Articolo pubblicato su Mondoweiss 

Di Tareq S. Hajjaj

Traduzione di Federica Riccardi

Pagine Esteri, 7 ottobre 2024 – Abbiamo trascorso anni a escogitare nuovi modi per sopravvivere ad un blocco israeliano che durava da quasi una generazione. Abbiamo sempre provato la sensazione che, dopo lunghi anni di sacrifici e di lotta continua per ottenere la nostra libertà, saremmo stati accolti da una luce alla fine del tunnel. Il popolo palestinese era destinato a porre fine all’occupazione e a strappare il diritto di vivere sulla propria terra e di tornare alle terre dei propri antenati.

Ma anche dopo 76 anni dalla prima Nakba, quegli stessi antenati che hanno lasciato Yaffa, Askelon e decine di città e villaggi distrutti da Israele nel 1948 prima di stabilirsi a Gaza, stanno ora rivivendo lo stesso destino. I massacri a cui hanno assistito, se non sono simili a quelli a cui sono sopravvissuti 76 anni fa, sono ancora più criminali e sanguinosi. Ma ciò che è peggio è che gli stessi eventi che hanno sofferto durante la Nakba vengono ora vissuti dai loro nipoti.

Ci sarà sempre chi rivivrà la Nakba o la sperimenterà per la prima volta finché l’occupazione israeliana della Palestina continuerà.

Sono nato nel quartiere di Shuja’iyya, nella parte orientale di Gaza. Mio padre viveva e lavorava lì come ogni altro padre di Gaza che voleva assicurare un futuro ai propri figli. È morto quando è stato sicuro che il futuro del suo figlio più giovane era assicurato.

Sono io il più giovane tra i miei fratelli, ho messo su una famiglia tutta mia e ho arredato una casa. Un anno dopo ho avuto un figlio che ha riempito di gioia la nostra casa. Mi stavo preparando per il futuro, con il mio sogno di creare una famiglia, di vivere sulla nostra terra in una casa circondata da ulivi e limoni, con tutti i miei fratelli e le loro famiglie che abitavano nello stesso edificio o proprio accanto. Avevo già dei buoni vicini, una vita piena di ricordi, il profumo del gelsomino all’ingresso di casa e i fiori di mandorlo che entravano nella nostra casa in primavera. Mia madre era solita sedersi nella sua casa e guardare il tramonto, con i mandorli in fiore ai suoi piedi, con i loro colori brillanti come stelle.

Ma la mia casa è diventata una borsa che ho portato sulle spalle dopo che l’esercito israeliano ha distrutto il quartiere in cui sono nato e cresciuto. La città per le cui strade ho camminato, i cui alberi ho memorizzato, ora non c’è più. Ho vissuto diverse guerre in quella città, riuscendo in qualche modo a sopravvivere come tutti gli altri e ad andare avanti con la mia vita. Ma non sono sopravvissuto a questa guerra. Ho capito troppo tardi che la borsa che conteneva tutto ciò che possedevo poteva finire per essere tutto ciò che avrei mai posseduto della mia patria.

Forme di sfollamento

Non potevo rischiare di rimanere a Gaza City, con una famiglia che includeva mio figlio di un anno, mia moglie e mia madre anziana. Ogni volta che l’esercito israeliano ci ordinava di evacuare un luogo o un altro, lo facevamo immediatamente. Abbiamo trascorso mesi a spostarci sotto gli spari.

Nella prima settimana di guerra, ci siamo spostati in diverse zone di Gaza City. A causa dell’interruzione della corrente elettrica e di internet, ogni giorno andavo in un bar vicino all’ospedale al-Shifa per lavorare. Facevo sempre la stessa strada e quando tornavo a casa scoprivo che il percorso che avevo fatto la mattina era cambiato la sera a causa dei pesanti bombardamenti.

La mia casa era a poca distanza, ma non potevo andarci. L’unica volta che ci sono tornato è stato per prendere dei vestiti e altre cose, perché pensavo che il nostro sfollamento sarebbe stato prolungato; quando sono arrivato, diversi attacchi aerei sono caduti nelle vicinanze e la casa si è riempita di fumo. Sono uscito senza chiudere a chiave le porte. Sono rimaste aperte finché non abbiamo saputo che era stata bombardata e rasa al suolo dall’esercito israeliano.

Tutto ciò che conoscevo e con cui ho vissuto per tutta la vita, tutti i miei ricordi d’infanzia e quelli con i miei genitori, i quadri appesi alle pareti e i gradini che portavano a casa mia, tutto si è trasformato in cenere.

Quando è stato emesso il primo avviso di evacuazione da Gaza City, ho preso la mia famiglia e sono andato a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Abbiamo trascorso più di due mesi in città, finché anche a Khan Younis è stato ordinato di evacuare. Siamo stati spostati ancora una volta verso Rafah. Sono rimasto senza la mia famiglia allargata, che era sparsa in diversi centri di sfollamento. Alla fine sono riuscito a lasciare definitivamente Gaza.

Ho sperimentato lo sfollamento interno al mio Paese e l’esilio forzato all’estero. Ora posso dire con assoluta certezza che lo sfollamento è molto più facile della partenza, nonostante i continui bombardamenti, i massacri, la fame e la mancanza di beni di prima necessità. Ho imparato a mie spese che la patria è insostituibile.

Tutto ciò che vedo fuori da Gaza, mi dico che Gaza se lo merita: le strade e gli alberi, gli aeroporti, le strade organizzate e illuminate, la libertà di movimento. Ho pianto a lungo per le persone che continuano a vivere le loro vite da sfollati come ricompensa per essere sfuggite alla macchina omicida israeliana.

Tutto ciò che rimane della mia patria è la borsa che porto con me, le immagini di distruzione dei telegiornali e le lacrime che non si fermano.

Giornalismo in guerra

Fare il giornalista in Palestina senza protezione internazionale e rispetto per la propria vita è come lavorare con la canna di una pistola carica sempre puntata alla testa.

Ho vissuto in mezzo al genocidio per sei mesi consecutivi. Onestamente non ho avuto paura della morte. Anche quando i miei colleghi di Mondoweiss mi hanno proposto di smettere di scrivere in un momento in cui Israele prendeva deliberatamente di mira i giornalisti schietti, ho scelto di scrivere e di continuare il mio lavoro. La mia vita non era più preziosa della verità. Ma la mia paura più grande era quella di essere ucciso sul campo e di lasciare il mio bambino di un anno da solo in un mondo che non conosce pietà.

Dovevo convivere con questi sentimenti di ansia ogni volta che uscivo per lavorare a una storia, o per scattare una foto, o per raccogliere testimonianze. Era la paura che mio figlio aspettasse il mio ritorno, fissando la porta e usando la parola che aveva appena imparato – “Baba” – ma che io non avrei aperto quella porta.

Ho assistito all’uccisione di decine di miei colleghi. Se la guerra non ci avesse separati, probabilmente sarei stato ancora con loro sul campo, come i miei amici Rushdi Sarraj, Mahmoud al-Naouq, Hassouna Salim e molti altri giornalisti uccisi da Israele mentre lavoravano o nelle case con le loro famiglie.

Uscire in missione era come andare verso l’ignoto. Dovevo nascondermi per evitare di essere individuato dai droni israeliani che sparavano indiscriminatamente sui civili. Potevano sganciare una bomba su chiunque e ucciderlo, come è successo al giornalista Ismail al-Ghoul, la cui testa è stata staccata dal corpo da un missile. Quando è stato necessario andare sul campo identificato come  giornalista, ho visto due diverse reazioni da parte della gente. Alcuni sono venuti a raccontare la loro amara storia, sperando che la loro voce potesse raggiungere qualcuno e ottenere un aiuto, mentre altri si sono allontanati da me per paura di essere presi di mira. Non ho criticato nessuno perché sapevo che quello che stavo facendo era pericoloso.

La strada verso la diaspora

Ora che ho vissuto la mia Nakba, capisco le ragioni che spinsero migliaia di palestinesi a fuggire dalle loro case nel 1948. Ho lasciato il mio Paese per salvare la vita della mia famiglia. Dopo aver visto mia madre soffrire per la guerra giorno dopo giorno e morire per mancanza di cure mediche, e dopo aver cercato per giorni nei mercati il latte artificiale per mio figlio, ho preso la decisione più difficile della mia vita.

Anche quando ho deciso di lasciare Gaza, non è stato facile né conveniente andarsene. I palestinesi dovevano pagare ingenti somme di denaro per passare attraverso il valico di Rafah, gestito dal governo di Hamas a Gaza e dalle autorità egiziane. Con l’aiuto di amici, sono riuscito a raccogliere la somma necessaria per il viaggio della mia famiglia, aspettando 40 giorni dopo aver pagato il denaro perché il mio nome fosse aggiunto alla lista dei viaggiatori. Dopodiché il mio corpo ha lasciato Gaza, ma la mia anima e il mio cuore non se ne sono mai andati.

Nella diaspora non posso possedere nulla, né casa né terra. Non un quadro da appendere al muro, né un mare come quello di Gaza, il mio compagno più importante nei momenti di ansia che mi ha riportato la pace.

Nella diaspora, il rifugiato possiede solo i suoi dolori, che crescono copiosamente ogni giorno trascorso lontano da casa. Nella diaspora, mi addolora molto il fatto che mio figlio crescerà da solo, senza i cugini che amavano giocare con lui, senza le zie e gli zii che non vedevano l’ora di assistere ai suoi primi passi e alle sue prime parole. Tutti lo adoravano perché era il bambino più piccolo della famiglia. Oggi è difficile trovare un bambino della sua età con cui giocare.

Dovrei condannare la resistenza palestinese per l’attacco del 7 ottobre? Molte piattaforme mediatiche internazionali lo fanno di sicuro. Hanno iniziato la loro copertura della guerra accusando la resistenza palestinese. Per loro, la resistenza è stata l’istigatrice del genocidio, dimenticando completamente la lunga e continua storia di Israele, che dal 1948 distribuisce morte e sfollamento in violazione di tutte le leggi e le norme internazionali. Per loro, quelle stesse leggi internazionali che riconoscono il diritto a un popolo sotto occupazione di impegnarsi in tutte le forme di resistenza per liberare le proprie terre non si applicano. La logica dei due pesi e due misure apllicata dal mondo ha cercato di dipingere i palestinesi che lottano per la libertà come criminali che se la sono cercata.

Sono gli stessi media e gli stessi Paesi che danno aiuti incondizionati all’Ucraina e non negano agli ucraini il diritto di difendersi. Eppure accusano di terrorismo i palestinesi, la cui causa è molto più giusta e che stanno cercando di rivendicare la loro patria occupata.

La mia casa è stata bombardata, la mia famiglia è stata sfollata più volte, mia madre è morta perché Israele ha impedito alle medicine e agli aiuti di raggiungere Gaza, e la mia intera patria è ora perduta per un periodo di tempo indefinito. Ma non biasimo la resistenza, perché senza resistere all’occupazione, gli israeliani continueranno a versare il nostro sangue e a compiere il loro genocidio contro di noi. Senza resistenza, non ci sarà nessuno ad ostacolarli.

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Tareq S. Hajjaj

Tareq S. Hajjaj è il corrispondente da Gaza di Mondoweiss e membro dell’Unione degli scrittori palestinesi. Seguitelo su Twitter all’indirizzo @Tareqshajjaj.