di Francesco Dall’Aglio* –
Pagine Esteri, 6 settembre 2024. Esattamente un mese fa, all’alba del 6 agosto, reparti dell’esercito ucraino hanno sferrato un attacco a sorpresa oltre il confine russo, prendendo il controllo del posto di frontiera di Sudža e dilagando nella regione di Kursk. A differenza delle operazioni oltrefrontiera organizzate in passato, questa volta non sono stati impiegati i reparti della Legione ‟Libertà alla Russia” e del ‟Corpo Volontario Russo”, che nel marzo e maggio 2023 avevano sconfinato nelle regioni di Brjansk e di Belgorod affermando di averlo fatto di loro spontanea iniziativa e senza l’autorizzazione né del comando ucraino né degli alleati occidentali, ma truppe regolari ucraine. Questo lasciava intendere fin dal principio che non si trattava di una mera operazione di propaganda come le precedenti, ma di un’azione ben più ambiziosa. Non un’incursione, insomma, ma un’invasione.
La sorpresa è stata pressoché totale e le unità ucraine sono avanzate molto velocemente e in profondità. L’area era stata scelta con cura e presentava, per gli attaccanti, una serie di vantaggi non indifferenti. Si tratta infatti di una regione poco antropizzata, formata da campi, boschi, piccoli villaggi collegati tra loro da poche strade, senza grossi centri urbani presidiati da reparti russi. Inoltre la difesa del posto di confine e dell’area circostante era affidata non a reparti di militari professionisti ma ad alcuni nuclei di guardie di frontiera e, soprattutto, a soldati di leva che si sono in gran parte arresi immediatamente: come da tradizione russa, la difesa dei confini è scaglionata in profondità e quel settore era, per motivi non chiari ma evidentemente noti all’intelligence ucraina, più sguarnito di altri. La reazione dell’artiglieria e dell’aviazione russa è stata veloce, ma si è concentrata sulle colonne di blindati che facevano parte della seconda ondata di truppe e che sono state colpite ancora in territorio ucraino, mentre i primi scaglioni, su mezzi mobilissimi e leggeri, erano già oltre la linea di difesa e imperversavano nella regione, evitando con cura di impegnarsi in scontri con le unità russe che iniziavano ad affluire e cercando, con successo, di seminare quanta più confusione possibile, senza che potesse essere subito chiaro quante unità erano impegnate e quali erano gli obiettivi dell’operazione. Dopo alcuni giorni la situazione si è relativamente stabilizzata e l’avanzata ucraina è stata contenuta, ma a tutt’oggi la testa di ponte oltreconfine resiste, tutto sommato senza eccessive difficoltà. Al momento, l’oblast’ di Kursk è diventata un altro attrattore di uomini, mezzi e risorse, come il fronte aperto dai russi a Volčansk. E come di questo fronte secondario se ne parla sempre meno, nel senso che di solito non vi si verificano avvenimenti degni di nota.
Le motivazioni alla base di una operazione tanto audace quanto rischiosa sono varie e di varia natura, sia militari che politiche. Dal punto di vista militare abbiamo provato a sintetizzare nella prima carta l’obiettivo strategico che il comando ucraino si era probabilmente prefissato, e le fasi operative attraverso cui doveva realizzarsi.
[CARTA 1]
Il primo obiettivo era una cintura di cittadine a breve distanza dal confine, che avrebbero garantito sia il controllo dei principali assi viari della zona che la possibilità di trasformarli in centri logistici, per poi muovere in direzione nord-nordest verso Ryl’sk, L’gov e Liubimovka, verosimilmente gli obiettivi finali. L’idea che intendessero spingersi fino alla centrale nucleare di Kurčatov o addirittura fino a Kursk, come si favoleggiava nei primi momenti dell’invasione, non è mai stata realmente praticabile, sia per le difficoltà oggettive di una simile operazione che per i rischi connessi all’attacco a una centrale nucleare pienamente operativa, oltre che per il prevedibile contraccolpo diplomatico. La protezione del fianco destro sarebbe stata assicurata, per quanto possibile, dal terreno difficile fatto di colline, boschi e corsi d’acqua. Per il fianco sinistro, credo che il comando ucraino avesse obiettivi più ambiziosi: replicare, anche se in tono minore, l’operazione che aveva portato nella tarda estate del 2022 le truppe ucraine a scacciare i russi dalla regione di Kharkiv, non tanto impegnandoli in combattimento quanto, con la stessa velocità dimostrata ora a Kursk, inserendosi in profondità nelle linee, tagliando le vie di comunicazione e di rifornimenti, isolando e liquidando le unità rimaste oltre le linee. Resosi conto della situazione, il comando russo aveva iniziato molto velocemente una serie di ritirate che gli avevano consentito di salvare la gran parte delle truppe e del materiale, a prezzo però di perdere molto territorio come si può vedere dalla seconda carta.
[CARTA 2, Rr016, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons]
Qui invece l’obiettivo era su scala più ridotta: tagliare l’autostrada E38, l’unica linea di rifornimento per i posti di confine di Kozino e Tetkino, difesi da guarnigioni ben più sostanziose di quella di Sudža ma che a questo punto sarebbero state costrette o a ritirarsi per strade secondarie, con tutte le difficoltà del caso, o a correre il rischio di rimanere isolate. In questo modo le forze ucraine avrebbero preso il controllo di un’area ben più grande di quella dove effettivamente erano in corso i combattimenti, ripetendo così la brillante operazione di Kharkiv su scala certamente minore ma con la grande differenza che questa volta i russi non si sarebbero ritirati precipitosamente da un territorio occupato ma dal territorio della Federazione. Se poi le guarnigioni dei due posti di frontiera fossero state accerchiate e costrette alla resa, o distrutte, oltre al danno in termini pratici ci sarebbero state serissime conseguenze politiche e d’immagine per il comando e la leadership russa. Una prova che questa interpretazione dell’obiettivo strategico ucraino sia valida sta nella distruzione, una decina di giorni dopo l’inizio delle operazioni, dei due ponti sul fiume Seym, a Zvannoe e Glushkovo (segnati sulla prima carta): segno che l’idea di isolare almeno la guarnigione di Tetkino ha continuato ad essere perseguita, anche se non si è realizzata.
Il piano era sicuramente ben congegnato e, sulla carta, molto valido. Nella realtà, però, nonostante l’effetto sorpresa e una risposta russa abbastanza confusa nelle prime 48 ore, gli obiettivi sono stati raggiunti solo in minima parte, come si può vedere dalla terza carta tratta dal sito deepstatemap.live, fonte ucraina molto autorevole e molto citata.
[CARTA 3]
Dei quattro centri più vicini al confine sono caduti in mano ucraina solo Sudža e Malaya Loknya (quest’ultima contestata), e in direzione nord, quella più importante, non è stato raggiunto nessuno degli obiettivi intermedi. Soprattutto non è stato raggiunto il secondo scopo militare, ancora più del controllo di una porzione di territorio nemico: obbligare il comando russo a stornare uomini e mezzi per far fronte all’invasione, spostandoli dagli altri settori del fronte. Questo avrebbe portato non solo a un arresto delle operazioni nel Donbass ma anche a una riduzione del numero di soldati russi presenti sui fronti di Zaporižia e Cherson, cosa che avrebbe potuto essere sfruttata dal comando ucraino per organizzare qualche operazione offensiva, o almeno per far rifiatare le proprie truppe. Questo però non solo non si è verificato, ma sono stati gli ucraini a spostare alcune unità proprio dal Donbas in direzione dell’oblast’ di Kursk: questo ha consentito alle truppe russe di avanzare in maniera piuttosto veloce nel Donbas e prendere sotto controllo una serie di capisaldi importanti, e generato malumori e perplessità non solo nell’esercito ucraino ma anche negli alleati occidentali[1]. Il comando russo, messo di fronte alla possibilità concreta di dovere interrompere un’avanzata che, dalla presa di Avdiivka in poi, stava procedendo con ottimi risultati, ha preferito non metterla a rischio, accettando anche di vedere parte del proprio territorio occupato dalle truppe ucraine. Sono stati spediti nell’oblast’ di Kursk rinforzi sufficienti a impedire che la zona sotto controllo ucraino si allargasse ulteriormente e raggiungesse qualche punto nodale, ben sapendo che non sarebbero stati sufficienti a ricacciarli oltreconfine. Al tempo stesso il comando ucraino ha fatto, per il Donbas, un ragionamento di segno opposto, anche se proprio negli ultimi giorni sono stati inviati più rinforzi che hanno parzialmente stabilizzato la situazione e limitato i progressi russi. La situazione può sembrare paradossale: entrambe le parti stanno dando la priorità non al recupero del proprio territorio ma alla conquista di quello altrui. Ma entrambe le parti hanno ottimi motivi strategici per farlo. I russi perché il centro di gravità del conflitto è il Donbas, e gli ucraini perché, oltre agli obiettivi militari, questa offensiva ha anche obiettivi politici, probabilmente ancora più importanti.
La leadership ucraina è stata fin dall’inizio molto poco chiara su questi obiettivi, un po’ per giocare sull’ambiguità di una operazione complessa e non approvata da tutti, un po’ perché si sono naturalmente evoluti e modificati col passare del tempo. Quello dichiarato per primo era stato avere una pedina di scambio per sedersi al tavolo delle trattative, quando si fossero aperte, da una posizione di forza. La reazione russa però è stata, come era lecito aspettarsi, molto dura: qualsiasi idea di trattative è stata dichiarata d’ora in avanti irricevibile, anche se la leadership russa ha stemperato i toni parlando di ‟provocazione” e non di ‟invasione” del territorio russo, cosa che avrebbe potuto invece portare a conseguenze diplomatiche estreme quali una dichiarazione di guerra o la richiesta di aiuti agli alleati militari. Poi c’è stato, da parte di Zelensky, l’accenno a un ‟fondo di scambio”, subito interpretato dai media come scambio territoriale. Il Presidente ucraino si riferiva, però, allo scambio di prigionieri, il cui numero è molto sbilanciato a favore della Russia, che detiene molti più prigionieri ucraini dei russi catturati dalle forze di Kiev. Uno scambio di prigionieri infatti c’è stato il 24 agosto: 115 soldati di leva catturati il primo giorno, in pratica tutta la guarnigione del posto di frontiera, per 115 soldati ucraini. Di scambi di territori però non si è mai parlato, sia perché nessuna delle due parti vuole negoziare una cosa del genere, sia perché anche in questo caso la Russia occupa di gran lunga molto più territorio ucraino di quando non faccia l’Ucraina in Russia, e non si capisce per cosa dovrebbe scambiare Sudža. Un altro scopo era quello di provare a colpire psicologicamente la popolazione russa e provocare un’ondata di malcontento diretta verso Putin. Questo è sicuramente successo, ma paradossalmente negli ambienti del nazionalismo più oltranzista che già criticavano la sua gestione del conflitto come troppo ‟morbida”, non nel resto dell’elettorato.
Ma c’era soprattutto la necessità di modificare la narrazione del conflitto, che ormai vedeva da più di un anno l’Ucraina come parte esclusivamente soccombente. Invertire questa tendenza, mostrarsi nuovamente non solo vittoriosi ma propositivi, coraggiosi, sorprendenti in un conflitto che è anche mediatico, ha come scopo più importante quello di riconquistare il favore degli alleati, mettersi al sicuro da eventuali esiti infausti nelle elezioni presidenziali statunitensi, assicurarsi nuove forniture di materiale militare, nuovi finanziamenti, e magari la revoca del vincolo imposto dagli USA sull’utilizzo delle armi a lungo raggio sul territorio russo. Se gli Stati Uniti temono che questo possa portare a una escalation con la Russia, parrebbe essere il sottinteso, la presenza delle truppe ucraine sul suolo russo dimostra invece che quelle di Putin sono parole vane e che da parte della Russia non c’è la volontà o la capacità di opporsi, che le ‟linee rosse” sono solo propaganda.
Un ragionamento certamente pericoloso e che a Washington continuano a rifiutare anche aggrappandosi, come ha fatto Kirby ieri, ad argomentazioni speciose quali quella che il 90% degli asset militari russi sarebbe comunque oltre la gittata delle armi a disposizione dell’Ucraina, anche se cadesse il divieto di usarle[2]. Nell’intervista rilasciata alla NBC News il 3 settembre Zelensky ha, ancora una volta, parlato della lentezza con cui arrivano gli aiuti militari occidentali[3]. Segno evidente che questo continua ad essere il problema principale di cui soffre l’Ucraina, e che per risolverlo la sua leadership è disposta anche a operazioni rischiose e non concordate con gli alleati. La guerra sta forse entrando nella sua fase finale, ma proprio per questo le azioni imprevedibili potrebbero moltiplicarsi.
[1] Tra il 17 e il 19 agosto Forbes, The Economist, Guardian, Forbes, Times e Financial Times, New York Times e Washington Post hanno pubblicato una serie di articoli molto simili tra loro, nei quali venivano appunto espressi diversi dubbi e perplessità sull’operazione ucraina
[2] https://www.newsweek.com/white-house-russian-aircraft-out-ukraine-atacms-range-1949214
[3] https://www.nbcnews.com/news/world/zelenskyy-ukraine-russia-territory-seized-putin-kursk-rcna169280
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*Francesco Dall’Aglio. Laureato in lingue e culture dell’Europa Orientale presso l’Orientale di Napoli, dottorato in Storia dell’Europa presso la Sapienza di Roma. Ricercatore presso l’Istituto di studi storici dell’accademia bulgara delle scienze. Si occupa principalmente dei rapporti tra Europa Orientale e Occidentale nel tardo medioevo, della formazione delle identità etniche e nazionali in Europa orientale, del rapporto tra nomadi e sedentari nelle steppe euroasiatiche, dell’uso del passato medievale nella formazione del nazionalismo moderno e contemporaneo in Europa Orientale e di storia militare in generale. Oltre a un gran numero di ricerche per pubblicazioni specialistiche dei suoi settori di competenza, ha recentemente pubblicato, insieme a Carlo Ziviello, “Oppenheimer, Putin e altre storie sulla bomba” (Ad Est dell’Equatore, 2023)