale costituente, che avrebbe rinnovato nel profondo l’intreccio politico-affaristico-mediatico e militare che succhia le risorse e le energie del maggior produttore latinoamericano di oro, zinco, piombo, stagno… Per quanti errori, ingenuità e incongruenze abbia potuto compiere Castillo in quel periodo, è indubbio, infatti, che la sua eliminazione ha consentito il rinnovo delle concessioni minerarie, decise dai passati governi “fujimoristi”.
Al suo posto, da allora governa la ex vicepresidenta, Dina Boluarte, il cui nome ha risuonato e risuona nelle piazze del Perù (e non solo), non perché sia “la prima donna alla presidenza del paese”, ma perché associato all’epiteto di “usurpatrice assassina”. Boluarte è accusata sia di aver fomentato il “golpe istituzionale” contro il presidente, dopo essere stata espulsa dal partito a cui era iscritta – Perù Libre -, sia di aver ordinato la sanguinosa repressione operata contro i manifestanti – prevalentemente le comunità indigene defraudate –, subito dopo l’assunzione d’incarico.
Ora, anche Boluarte è al centro di una rumorosa inchiesta per arricchimento illecito e omissione di atti d’ufficio riguardo a una faccenda di orologi Rolex d’oro che rende traballante la sua permanenza a la “Casa de Pizarro”.
I primi messaggi di disponibilità ai poteri forti, decisi a mettere in atto il modulo che, in diversi paesi dell’America latina è già diventato un “classico” – il golpe istituzionale con annesso uso della magistratura per fini politici – Boluarte li aveva dati il 23 gennaio del 2022. In una intervista a la República, aveva affermato di non aver mai condiviso l’orientamento politico, tendente al marxismo-leninismo, di Perù Libre, un partito fondato nel 2008. Il segretario generale del partito, Vladimir Cerron, ne aveva allora decretato l’espulsione: “Leales siempre, traidores nunca” (Leali sempre, traditori mai), aveva affermato, riprendendo uno slogan di Chávez. E non per caso.
La posizione nei confronti del Venezuela bolivariano, infatti, era stata e rimaneva uno dei principali argomenti di ricatto e di pressione da parte del sistema mediatico, saldamente concentrato in poche mani, nonché agente attivo e poderoso del gioco politico. E non solo per il messaggio evocativo del “socialismo bolivariano” nei confronti dei settori popolari emarginati (7 peruviani su 10 sono poveri), ma anche per la posizione del Perù nel contesto internazionale, e dunque negli accordi commerciali (attualmente al Perù spetta la presidenza pro-tempore dell’Alleanza del Pacifico e della Comunità Andina).
Castillo era uscito dal Gruppo di Lima, creato l’8 agosto 2017 nella capitale peruviana dai rappresentanti di 14 paesi allora governati a destra, intenzionati a riportare nell’orbita di Washington il cosiddetto “rinascimento latinoamericano”, inaugurato dalla vittoria elettorale di Chávez in Venezuela nel 1998. Nel mirino, infatti, c’era prima di tutto il presidente venezuelano Nicolas Maduro, eletto nel 2013, dopo la morte di Chávez, la cui legittimità si voleva disconoscere avallando la farsa dell’”autoproclamazione” di Juan Guaidó, all’inizio del 2019.
Ed era stato evidente l’appoggio del Gruppo di Lima (pilotato dal Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, Luis Almagro, a sua volta mosso dagli Usa) a Janine Añez, un’autoproclamata in versione boliviana, messa a capo del golpe contro Evo Morales. Ma, intanto, nel novembre del 2020, anche la Bolivia era tornata a eleggere il socialista Luis Arce, rientrando nell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (Alba), fondata da Cuba e Venezuela. Ed è sintomatico che uno dei primi atti compiuti da Boluarte sia stato quello di dichiarare l’ex presidente boliviano Evo Morales, persona non-grata
Quanto durerà Boluarte prima che i suoi volubili padrini decidano di cambiare cavallo in vista delle elezioni statunitensi di novembre? Il paese pullula di basi nordamericane che “gestiscono” le forze armate peruviane.
La Cina tiene al buon esito del porto di Chancay, la cui costruzione dovrebbe concludersi alla fine del 2024 e che convertirebbe il comune in cui si trova, Hural, che ha una posizione strategica, in uno snodo commerciale di tutto il Sudamerica.
D’altronde, la convulsa politica peruviana degli ultimi anni ha mostrato una girandola di ascesa e caduta di presidenti e comprimari che, dal 2018, si sono succeduti: Pedro Pablo Kuczynski, Martín Vizcarra, Manuel Merino, Francisco Sagasti, Pedro Castillo. E Dina Boluarte. Un altro ex presidente, Alan Garcia, si è sparato un colpo in testa prima di essere arrestato, manifestando, in una lettera postuma, il “disprezzo” per i suoi “avversari”. Era sotto inchiesta per riciclaggio di denaro sporco, proveniente dalla corruzione legata all’impresa brasiliana Odebrecht, così come altri 4 ex presidenti: Alejandro Toledo, Ollanta Humala, e Pedro Pablo Kuczynski, noto come PPK.
A cosa si deve la crescente frammentazione del quadro politico degli ultimi anni e il conflitto di poteri fra il Congresso e l’Esecutivo? Un elemento influisce più di tutto: l’istituto della “vacancia”, ovvero il vuoto di potere per la “permanente incapacità morale o fisica del presidente”, previsto nella costituzione fujimorista del 1993. Una facoltà che ha ampliato quanto prevedevano le costituzioni varate dal 1839, riguardo all’incapacità mentale del presidente, e che si è trasformata in un’arma di ricatto formidabile nello scontro tra fazioni nel Congresso, che può applicarla se si raggiunge il quorum necessario (87 voti).
È stata questa, formalmente, la causa scatenante della caduta di Castillo, il quale, per prevenirne l’arrivo dopo un periodo di attacchi a tutto campo della destra, e senza più un indirizzo politico coerente, ha cercato di usare una delle prerogative permesse al capo di Stato, che in Perù viene eletto dal popolo: sciogliere il Congresso se questi nega per due volte la fiducia all’Esecutivo. Non ne ha avuto il tempo, perché è stato accusato di “autogolpe”, di ribellione e altri reati e messo in carcere preventivo fino al 2025.
Un punto che la difesa di Castillo contesta, sia nel merito che nella forma, evidenziando la “doppia morale” che vige in Perù, a seconda che si tratti di proteggere i veri corrotti o i rappresentanti del popolo come Castillo, che non lo sono. In Perù – ha denunciato a più riprese l’ex presidente – la corruzione si è istituzionalizzata a partire dalla costituzione indetta da Fujimori nel 1993, difesa dai diversi settori che controllano il potere esecutivo, legislativo e giudiziario a scapito dei settori popolari. Per questo, la sua principale promessa elettorale era stata quella di indire un’Assemblea nazionale costituente, bestia nera dei poteri forti, come si è visto anche in Cile.
Scrivono su Pagina 12 gli avvocati argentini Raúl Zaffaroni e Guido Croxatto: “Castillo non ha Rolex. Non rappresenta alcun settore di potere. Rappresenta, però, il popolo trascurato della Sierra. Se Castillo avesse accettato di far parte degli affari sporchi della classe politica peruviana (lo scandalo Obededrecht macchia tutti, compresa la sinistra, tranne lui) Castillo continuerebbe senza dubbio a essere il presidente”.
Invece è in galera, “perché non ha accettato di negoziare con il Congresso corrotto che la società disapprova fortemente. Se avesse accettato di far parte dell’impresa, sarebbe comodamente seduto a Palazzo. Ma non lo ha fatto. Altrimenti, sarebbe milionario come i deputati. Ma non lo è. Non è stata trovata una sola prova contro di lui. Niente. È il meno discutibile tra tutti i presidenti perseguitati nella regione, che sono tanti”.
Quindi, i legali ribadiscono che “la vacancia contro Castillo è costituzionalmente nulla”: intanto perché l’ex presidente ha a malapena evocato e non messo in atto la sospensione del Congresso e nuove elezioni; e non c’è stato alcun movimento di truppe in risposta. E poi perché nei suoi riguardi non è stata rispettata alcuna procedura prevista prima di decretarne la rimozione, a partire dall’immunità parlamentare, mentre è stato immediatamente portato in galera.
Il Congresso che ha destituito illegalmente Castillo ha persino violato le sue stesse regole perché lo ha rimosso con 5 voti in meno di quelli richiesti dalla legge (87). Un accanimento già annunciato con altre misure senza precedenti per perseguitare il presidente e la sua famiglia, ordinate da un Pubblico ministero “che ha mentito per vincere un concorso”. Dalla stessa procura anticorruzione è peraltro partita un’indagine contro la massima rappresentante del Ministero Público, Patricia Benavides, e dei suoi consiglieri, sospettati di dirigere un’organizzazione criminale che mirava a favorire illecitamente le decisioni del Congresso. La rimozione di Castillo è illegale e l’arresto è arbitrario – dicono gli avvocati – prima di tutto perché per rimuoverlo avrebbero dovuto sospenderlo dalle sue funzioni in conseguenza di un processo politico a norma di legge, che invece non c’è stato.
I difensori fanno anche notare perché occorresse togliere di mezzo il maestro rurale. In poche settimane, dicono, in Perù sono state approvate 3 misure di forte impatto: una legge che agevola la deforestazione dell’Amazzonia peruviana; una norma che permette la destituzione del Consiglio nazionale di giustizia, e che favorisce oltremisura l’asservimento della magistratura; e una recente iniziativa di amnistia per i crimini contro l’umanità commessi durante la dittatura di Fujimori da qualsiasi agente dell’esercito.
Tutti sintomi di una crisi sistemica esplosa con lo scontro di classe degli anni ’80 e ’90, con la guerra sporca contro le organizzazioni armate (Sendero Luminoso e Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru – Mrta -), che il “racconto” imposto dai vincitori non riesce a occultare. Una versione che ha espunto e distorto la necessità di un bilancio storico che liberasse quella memoria per le generazioni future. Insieme alla paura del socialismo, quella del “ritorno del terrorismo” ha alimentato e alimenta poderose campagne mediatiche per mettere all’angolo chiunque – movimenti o personaggi pubblici – si affacci sulla scena politica senza adeguate e consolidate “coperture”.
Per questo, è stato adottato un termine – “terruco” -, usato come insulto dai militari che torturavano e stupravano durante la “guerra sporca” contro l’opposizione armata, per farlo diventare di uso corrente; e per stigmatizzare i settori indigeni e popolari, i difensori dei diritti umani, i familiari dei detenuti o delle vittime della violenza di stato.
Lo provano gli articoli dei media, che hanno dato così il tormento sia a Castillo che alla candidata di centro-sinistra, Veronica Mendoza, obbligandoli a surreali prese di distanza ideologiche. Grazie alle leggi speciali “antiterrorismo”, simili a quelle applicate in Italia, sono stati arrestati avvocati e familiari, chiuse sedi di movimento, e perseguite organizzazioni popolari indigene. Boluarte ha continuato su quella via.
Il cognome della potente candidata sconfitta nelle urne dal maestro Castillo, Keiko Fujimori, rimanda allo scontro che si è dato nel secolo scorso; dà il senso della partita che si stava giocando, in un paese saldamente in mano ai gruppi di potere sostenuti dal grande capitale internazionale. Keiko, infatti, è la figlia del dittatore di origine giapponese, Alberto Fujimori, che ha funestato il Perù dal 1990 al 2000, la cui ascesa e il cui declino ben rappresentano le ambivalenze e gli imbuti della politica peruviana, e il peso che ancora rappresenta il fujimorismo.
Alberto Fujimori, sconosciuto fino all’anno prima, vinse le elezioni presidenziali il 10 giugno del 1990 ricevendo, al secondo turno, l’appoggio al suo partito neo costituito, Cambio 90, anche da settori della sinistra: perché, altrimenti, si sarebbe dovuto votare per l’allora giovane scrittore Mario Vargas Llosa, candidato del neoliberismo, ai cui progetti Fujimori dichiarava di volersi opporre. Una promessa subito abbandonata con l’adozione di politiche neoliberiste ancora più aggressive di quelle proposte da Vargas Llosa, e suggellate dal patto con le forze militari più reazionarie: quelle stesse che, sul finire degli anni ’80, avevano ideato il cosiddetto Piano Verde.
Il Plan Verde fu un progetto di sterminio concepito dai militari a ottobre del 1989. Un’operazione clandestina di “guerra sucia” che includeva anche il genocidio e la sterilizzazione forzata delle popolazioni indigene, negli anni in cui la guerriglia senderista, dapprima attiva soprattutto nelle zone andine, aveva allargato il proprio raggio d’azione anche ad altre parti del paese. Il piano, che inizialmente prevedeva un colpo di stato contro l’allora presidente Alan Garcia, includeva misure neoliberiste simili a quelle proposte da Vargas Llosa, su cui inizialmente puntavano i militari, una ferrea censura sui media, e una stretta sulle libertà.
Progetti che vennero poi applicati da Fujimori, dopo il suo autogolpe nel 1992: per conto degli Usa e del Fondo Monetario Internazionale, che inviarono i loro specialisti per portare avanti sia la stretta economica che quella repressiva. In quel frangente, la rivista Oiga pubblicò alcuni estratti del Plan Verde, rendendo esplicita la coincidenza fra i piani delle élite economiche con quelle militari.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha per parte sua appurato che, a partire dal 1992, Fujimori e il suo “assessore” in fatto di guerra sporca, Vladimiro Montesinos, dettero mano libera allo squadrone della morte del gruppo Colina, responsabile di massacri, torture e sparizioni forzate.
Contro quel sistema di potere, blindato dalla costituzione fujimorista del 1993, i settori più negletti del popolo peruviano avevano votato per una figura che, come il maestro Castillo, li rappresentava. Una battaglia che va oltre la difesa dell’ex presidente, e chiama in causa i principi della giustizia internazionale. Per questo, i suoi legali hanno depositato ricorsi presso varie istanze giuridiche, a partire dalla Corte Interamericana di giustizia. Intanto, si mobilitano anche i gruppi di peruviani residenti all’estero che, in Italia, hanno organizzato una conferenza stampa internazionale, e una manifestazione a Milano, per chiedere: la liberazione e il reintegro del presidente Castillo, la rinuncia di Boluarte, lo scioglimento del Congresso, la convocazione di un’Assemblea Nazionale Costituente, la cacciata delle truppe Usa, giustizia per le vittime del fujimorismo e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni. E per esprimere il proprio No alla privatizzazione delle risorse pubbliche.
Rivendicazioni che assumono un ulteriore significato simbolico in questo ultimo anno del Bicentenario dell’Indipendenza del Perù. Quando assunse l’incarico, i media notarono che Castillo indossava un abito blu, con motivi indigeni ricamati e una camicia senza colletto, simile a quella di Evo Morales, Rafael Correa, Luiz Inácio Lula da Silva e Nicolás Maduro. Un abito simile al tradizionale liqui liqui, il costume tipico del Venezuela su cui, per la prima volta nella storia, faceva bella mostra il tipico sombrero della regione di Cajamarca.
“Non governerò dalla casa di Pizarro”, aveva detto il nuovo presidente, riferendosi al nome con cui di solito viene designato il Palazzo del Governo, in onore a Francisco Pizarro, il conquistatore spagnolo. E aveva aggiunto davanti al re Filippo VI di Spagna, tra gli invitati alla cerimonia: “Dobbiamo rompere con i simboli coloniali. Consegneremo questo palazzo al Ministero della Cultura per utilizzarlo come museo”.