di Geraldina Colotti –
Pagine Esteri, 6 maggio 2024. In questo 2024, in cui oltre la metà del mondo si è misurata o si misurerà nelle urne, anche il Cile sta organizzando un processo elettorale, municipale e regionale, per l’elezione del prossimo 27 ottobre (con un eventuale secondo turno per i governatori al ballottaggio, fissato per il 24 novembre). I partiti politici che decidano partecipare alle elezioni primarie del 9 giugno (con voto volontario, mentre quello di ottobre sarà obbligatorio), hanno tempo fino al 10 di aprile per formalizzarlo presso il Direttore del Servizio Elettorale, e per iniziare la propria campagna. Chi non opta per le primarie, ha comunque fino al 29 luglio per presentare le candidature.
Più che le regionali, le elezioni che si svolgeranno nei 345 municipi del paese, con i loro rispettivi consigli comunali, e per la prima volta con voto obbligatorio, sono considerate un test importante per le parlamentari e presidenziali del prossimo anno: non solo perché consentono una fotografia delle forze in campo e delle possibili alleanze, ma anche perché, nei territori, le forze di alternativa hanno una maggiore rappresentanza e possibilità di incidere di quanto non consenta una politica istituzionale ancora bloccata dai meccanismi imposti dalla passata dittatura.
Alle ultime municipali, che si sono svolte nel 2021 dopo un posticipo dovuto alla pandemia, la sconfitta dei conservatori anticipò quella delle presidenziali, a cui arrivarono con la popolarità dell’ex presidente Sebastián Piñera ai minimi storici. Ora, a credere alla “consuetudine” dell’alternanza, la destra conta di mandare a casa il governo di Gabriel Boric, anche se dovrebbe scendere in campo una candidata di peso, l’ex presidenta Michelle Bachelet, pronta a guidare l’annunciata grande alleanza proposta da Boric: dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista. Fondamentale, dunque, per la sinistra, sarà mantenere la maggioranza dei municipi. Quanto alla cornice generale, ben poco è cambiato.
Nel “primo laboratorio mondiale del neoliberismo”, si è tentato due volte in quattro anni di rinnovare la Costituzione imposta da Pinochet, ma senza successo. L’ultima, il 17 dicembre del 2023, quando con oltre il 55% dei voti contro il 44%, ha vinto il No al referendum su un testo che, comunque, in otto mesi di contesa politica, per successivi “aggiustamenti”, non era più che un pallido riflesso della volontà espressa da oltre l’80% della popolazione che aveva chiesto un cambiamento durante le proteste del 2019.
Un testo che, secondo vari analisti, era ormai “profondamente neoliberista” poiché lasciava inevasa la riforma del sistema sanitario, educativo e pensionistico, saldamente nelle mani dei privati come tutto il resto del paese. Da quel testo, erano inoltre scomparsi i riferimenti alle popolazioni native, principalmente i mapuche, ed erano incluse trappole che lasciavano aperta la porta alla cancellazione completa del diritto all’aborto.
Come si ricorderà, dalle manifestazioni popolari del 2019 emersero giovani rappresentanti, come Camilla Vallejo, del Partito comunista, e il più moderato Gabriel Boric, che diventerà il più giovane presidente della storia cilena nel dicembre 2021, e quello con il profilo più di sinistra dai tempi di Allende, rovesciato con un colpo di stato militare l’11 settembre del 1973.
Nel 2020, la stragrande maggioranza dei cileni espresse con un referendum la volontà di archiviare la Costituzione di Pinochet, rimasta intatta nella sostanza malgrado i successivi cambiamenti intervenuti. E, nel 2021, venne eletta la Convenzione Costituzionale, composta da 155 persone, metà delle quali donne. Il testo che ne uscì, nel 2022, era molto avanzato ma, anche per questo, la destra orchestrò una campagna di terrore evocando i nervi scoperti della società cilena, a cominciare dalla questione dei mapuche e dall’impianto securitario, sostenuto da un poderoso intreccio di interessi, che vi è legato.
Il progetto venne bocciato dal 62% di elettori. Allora, Boric avallò una commissione di esperti proposta dal parlamento, incaricata di redigere un nuovo testo, che poi sarebbe stato emendato da un Consiglio costituzionale di 50 persone, eletto a maggio del 2023. Un’elezione in cui, però, risultò maggioritaria la lista del Partito Repubblicano di José Antonio Kast, di estrema destra, che ottenne quasi il 35 per cento dei voti e 33 seggi su 50, ben più della metà. Insieme agli 11 rappresentanti di Chile Vamos (la destra tradizionale), i repubblicani ignorarono bellamente i 17 rappresentanti del centrosinistra e procedettero a modificare a loro piacimento la Costituzione redatta dagli esperti, spostandone completamente l’indirizzo.
Si era voluto scongiurare lo spettro della “democrazia partecipata e protagonista” che ha animato il dibattito in Venezuela durante il processo costituente verso la Carta Magna del 1999, e che ha ispirato le altre costituzioni, poi approvate in altri paesi latinoamericani di orientamento socialista – Bolivia e Ecuador –, che offrono alle popolazioni originarie ampio riconoscimento, spazi di gestione e di difesa delle loro tradizioni.
Nel 2021, suscitò, infatti, grande scalpore, la nomina di Elisa Loncón, accademica cilena di etnia mapuche e attivista per i diritti dei popoli indigeni a presidenta della Convención Constitucional, che prevedeva seggi riservati ai rappresentanti delle popolazioni native e stabiliva il principio dello stato plurinazionale.
I mapuche cileni, che un tempo erano allevatori, si scontrarono con i colonizzatori spagnoli fin dal 1535 e passarono attraverso diverse tappe di sterminio (compresa quella della dittatura pinochettista). Oggi, su un totale di 19,7 milioni di cileni, sono oltre quasi 1,8 milioni, seguiti dagli Aymara (156.000 persone) e dai Diaguita (88.000 persone). Si tratta della popolazione nativa più numerosa del paese che, per il 20% vive nell’Araucanía, nel sud del Cile.
Una zona in gran parte agricola e piena di foreste tra il Pacifico e la cordigliera, una delle più povere del paese. La parola mapu, significa la terra, e i mapuche si considerano il “popolo della terra”, il cui possesso hanno continuato a rivendicare con forza anche dopo la fine della dittatura, scontrandosi con le imprese forestali che le hanno privatizzate e con le politiche estrattiviste che le hanno devastate.
Durante il governo di Allende, si erano aperte le porte al dialogo e al varo di una riforma agraria che prevedeva la restituzione di parte delle terre sottratte nel corso dei secoli (nel 1803 i mapuche possedevano cinque milioni di ettari, nel 1927 gliene restavano meno di 500.000). La riforma fu cancellata dalla dittatura di Pinochet (1973-1990), che istituì lauti finanziamenti e incentivi alle imprese forestali per stabilirsi nella regione.
Il regime militare ha mietuto vittime anche nella città di Temuco, capoluogo dell’Araucanía. Il processo ai delitti del Condor – la struttura clandestina con cui le dittature del Cono sur eliminavano gli oppositori –, che ha avuto un suo capitolo anche in Italia, ha mostrato come in un centro di tortura di Temuco venne eliminato, fra i tanti, anche un cittadino di origine italiana. Si chiamava Omar Venturelli, un sacerdote sospeso a divinis per aver partecipato all’occupazione delle terre da parte dei mapuche.
Prima durante i governi di Michelle Bachelet e poi con quello di Boric, i mapuche hanno riproposto le loro ragioni, scontrandosi sia con le loro differenze interne che con un intreccio di interessi che condiziona pesantemente le decisioni dei governi, e spinge le componenti più radicali all’azione diretta. L’Araucanía è uno dei territori più militarizzati.
E ora, dopo l’omicidio di tre carabineros, è stata approvata in Senato una nuova legge antiterrorismo, che mette ancor più la sordina alle raccomandazioni delle Nazioni unite che avevano chiesto l’apertura di un’inchiesta “sull’uso eccessivo della forza”, e espresso preoccupazione per “la discriminazione e le espressioni di odio” contro il popolo mapuche, in spregio al riconoscimento giuridico delle popolazioni native del 1993.
Nel 1993, la Corporación nacional de desarrollo indígena (Conadi), legata al ministero dello Sviluppo, ha istituito un sistema di restituzione che consente allo stato di riacquistare i terreni privati per ridistribuirli alle famiglie native che ne fanno richiesta. Sono, però, sorti problemi quanto alla gestione comunitaria proposta dalle organizzazioni mapuche, che si oppongono a un’amministrazione privata e poco trasparente della proprietà. E, comunque, finora lo stato ha ricomprato solo 215.000 ettari di terra.
Intanto, nel quadro delle crescenti disuguaglianze presenti in Cile, nel corso degli anni duemila si sono moltiplicati gli attacchi contro i manifestanti mapuche (17 nel 2017, e 24 nel 2021). Una situazione che stride a fronte dell’ostentata impunità di cui godono gli apparati repressivi. L’8 maggio avrebbe dovuto comparire in giudizio il direttore dei carabineros, il generale Yáñez, per rispondere di violazioni dei diritti umani, un’accusa che implicava le dimissioni, ma l’udienza è stata rimandata al 1° di ottobre. A questo si aggiunge l’impunità per le violazioni ai diritti umani verificatesi nel 2019 contro i manifestanti che protestavano per le enormi disuguaglianze esistenti in Cile.
Al processo contro il mapuche Héctor LLaitul, leader dell’organizzazione indigena Coordinadora Arauco Malleco (CAM), il pubblico Ministero ha chiesto invece condanne pesanti: 25 anni di carcere per presunti reati –violenze, furto di legname e attentati – commessi tra il 2020 e il 2022. La sentenza è attesa per il 7 maggio e fornirà materiale per altri processi contro Llitul. Una condanna richiesta in base alla Ley de Seguridad del Estado, che data dell’epoca della dittatura militare di Augusto Pinochet, e che ora gode di una nuova “attualizzazione”.
A sostentarla, un impressionante numero di intercettazioni telefoniche e immagini “captate”: Llaitul è stato monitorato quotidianamente nel corso di 25 anni. Una logica securitaria che non va per il sottile, come tante volte hanno denunciato le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, e che riempie i fascicoli accusatori con le dichiarazioni dei carabineros o delle forze di sicurezza, che hanno nel mirino la CAM.
Si tratta di un’organizzazione radicale, fondata nel 1997, che chiede la restituzione delle terre appartenenti ai nativi, e si scontra con le imprese forestali mediante l’azione diretta, ma esclude l’omicidio. In un libro del 2003, intitolato “Chem ka rakiduam. Pensamiento y acción de la Cam”, e dedicato alla memoria di tre militanti uccisi (Alex Lemún Matías Catrileo Marco Paillacoi Pablo “Toño” Marchant), la Coordinadora Arauco Mallec espone la sua analisi e il suo programma “autonomista”.
Asse centrale, resta la lotta contro “l’usurpazione del territorio ancestrale” e la militarizzazione del territorio, e la denuncia della “sinistra neoliberista” che ha governato in Cile. Quanto al governo di Boric, “che non è riuscito a proporre un’alternativa reale al popolo mapuche”, per la Cam rappresenta “l’amministrazione istituzionale dello scontento popolare e comunitario; e ha smobilitato la protesta sociale e territoriale, limitandola nel recinto della democrazia borghese”.
A marzo, quando il governo ha iniziato il censimento per il 2024, che si svolge ogni 10 anni, la Comunidad Mapuche Autónoma de Temucuicui ha rifiutato di parteciparvi, esprimendosi in questo modo in un comunicato: “Rifiutiamo il censimento del governo che, nel contesto mapuche non significa altro che contare la povertà e la marginalità che servono alla classe politica, ai coloni e alle forestali per tenere sottomesso il popolo mapuche. Non parteciperemo a questo processo che serve solo a continuare con le politiche assistenzialistiche, e ad approfondire il modello di saccheggio e distruzione del territorio, e a perfezionare le politiche di repressione e contenimento”.
Llaitul è stato arrestato nell’agosto del 2020, e da allora recluso in detenzione preventiva nel Complesso Penitenziario del Biobío, a circa 500 km dalla capitale cilena, Santiago. All’inizio dell’anno e per tre mesi, insieme ad altri 11 mapuche, Llaitul ha effettuato un lungo sciopero della fame, che ha portato 3 di loro quasi alla morte.
Chiedevano fosse annullata la sentenza che aveva condannato alcuni di loro a oltre 15 anni “senza alcuna garanzia di un processo giusto”. Ricordavano l’uccisione di un loro compagno da parte dei carabineros – Pablo Marchant, detto el Toño -, il 9 luglio del 2021. Richiamavano le dichiarazioni dell’attuale presidente Gabriel Boric, allora deputato e candidato alla presidenza, che aveva detto: “Il caso è grave. Le forestali sono parte del problema”. L’allora direttrice di campagna di Boric, oggi deputata del Partito comunista, Camila Vallejo, aveva a sua volta invocato: “Giustizia per Pablo!!”.
Due mesi dopo, però – avevano denunciato i mapuche -, Boric, insieme alla sua coalizione del Frente Amplio, “e con l’astensione complice del Partito Comunista” aveva accettato di estendere fino al 2030 i lauti sussidi statali alle imprese forestali e ai latifondisti, per consentirgli di “continuare a saccheggiare e depredare il territorio, mentre il nostro popolo, le comunità, registrano i più alti livelli di povertà ed emarginazione, dovuti principalmente alla mancanza di terre”.
Anche se la questione del recupero delle terre è fondamentale, sia dal punto di vista concreto che simbolico, fra i mapuche che vivono nella capitale e nelle zone urbane limitrofe (oltre un terzo del totale), sussistono visioni diverse, dovute alle diverse appartenenze sociali. Nonostante il razzismo di cui è imperniata la società cilena, che riflette l’eredità coloniale, i mapuche hanno le loro élite sociali e intellettuali.
La questione mapuche attraversa comunque la sinistra, soprattutto le organizzazioni popolari, ma anche le componenti governative, e avrà il suo peso nelle municipali. Il dirigente del coordinamento mapuche Consejo de Todas las Tierras, Aucán Huilcamán Paillama, ha annunciato la sua candidatura a governatore dell’Araucanía, con il proposito di “riportare la pace”. Con lo stesso proposito, Boric, l’anno scorso a giugno, nella giornata dedicata ai popoli originari ha lanciato la Commissione presidenziale per la pace e l’intesa, composta da figure della destra, del centro-sinistra e da attivisti mapuche: con l’obiettivo di migliorare la convivenza degli abitanti delle regioni del Biobío, La Araucanía, Los Ríos y Los Lagos. In questi giorni, la Commissione è tornata a riunirsi a Temuco.
“Come cileni, dobbiamo imparare ad accettare che siamo mapuche, che abbiamo o no sangue mapuche, la nostra cultura e nazionalità sono un insieme di spagnoli, immigranti e anche del popolo mapuche che si trovava qui. Se come paese non riconosciamo la nostra storia, è difficile mettersi d’accordo”. A parlare così è stato il co-presidente della Commissione, l’ex ministro del governo di destra di Sebastian Piñera, Alfredo Moreno. Pagine Esteri