di Sara Cimmino
Pagine Esteri, 19 ottobre 2024 – Il 23 settembre è un giorno che ricorderanno per sempre non solo i libanesi. Il massiccio attacco aereo lanciato quel giorno da Israele – in poche ore sono stati colpiti 800 obiettivi nel sud e nell’est del Paese dei cedri – seguito da raid sulla capitale Beirut – ha spinto a fuggire tutti coloro che erano in grado di farlo. Molte famiglie libanesi in quei momenti drammatici hanno abbandonato anche i loro lavoratori stranieri, principalmente domestiche, tate, cuoche giunte dalle Filippine, Etiopia, Sri Lanka, Sudan. E’ così finita in strada da un giorno all’altro buona parte dei 250.000 migranti presenti in Libano, il 65% sono donne che speravano in una vita migliore dopo essere scappate dal loro paese in guerra e che ora si ritrovano al centro di un altro conflitto.
L’attivista Déa Hage Chahine da anni è un punto di riferimento per le donne migrate in Libano. Lo è diventata da quando ha iniziato a sostenere, con un altro gruppo di volontari, le centinaia di lavoratrici keniote che, in seguito all’esplosione del porto di Beirut del 4 agosto 2020, sono rimaste senza lavoro e senza una dimora. Ed è impegnata ancora di più in queste ultime settimane, da quando l’offensiva aerea e terrestre di Israele ha spinto un milione di libanesi ad abbandonare la propria casa e con essa i migranti che vi lavoravano. Aiuta le lavoratrici straniere a rimpatriare, quando è possibile.
“Queste donne sono invisibili” ci dice Déa Hage Chahine “arrivano a Beirut a piedi da tutto il Libano. I loro datori di lavoro hanno abbandonato il Libano e le hanno lasciate, nei casi più fortunati, davanti al proprio Consolato”. Non hanno quasi più nulla, qualche abito e poco più.
Quando sono iniziati gli attacchi israeliani, Dèa Hage Chahine con l’aiuto di alcuni amici ha cominciato a portare le prime migranti abbandonate in una scuola che era stata trasformata in rifugio per gli sfollati. Dopo poche ore la polizia le hanno fatte evacuare, non per la minaccia di un attacco israeliano, ma perché le scuole possono ospitare solo famiglie libanesi, 1,2 milioni di persone secondo le autorità.
“Così abbiamo occupato un magazzino abbandonato – prosegue l’attivista – senza acqua ed elettricità, quindi abbiamo portato un generatore che però non copre tutte le 24 ore. Adesso lì ci sono 150 donne e altre 60 sono in case private affittate dai volontari. Negli ultimi 17 giorni siamo diventati il maggior punto di riferimento per le donne migranti in Libano. Lavoriamo spesso dalle 7 di mattina alle 2 di notte, andiamo in pronto soccorso ogni giorno, ci sono donne che hanno problemi fisici e di salute mentale. Tutta la gestione della logistica è veramente intensa. Non dimentichiamo che, oltre alla guerra, queste donne sono state abusate, mentalmente e fisicamente. Vengono qui in Libano per costruirsi un futuro migliore e quando arrivano vengono trattate come schiave senza diritti. Questo è dovuto alla Kafala”.
La Kafala è il sistema di sponsorizzazione utilizzato per regolare il lavoro dei migranti. I migranti non possono cambiare lavoro o lasciare il paese senza il permesso del loro sponsor e ciò spesso porta a situazioni di sfruttamento e abuso.
“Vera e propria schiavitù moderna – precisa Dèa Hage Chahine – i datori di lavoro confiscano il loro passaporto. Vi lascio immaginare quanto sia difficile provare a rimpatriare queste persone. Tra le 150 donne attualmente presso il rifugio solo 3 sono in possesso del loro passaporto. Non hanno nessun diritto, sono spaventate, non sanno a chi rivolgersi in caso di emergenza o crisi, come in questo momento. Quando vanno alle loro ambasciate, i funzionari vogliono interagire solo con i loro datori di lavoro”.
Mentre parliamo, il telefono di Dèa Hage Chahine continua a squillare, decine di telefonate di persone che la informano di aver trovato un certo numero di materassi e cuscini p che si dicono disponibili a portare aiuti umanitari al rifugio.
“Pensi che potrai continuare questo impegno?”, le chiediamo. “Siamo in guerra, non sappiamo se domani dovremo andare via – ci risponde – Tutti i miei amici sono andati via. I miei fratelli sono andati all’estero. Ma io sono responsabile di molte persone qui e non posso andarmene. Ma non so cosa succederà e per quanto tempo potrò portare avanti questa missione. Al momento, come diciamo noi, Hamdullilah (grazie a Dio) ce la caviamo”.
Sulla pagina social aperta da Dèa Hage Chahine e i suoi amici per la raccolta fondi per i migranti e gli sfollati si legge: “Siamo un piccolo gruppo di cittadini impegnati che si è trasformato in un collettivo di base, lavorando sodo per alleviare parte della miseria che vediamo intorno a noi ogni giorno.” Pagine Esteri
Pagina di raccolta fondi https://gofund.me/3c361c45