di Geraldina Colotti

(foto fermo immagine da Youtube)

Pagine Esteri, 27 giugno 2024 – Occhi puntati sulla Bolivia dopo il tentativo di colpo di stato, apparentemente rientrato, compiuto dal comandante dell’Esercito, Juan José Zúñiga. Nel primo pomeriggio di ieri, alla guida di un manipolo di militari, il generale ha occupato piazza Murillo, nella capitale La Paz, ed è entrato violentemente nel Palazzo di Governo, dopo averne abbattuto il portone con un veicolo blindato. Si contano almeno 12 feriti. Per circa tre ore, i militari hanno tenuto sotto assedio l’intero gabinetto, riunito all’interno insieme al presidente, Luis Arce, e al suo vice, David Choquehuanca.  “Denunciamo alla comunità internazionale che in Bolivia è in corso un colpo di stato contro il nostro governo democraticamente eletto”, aveva annunciato Choquehuanca, allertando i media e le istituzioni internazionali.

Poco prima dell’irruzione, il generale era stato destituito per aver pronunciato dichiarazioni incendiarie: aveva minacciato pubblicamente l’ex presidente, Evo Morales, (“non sarà mai più presidente di questo paese”); aveva annunciato la liberazione “di tutti i prigionieri politici” (compresa la ex “presidenta de facto”, Janine Añez, in carcere con l’accusa di golpismo); e pronosticato la fine del governo in carica (“il nostro paese non può più continuare così”, aveva affermato).

L’assedio è terminato con l’arresto degli insubordinati e con la nomina di nuovi vertici delle Forze armate, ma anche con l’eco delle ultime dichiarazioni rilasciate alla stampa da Zúñiga, secondo il quale a ordinargli di dispiegare i carri armati sarebbe stato lo stesso presidente Arce: “Il presidente mi disse che la situazione era molto critica e che occorreva far qualcosa per risollevare la sua popolarità. Facciamo uscire i carri armati? Gli ho chiesto. Falli uscire, mi ha risposto. E così, nella notte di domenica, i carri armati hanno cominciato a uscire…” Il generale avrebbe voluto continuare, ma il viceministro degli Interni Jhonny Aguilera, lo ha spinto in una macchina che lo avrebbe condotto agli arresti.

Colpo di stato o auto-golpe? Il dibattito è scoppiato fin da subito, insieme alle dichiarazioni di condanna espresse sia dai governi amici dell’America Latina, che dalle istituzioni regionali, come l’Alba (l’Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America, ora diretta dal venezuelano Jorge Arreaza), e dall’Onu.
Persino l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), rimasta silente in occasione del golpe contro Morales perpetrato da Añez nel 2019, si è fatta sentire per bocca del suo rappresentante, Luis Almagro. Intervenendo all’Assemblea generale dell’organizzazione, in corso ad Assunción in Paraguay, Almagro, ha espresso solidarietà ad Arce, e ha detto: “La comunità internazionale, l’Osa e la segreteria generale dell’Osa non tollereranno nessuna forma di rottura dell’ordine costituzionale legittimo in Bolivia e in nessun altro luogo”.

La Cob (la Centrale operaia boliviana) ha proposto uno sciopero generale indefinito e ha invitato tutte le centrali operaie, i sindacati e le organizzazioni sociali a recarsi nella capitale per proteggere la sede del governo. La Centrale ha poi rivolto un appello “alla comunità internazionale a manifestarsi e a difendere il governo democratico”. Sullo stesso tono si sono espresse altre organizzazioni popolari come la rete di donne Bartolina Sisa. E, mentre la destra boliviana ha osservato il silenzio, Janine Añez, dal carcere, ha tenuto a distanziarsi dall’”attacco alla democrazia” del generale Zúñiga: “le differenze – ha affermato – si risolveranno nelle urne nel 2025”.

E proprio il prossimo scenario elettorale è l’orizzonte in cui si proietta lo scontro in corso tra il duo Arce- Choquehuanca, e l’ex presidente Evo Morales, in carica dal 2006 al 2019. Uno scontro che dura da mesi e che divide il Movimento al socialismo (Mas), il partito di governo da cui entrambi provengono. Morales ha invitato a “una mobilitazione nazionale per difendere la democrazia”, ma ha anche accusato l’antico alleato di aver organizzato “uno show” a suo favore, insieme a un fedele alleato come l’ex comandante dell’esercito, da lui ampiamente favorito.

Che la riforma dell’esercito, come altre richieste di cambiamento attese dai settori popolari, siano rimaste incompiute, è dimostrato dall’influenza che ancora mantiene la ricca e potente destra boliviana, separatista e suprematista, in permanente ricerca di occasioni destabilizzanti. Una situazione che torna a essere appetibile anche per l’imperialismo nordamericano, di fronte alla crisi in corso, ora anche per l’assenza di carburante che provoca lunghe code ai distributori. La Bolivia, primo paese al mondo per riserve di litio, continua a situarsi nel campo che disegna un mondo multicentrico e multipolare, intorno alla Cina e alla Russia. Tornare a destabilizzarla in questo anno di appuntamenti elettorali, nella regione e negli Stati uniti, è un’occasione ghiotta.

Lo scontro tra Morales e Arce non è d’altronde solo un problema di leadership, ma di proposta politica su cui continuare il progetto che aveva posto lo Stato plurinazionale al centro delle speranze dei settori tradizionalmente esclusi, e che si erano resi protagonisti delle formidabili lotte contro le privatizzazioni degli anni Novanta, a cominciare da quella per l’acqua pubblica.

Quanto alla corsa elettorale per il 2025, l’anno scorso, la Corte Costituzionale dello Stato Plurinazionale ha inabilitato Morales a correre per un nuovo mandato, adducendo che nessun boliviano può essere eletto alla stessa carica pubblica per più di due volte nella vita. Su questo tema, Morales e il campo progressista persero il referendum costituzionale nel 2016. Tuttavia, la Costituzione non vieta la rielezione in caso di interruzione del mandato e di una nuova candidatura. E Morales, fidando ancora su un ampio consenso nelle organizzazioni popolari, che criticano la gestione Arce, accusando il suo governo di essere corrotto e incapace, si mostra deciso a continuare.
A marzo scorso, il Gruppo de Puebla, un’alleanza progressista che comprende ex presidenti e rappresentanti politici dei governi amici a livello regionale, si è recata in Bolivia per compiere un tentativo di riappacificazione fra Arce e Morales, ma senza grandi risultati. Evo, che dirige anche la Runasur, un blocco di organizzazioni sociali latinoamericane, in maggioranza indigene, è stato presente anche di recente in Venezuela, invitato a un importante incontro del Popoli, organizzato a Caracas: insieme a Luis Arce, ma distante da lui.

Per Evo, Zúñiga è a capo del gruppo militare Pachajcho, incaricato di realizzare la sua eliminazione e quella dei suoi collaboratori. Domenica scorsa, l’ex presidente ha detto di essere in possesso di video e audio che lo dimostrano. La sua analisi e quella dei suoi collaboratori, non fa sconto all’ex alleato, accusato di voler perseguire la via di Lenin Moreno in Ecuador, l’ex delfino di Correa che ha aperto la strada al ritorno del neoliberismo selvaggio e a quello delle basi militari Usa. Pagine Esteri