di Khaled Elgindy* – Foreign Affairs

(traduzione di Federica Riccardi)

Per quasi due decenni, la leadership palestinese è stata attraversata da fratture. Oltre alla divisione di fondo tra Hamas a Gaza e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania, numerosi altri gruppi si sono confrontati per ottenere un’influenza sulla politica palestinese. A fine luglio, i leader di tutte le 14 fazioni politiche palestinesi, tra cui Fatah e Hamas, si sono incontrati a Pechino per lanciare un appello all’unità. L’accordo firmato, noto come Dichiarazione di Pechino, prometteva di creare un governo di intesa nazionale che presiedesse sia la Striscia di Gaza che la Cisgiordania, di riformare ed espandere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e di indire elezioni generali.

Tali proposte non sono nuove e ribadiscono in larga misura i principi stabiliti nei precedenti accordi di riconciliazione, ma hanno assunto un’urgenza molto maggiore alla luce della guerra senza precedenti di Israele contro Gaza. A metà agosto, l’assalto israeliano lanciato in risposta all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre aveva ucciso più di 40.000 palestinesi, per lo più donne e bambini, aveva costretto a sfollare due milioni di persone e aveva ridotto la maggior parte del territorio in macerie. È diventato il momento più letale della storia palestinese e l’episodio più distruttivo del secolare conflitto israelo-palestinese. In questa crisi, la Dichiarazione di Pechino fornisce una mappa per un futuro palestinese diverso, con una leadership credibile e istituzioni politiche funzionanti che saranno essenziali per affrontare il giorno dopo la guerra.

Eppure, nonostante la gravità della situazione, Mahmoud Abbas, presidente di lunga data dell’Autorità Palestinese e leader di Fatah in Cisgiordania, attraverso un portavoce, ha disprezzato la Dichiarazione di Pechino come inutile e insignificante. (Abbas ha inviato ai colloqui un rappresentante di Fatah al suo posto). È sconcertante che un leader politico, specialmente uno profondamente impopolare come Abbas, in un momento di trauma nazionale e di disperazione esistenziale, mostri un così aperto disprezzo per una dimostrazione di unità nazionale.

Forse ha percepito che Hamas era con le spalle al muro e quindi non ha sentito l’urgenza di condividere il potere con il gruppo. O forse non ha voluto sfidare gli esponenti statunitensi e israeliani che, dopo il 7 ottobre, sono assolutamente contrari a qualsiasi accordo politico con Hamas. In ogni caso, l’arrogante rifiuto del piano da parte di Abbas ha evidenziato due caratteristiche dei suoi quasi venti anni di potere: un profondo distacco dal suo popolo e la mancanza di volontà nel promuovere una strategia coerente per la liberazione della Palestina. Se la storia dolorosa dei palestinesi ha insegnato loro qualcosa, è che le cose brutte accadono quando non hanno leader credibili. Questo è il caso di Abbas oggi.

Un tempo visto come un promettente pacificatore e riformatore politico, Abbas si è progressivamente trasformato in un dirigente dall’autorità erratica e ottusa, con una serie praticamente ininterrotta di fallimenti. Sebbene alcuni di questi insuccessi siano stati il risultato di forze al di fuori del suo controllo, in particolare nei primi anni di governo, la maggior parte sono stati autoinflitti. Un breve elenco di questi autogol includerebbe l’aver lasciato che si manifestasse un debilitante scisma politico interno, l’aver creato un ambiente di crescente corruzione e autoritarismo e, punto ancora più cruciale, l’aver fallito nel proporre una strategia coerente per la liberazione nazionale. In nessun luogo le carenze di Abbas sono state più evidenti – e conseguenti – che a Gaza, dove vive circa il 40% di tutti i palestinesi sotto occupazione israeliana e da cui la sua stessa Autorità palestinese è stata espulsa per volere di Hamas nel 2007. Abbas ha sempre evitato di affrontare i problemi di Gaza, permettendo a questo territorio di paralizzare la politica interna palestinese e di ostacolare ripetutamente i negoziati di pace.

Ora, nel mezzo di una guerra terribile e senza fine, Abbas avrebbe l’opportunità di mitigare alcuni dei danni causati ai palestinesi e alla sua stessa eredità perseguendo l’unità palestinese. Eppure, anche in questo momento decisivo della storia palestinese, Abbas rimane uno spettatore impotente, con poca voce in capitolo sia nella guerra che nella pace. Naturalmente, non è l’unico responsabile dell’abbandono della questione palestinese che ha portato all’attacco del 7 ottobre: Hamas, Israele, gli Stati Uniti e lo stesso processo di pace hanno indubbiamente avuto un ruolo. Ma la leadership carente di Abbas ha contribuito a creare le condizioni che hanno fatto precipitare la guerra, e la sua mancanza di visione del futuro sta contribuendo a prolungarla.

Abu Mazen

UN PASSO INDIETRO DOPO L’ALTRO

I problemi con la direzione dell’Autorità Palestinese da parte di Abbas hanno una lunga storia. Il suo mandato è iniziato in modo positivo nel gennaio 2005, dopo la morte di Yaser Arafat, il presidente dell’OLP e fondatore dell’AP che aveva dominato la politica palestinese per decenni. Ma Abbas ha dovuto rapidamente affrontare una battuta d’arresto dopo l’altra. Due sviluppi chiave in particolare – il fallimento del disimpegno unilaterale di Israele da Gaza alla fine del 2005 e il crollo del governo di unità nazionale, e la conseguente guerra civile a Gaza nel 2007 – hanno condannato di fatto la sua leadership. Abbas era entrato in carica con il duplice obiettivo di unificare le frazioni palestinesi sotto il suo governo e di ottenere un accordo di pace che ponesse fine a decenni di occupazione israeliana e portasse a uno Stato palestinese indipendente. A differenza di Arafat, che spesso cercava di far leva sulla violenza politica, Abbas è stato fermamente impegnato nella diplomazia. In effetti, Abbas, che compirà 89 anni a novembre, con la sua parlantina pacata e il suo carattere anacronistico, rappresenta tutto ciò che non era il suo predecessore. Abbas è decisamente poco carismatico e notoriamente avverso alle folle. Il suo atteggiamento è più quello di un preside di scuola che del leader di un movimento di liberazione.

Nel giro di un mese dal suo insediamento, Abbas è riuscito a unire le varie fazioni palestinesi per sostenere un accordo di cessate il fuoco con il primo ministro israeliano Ariel Sharon, ponendo così fine a più di quattro anni di spargimento di sangue che hanno contraddistinto la seconda intifada. Abbas sperava di sfruttare la calma per gettare le basi della diplomazia, ma Sharon non era interessato a un processo di pace. Al contrario, ha presentato un piano radicale di ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, una mossa che non mirava a promuovere una soluzione a due Stati ma piuttosto, come l’ha descritta il capo dello staff di Sharon, Dov Weissglas, a mettere la sovranità palestinese “in formaldeide”. Israele ha chiuso di fatto i confini di Gaza, mandando in tilt la sua economia. Il fallimento del disimpegno unilaterale di Israele, sebbene non sia colpa di Abbas, ha innescato una catena di eventi da cui la sua presidenza non si sarebbe mai ripresa.

Per cominciare, la vittoria elettorale a sorpresa di Hamas alle elezioni nazionali del gennaio 2006 ha posto fine di fatto a quattro decenni di dominio di Fatah sulla politica palestinese. Questo fu un duro colpo non solo per Abbas, ma anche per il processo di pace guidato dagli Stati Uniti. Sebbene Abbas sperasse di incoraggiare la moderazione politica di Hamas, gli Stati Uniti e Israele adottarono un approccio di tolleranza zero nei confronti del gruppo, designato come organizzazione terroristica: hanno rifiutato categoricamente di trattare con Hamas finché non avesse deposto le armi e riconosciuto Israele. Mentre Israele tratteneva le entrate fiscali che costituivano la maggior parte del bilancio dell’Autorità Palestinese, gli Stati Uniti hanno imposto un boicottaggio internazionale del nuovo governo guidato da Hamas, devastando l’economia palestinese e spingendo in breve tempo l’Autorità Palestinese sull’orlo del collasso.

Nella speranza di attenuare la crisi, nel febbraio 2007 Abbas ha raggiunto un accordo di unità con Hamas, noto come Accordo della Mecca, in cui Hamas ha accettato di cedere a Fatah il controllo sulla maggior parte dei ministeri dell’Autorità Palestinese. Sebbene l’accordo sia stato sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli altri alleati arabi di Washington, gli Stati Uniti e Israele hanno continuato a rifiutare qualsiasi accordo che permettesse ad Hamas di rimanere al governo. Invece, l’amministrazione Bush ha fatto pressione su Abbas affinché sciogliesse il governo e indicesse nuove elezioni, una mossa straordinaria e incostituzionale. Il leader si è così trovato di fronte ad una scelta impossibile: rovesciare i risultati di un’elezione democratica e scatenare una guerra civile o rischiare un isolamento internazionale a tempo indeterminato e il collasso finale dell’Autorità Palestinese. Mentre le pressioni statunitensi e israeliane aumentavano, nel giugno 2007 sono scoppiati gli scontri armati tra Hamas e l’Autorità Palestinese, che si sono conclusi con la conquista di Gaza da parte di Hamas e l’espulsione dell’Autorità Palestinese dal territorio.

Un Abbas umiliato ha sciolto il governo di unità putativa e accusato Hamas di aver organizzato un colpo di stato a Gaza. Israele ha premiato Abbas togliendo l’assedio alla Cisgiordania e punendo Gaza con un blocco totale.

Il fallimento dell’Accordo della Mecca e la conseguente guerra civile del 2007 hanno consolidato le divisioni emergenti nella politica palestinese e hanno garantito una continua instabilità a Gaza. Non è chiaro se gli Stati Uniti e Israele fossero disposti a far crollare l’Autorità Palestinese e l’intero edificio degli accordi di Oslo per tenere Hamas fuori dalla politica palestinese. Ma dando la priorità alle richieste di un processo di pace guidato dagli Stati Uniti rispetto all’unità nazionale, Abbas si è assicurato che non avrebbe ottenuto né l’uno né l’altra.

La scissione con Hamas ha lasciato la leadership di Abbas permanentemente in bilico: troppo debole per essere un partner di pace credibile e troppo dipendente dagli Stati Uniti e da Israele per perseguire una significativa unità nazionale. Questo è stato evidente quasi subito, con il rilancio dei negoziati di pace ad Annapolis alla fine del 2007. I colloqui sono durati un anno, fino allo scoppio della guerra tra Israele e Hamas nel dicembre 2008. All’epoca, si era trattato del conflitto più letale mai avvenuto a Gaza e della prima di numerose guerre sanguinose negli anni successivi. L’offensiva israeliana, che ha causato la morte di circa 1.400 palestinesi e 13 israeliani, ha eroso seriamente il sostegno di Abbas. Molti palestinesi hanno cominciato a consideralo non solo impotente a fermare l’aggressione ma anche, data la sua faida con Hamas, come un complice.

Mesi dopo, Abbas è stato costretto a rivivere l’incubo in seguito alla pubblicazione del rapporto Goldstone, un’indagine richiesta dalle Nazioni Unite sulla guerra di Gaza del 2008-9, che accusava Israele e Hamas di aver commesso crimini di guerra. Quando il rapporto Goldstone è stato sottoposto al voto delle Nazioni Unite alla fine del 2009, il leader ha subito forti pressioni da parte di Stati Uniti e Israele per chiedere ai suoi alleati di ritardare il voto, cosa che fece, scatenando una tempesta di fuoco. Per molti palestinesi, la volontà di Abbas di abbandonare i gazawi uccisi in guerra e di rinunciare a una leva cruciale contro gli occupanti israeliani equivaleva a un tradimento. Nonostante i tentativi di Abbas di limitare i danni, compresa una mezza offerta di dimissioni, la debacle di Goldstone ha segnato un nuovo punto basso della sua presidenza. Ormai politicamente paralizzato, egli ha trascorso l’anno successivo evitando le pressioni statunitensi per riprendere i negoziati diretti con Israele, accettando solo di partecipare a “colloqui di prossimità” indiretti, in cui i funzionari statunitensi comunicavano separatamente con i negoziatori palestinesi e israeliani. Anche quando Washington è riuscito a convincere Abbas a rilanciare i negoziati diretti, nel settembre 2010, questi si sono interrotti nel giro di poche settimane.

MORTE PER TRIANGOLAZIONE

Le rivolte della Primavera araba, iniziate alla fine del 2010 e che continuarono a diffondersi in tutto il Medio Oriente per gran parte del 2011, hanno causato altri grattacapi ad Abbas. All’inizio del 2011, una rivolta popolare ha portato al rovesciamento di Hosni Mubarak, l’uomo forte di lunga data dell’Egitto e il più importante alleato di Abbas nel mondo arabo. Dopo la cacciata di Mubarak, i Fratelli Musulmani egiziani, alleati di Hamas, hanno conquistato brevemente il potere, rafforzando i rivali di Abbas. Inoltre, la legittimità di Abbas continuava ad essere debole, poiché l’Autorità Palestinese restava divisa, corrotta e repressiva. Le proteste si estesero alla Cisgiordania e a Gaza. Con i manifestanti che chiedevano la fine delle divisioni tra Fatah e Hamas, Abbas è stato costretto ad allontanarsi dal processo di pace guidato dagli Stati Uniti e a perseguire l’unità nazionale. Nel maggio 2011 ha firmato un accordo di riconciliazione con Hamas, che prevedeva la formazione di un governo di consenso nazionale composto da tecnocrati non affiliati ad alcuna fazione, nonché nuove elezioni presidenziali e legislative. Allo stesso tempo ha proseguito con l’adesione all’ONU.

Sebbene molto popolari in patria, entrambe le misure hanno suscitato una risposta punitiva da parte degli Stati Uniti e di Israele. Di conseguenza, Abbas è stato costretto a muoversi con prudenza, trascinando l’attuazione del patto di riconciliazione con Hamas e avanzando lentamente con la sua candidatura all’ONU. Ha ricevuto un tanto necessario sostegno interno quando, nel novembre 2012, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite finalmente votò per riconoscere la Palestina come Stato non membro. Il nuovo status permise ai palestinesi di entrare a far parte di molti organismi internazionali, come la Corte Penale Internazionale (CPI).

Nonostante i fugaci momenti di ribellione, tuttavia, Abbas era troppo dipendente dagli Stati Uniti per staccarsene completamente. L’adesione al processo di pace guidato dagli Stati Uniti è diventata una sua responsabilità, perché la maggior parte dei palestinesi considerava tale processo come altamente squilibrato e inefficace.

Abbas ha cercato di bilanciare questi interessi contrastanti percorrendo contemporaneamente tre strade: la riconciliazione interna, l’internazionalizzazione del conflitto israelo-palestinese attraverso le Nazioni Unite e altri forum multilaterali e i negoziati con Israele sponsorizzati dagli Stati Uniti. Ma invece di intrecciare tutti e tre i binari in un unico piano coerente per la liberazione nazionale, Abbas ha oscillato tra ognuna di queste priorità, senza impegnarsi pienamente in nessuna di esse. Quando un percorso si esauriva o diventava troppo costoso, Abbas passava semplicemente a quello successivo. Così, quando i negoziati con il Segretario di Stato americano John Kerry sono franati (piuttosto prevedibilmente) nel marzo 2014 dopo soli nove mesi, Abbas ha cambiato strada aderendo a 15 accordi e organizzazioni internazionali e firmando un altro accordo di riconciliazione con Hamas.

Ma Abbas è rimasto impotente nell’influenzare gli eventi a Gaza. Lo scoppio di un’altra devastante guerra nel territorio nel 2014 ha causato circa 2.200 morti tra i palestinesi e 70 tra gli israeliani, e ha compromesso ancora una volta la posizione interna di Abbas. Molti palestinesi si sono indignati contro l’Autorità Palestinese, ritenendo che si fosse schierata con Israele e gli Stati Uniti contro Hamas. Per placare la rabbia, all’inizio del 2015 Abbas ha aderito alla Corte Penale Internazionale, un passo che molti israeliani consideravano “un’opzione nucleare” e che Abbas, fino a quel momento, aveva evitato con cura. La decisione ha innescato nuove sanzioni contro l’Autorità Palestinese da parte di Israele e Stati Uniti. Abbas era ora intrappolato in un circolo vizioso in gran parte da lui stesso creato: più si indeboliva, più si sentiva costretto a prendere le distanze da Israele e dal processo di pace, ma più sfidava i funzionari statunitensi e israeliani, più aumentava il numero di sanzioni che doveva affrontare e più si indeboliva.

Nel 2015, i muri hanno iniziato a chiudersi intorno ad Abbas che ha ottenuto un momentaneo picco di popolarità aderendo alla Corte Penale Internazionale. Ma questo passo ha indicato anche che aveva portato il percorso di internazionalizzazione al suo limite massimo. Nel frattempo, la rielezione del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, a capo di una coalizione ancora più di destra rispetto al passato, ha messo fine a qualsiasi possibilità di ripresa dei negoziati di pace. La stasi diplomatica e l’urgente necessità di ricostruire Gaza hanno rappresentato un momento opportuno per mettere finalmente ordine in casa palestinese, ma Abbas ha perso nuovamente tempo. Sia gli Stati Uniti che Israele avevano mitigato la loro posizione nei confronti della riconciliazione palestinese, lasciando intendere che avrebbero potuto lavorare (o almeno convivere) con il governo di consenso. Ma il governo di consenso, che non era ancora operativo a Gaza, è stato sciolto da Abbas appena un anno dopo la sua formazione, ritardando gli sforzi di ricostruzione nell’enclave distrutta dalla guerra. Sebbene Hamas, accettando la condivisione del potere, avesse indicato la volontà di rinunciare al suo ruolo di governo nel territorio, Abbas era riluttante ad ereditare la miriade di problemi sociali, economici e di sicurezza di Gaza, per i quali aveva poche soluzioni. Inoltre, era ancora meno propenso a condividere il potere con Hamas in un’OLP ampliata e riformata. Durante questo periodo, la popolarità di Abbas è crollata ai minimi storici, con quasi due terzi dei palestinesi che hanno affermato di preferire le sue dimissioni, una percentuale che sarebbe aumentata nel corso degli anni. La speculazione pubblica su chi avrebbe potuto succedere all’anziano leader divenne una preoccupazione nazionale.

ABBAS, IL TIRANNO

Man mano che la sua strategia di rimbalzare da un binario all’altro cominciava ad esaurirsi, e con l’emorragia di legittimità, Abbas è diventato sempre più autocratico e paranoico. Ha iniziato a scagliarsi contro gli aspiranti rivali e sfidanti, sia reali che immaginari. La lista dei suoi nemici interni si è allungata, includendo l’ex-capo della sicurezza gazawi Muhammad Dahlan, l’ex-premier Salam Fayyad e l’alto esponente dell’OLP Yaser Abed Rabbo. Per mascherare l’arbitrarietà del suo governo, nel 2016 ha creato una nuova Corte Costituzionale Suprema, che ha impacchettato con i suoi fedelissimi per dare il beneplacito alle sue decisioni. Due anni dopo, Abbas ha resuscitato per la prima volta in ventidue anni il Consiglio Nazionale Palestinese, il parlamento dell’OLP in esilio e inattivo da tempo, per eleggere un nuovo Comitato Esecutivo. Quest’ultimo lo ha riconfermato doverosamente alla presidenza e ha rinnovato opportunamente il suo mandato di presidente dell’Autorità Palestinese, eliminando la necessità di elezioni. Nonostante tali misure siano state condannate dalla società civile e dai gruppi di opposizione, Abbas ha perseverato. Alla fine del 2018, egli ha utilizzato i suoi nuovi poteri per sciogliere formalmente il Consiglio Legislativo dell’Autorità Palestinese (in gran parte inattivo).

Essendosi legato completamente alla nave che affondava del processo di pace guidato dagli Stati Uniti, Abbas si è esposto alle oscillazioni del pendolo della politica statunitense e israeliana negli anni successivi. Egli ha cercato inizialmente di ingraziarsi il presidente americano Donald Trump, ma è stato costretto a cambiare rotta alla fine del 2017 quando Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ribaltando venti anni di politica statunitense. Abbas ha compiuto allora il passo scomodo – e per l’AP, senza precedenti – di dichiarare che gli Stati Uniti non potevano più far parte del processo di pace.

Ma Trump aveva solo iniziato. Negli anni successivi, la sua amministrazione si è scagliata contro Abbas, interrompendo tutti gli aiuti ai palestinesi all’interno e all’esterno dei Territori occupati, ribaltando le politiche statunitensi sugli insediamenti dichiarandoli legali, eliminando la formula “terra in cambio di pace” e persino rinunciando all’idea che i palestinesi vivessero sotto l’occupazione israeliana. Ironia della sorte, l’assalto anti-palestinese di Trump ha aiutato inavvertitamente la leadership vacillante di Abbas. In risposta al cosiddetto Accordo del Secolo di Trump, un preteso accordo di pace che ha concesso a Israele quasi tutte le sue richieste principali, e alle sempre più frequenti dichiarazioni degli israeliani sull’annessione formale della Cisgiordania, Abbas ha portato a compimento la sua storica minaccia di interrompere gli accordi sulla sicurezza con Israele, dando al leader assediato una fugace spinta di popolarità.

Inoltre, gli Accordi di Abramo – gli accordi di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, firmati nel settembre 2020 – costrinsero i palestinesi a riunirsi per difendere la loro lotta di liberazione, che era stata di fatto messa da parte. Gli accordi hanno segnato una svolta nella politica estera di molti Paesi arabi, che in precedenza avevano dichiarato di voler stringere legami diplomatici formali con Israele solo in cambio di concessioni ai palestinesi. Pochi giorni dopo la firma degli Accordi di Abramo, Fatah e Hamas hanno firmato il loro accordo di riconciliazione di più ampia portata, che per la prima volta includeva un calendario per le elezioni presidenziali e legislative.

Se mai ci fosse stata un’occasione per Abbas di riscrivere la sua eredità, avrebbero dovuto essere le elezioni nazionali previste per la primavera e l’estate del 2021. Anche se Fatah e Hamas hanno cercato di precostituire il risultato, c’è stato un genuino entusiasmo popolare alla prospettiva di rilanciare la politica palestinese dopo anni di stagnazione, con 36 liste elettorali e più di 1.300 candidati che avrebbero partecipato alle prime elezioni nazionali in quindici anni. Nel gennaio 2021, tuttavia, il presidente Joe Biden è entrato in carica e, ancora una volta, Abbas ha subordinato le esigenze del suo popolo al tentativo di accattivarsi il favore della nuova amministrazione di Washington.

In primo luogo, Abbas ha ripreso rapidamente il coordinamento sulla sicurezza con Israele e ha fatto altri gesti per rientrare nelle grazie di Washington. Il sentimento non è stato reciproco. Biden ha ripristinato gli aiuti ai palestinesi, ma non si è mostrato disponibile ad investire un capitale politico importante né nei palestinesi né nella soluzione dei due Stati. Tuttavia, con il disgelo nelle relazioni con gli Stati Uniti, Abbas si è sentito di nuovo a suo agio nel congelare la politica interna. Con l’avvicinarsi delle elezioni palestinesi, Abbas si è innervosito per le prospettive del suo partito Fatah, che rimaneva profondamente diviso. A poco più di tre settimane dal voto, il presidente ha annullato le elezioni, scatenando una diffusa indignazione tra i palestinesi. La decisione è stato accolta con silenzio da Washington.

La decisione di Abbas di annullare le elezioni si è rivelata una delle mosse più importanti della sua carriera politica. Lo svolgimento del voto avrebbe posto fine al debilitante scisma con Hamas, inserendo il gruppo nella politica formale e avrebbe potuto persino prevenire l’attacco del 7 ottobre, dal momento che Hamas avrebbe perso in larga misura la capacità di agire come un “giocatore svincolato”. Invece, annullando il voto, Abbas ha suggellato la sua disastrosa eredità e accelerato la sua fine politica. Poche settimane dopo aver rinunciato alle elezioni, le forze di sicurezza dell’Autorità hanno assassinato Nizar Banat, un popolare attivista e critico di Abbas, scatenando settimane di proteste e sottolineando la degradazione morale dell’amministrazione palestinese.

Durante l’attuale guerra di Israele a Gaza, Abbas è rimasto impotente e irrilevante e persino il suo feudo in Cisgiordania ha iniziato a sgretolarsi. Con un’Autorità Palestinese in ristrettezze economiche che fatica a pagare gli stipendi, la violenta repressione israeliana contro gli insorti armati nel nord della Cisgiordania ha sconvolto la vita dei palestinesi comuni e costretto le forze di sicurezza dell’Autorità ad abbandonare alcune zone di quella regione.

GRAZIE, IL PROSSIMO

Naturalmente, qualsiasi leader palestinese deve affrontare notevoli limitazioni di potere. A causa dell’apolidia dei palestinesi e della subordinazione dell’Autorità Palestinese a Israele, nessun leader palestinese può influenzare i risultati nello stesso modo in cui può farlo una controparte israeliana o statunitense. Nonostante le limitazioni che Abbas ha dovuto affrontare, ci sono stati momenti in cui ha dimostrato di essere in grado di ottenere risultati significativi, spesso con grandi rischi. È riuscito a resistere alle sanzioni statunitensi e israeliane per ottenere lo status di Paese non membro delle Nazioni Unite per la Palestina nel 2012 e per aderire alla Corte Penale Internazionale nel 2015. Di fatto, è stata la campagna di Abbas per costruire il sostegno internazionale ai palestinesi attraverso gli organismi multilaterali a spianare la strada all’indagine della Corte Internazionale di Giustizia su Israele per il crimine di genocidio, quest’anno, e alla richiesta di mandati di arresto da parte del procuratore della CPI per i leader israeliani e di Hamas. Ma Abbas è stato disposto a sfidare gli Stati Uniti e Israele solo quando ciò gli è servito personalmente, ad esempio per migliorare la sua posizione interna. Non è stato disposto a correre gli stessi rischi al servizio del suo popolo, ad esempio ponendo fine alla frattura con Hamas, che avrebbe richiesto una forma di condivisione del potere.

Il dilemma centrale di Abbas è sempre stato quello di trovare un equilibrio tra la necessità di un accordo di pace con Israele e l’imperativo dell’unità nazionale. Ciò che Abbas, e i leader israeliani e statunitensi, non hanno capito, tuttavia, è che senza la riconciliazione nazionale non c’è praticamente alcuna speranza per una pace duratura con Israele. Sacrificando la coesione politica palestinese e la propria legittimità interna sull’altare di un processo di pace guidato dagli Stati Uniti, Abbas ha arrecato un danno incommensurabile alla lotta palestinese. Israele ha rafforzato la spaccatura palestinese attraverso la sua strategia del dividere e conquistare, che si è rivelata altrettanto miope e dannosa, come ha dimostrato l’attacco del 7 ottobre.

Ma Abbas non ci sarà per sempre ed è fondamentale che i palestinesi guardino a un successore che possa finalmente superare le tensioni che hanno paralizzato la sua leadership fin dall’inizio. Il successore di Abbas dovrà risolvere questo dilemma unificando la fratturata politica palestinese, anche incorporando Hamas nelle strutture politiche formali, come l’OLP. Questo sarà molto difficile da digerire per i funzionari israeliani e statunitensi, ma il gruppo non sparirà e permettergli di continuare ad agire come un “giocatore svincolato” sarebbe ancora peggio. Con o senza il sostegno degli Stati Uniti, il prossimo leader palestinese dovrà articolare una visione chiara dell’unità nazionale e della liberazione, che non sia più legata a un processo di pace disfunzionale e obsoleto.

*KHALED ELGINDY è Senior Fellow e direttore del Programma sulla Palestina e gli affari palestinesi-israeliani presso il Middle East Institute. È autore di Blind Spot: America and the Palestinians, From Balfour to Trump.