Di Edo Konrad

https://www.972mag.com/israeli-media-pact-of-silence-gaza/

Traduzione di Federica Riccardi

Pagine Esteri, 22 ottobre 2024. A metà della nostra conversazione, Oren Persico fa una confessione sorprendente. Il giornalista israeliano, il cui lavoro per la metà degli ultimi vent’anni è stato quello di monitorare i media del suo Paese, non guarda i notiziari israeliani tradizionali.

“Non ci riesco”, mi dice Persico, che dal 2006 lavora come redattore per il sito israeliano di monitoraggio dei media The Seventh Eye. “È deprimente e irritante – è propaganda, è pieno di bugie. Per lo più, è un’immagine speculare della società in cui vivo, ed è difficile per me rompere la dissonanza tra la mia visione del mondo e ciò che mi circonda. Devo mantenere la mia sanità mentale”. Invece, Persico si tiene aggiornato scorrendo i siti di notizie, i social media e guardando i filmati selezionati che gli vengono inviati.

Ma nemmeno spegnere la TV può fermare la dissonanza e la disperazione che Persico prova. Esse si sono amplificate dopo i massacri del 7 ottobre guidati da Hamas e il successivo assalto dell’esercito israeliano alla Striscia di Gaza, che dura ormai da un anno. Quando è iniziata la guerra, i media israeliani si sono trovati in un momento critico. Si trattava di affrontare il trauma di una nazione scossa da una violenza senza precedenti e che si era rapidamente ripiegata su una percezione profondamente radicata di vittimismo storico. Le emittenti hanno risposto a questo trauma nazionale, osserva Persico, scivolando ulteriormente nelle grinfie della propaganda promossa dallo Stato.

Mentre i giorni di violenza brutale si trasformavano in settimane e mesi, i media israeliani sono ricorsi a schemi familiari: radunarsi intorno alla bandiera, amplificare le narrazioni dello Stato e marginalizzare qualsiasi copertura critica della brutalità di Israele a Gaza, per non parlare di mostrare immagini o raccontare storie di sofferenza umana tra i palestinesi della Striscia.

La strada verso questo momento è stata spianata molto tempo fa. Il panorama mediatico israeliano, che secondo Persico è sempre stato asservito all’establishment politico e militare, negli ultimi dieci anni è stato sottoposto a pressioni incessanti da parte di Benjamin Netanyahu; il primo ministro israeliano ha cercato di trasformarlo in uno strumento per esercitare il potere e, in ultima analisi, garantire la propria sopravvivenza politica. I media commerciali, più interessati a mantenere i propri spettatori che a sfidare il potere, sono caduti preda della strategia di Netanyahu fatta di coercizione, autocensura e pressione economica.

Negli ultimi anni si è assistito anche alla rapida ascesa di Now 14 (noto come Canale 14), la versione israeliana di Fox News, che si è apertamente schierata con Netanyahu e sta sfidando il dominio di lunga data di Canale 12. Il canale offre ai telespettatori non solo notizie, ma anche polemiche anti-palestinesi – spesso apertamente genocidarie – proposte come intrattenimento. L’abile utilizzo da parte di Netanyahu di mezzi di propaganda come il Canale 14 e dei social media lo ha aiutato a formare un seguito di devoti che lo difende e lo sostiene contro le pressioni interne e internazionali.

In un’intervista a +972, che è stata ridotta e modificata per chiarezza, Persico riflette sul ruolo storico dei media nella negazione delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, sulla loro incapacità di sfidare l’establishment politico e sulla quasi totale mancanza di solidarietà per i giornalisti palestinesi sotto i bombardamenti a Gaza.

Mi parli del panorama dei media in Israele nel periodo precedente al 7 ottobre.

Il 6 ottobre, i media israeliani – pubblici o privati, in televisione, alla radio o su Internet – erano indeboliti e assediati da oltre un decennio di persistenti tentativi di controllo da parte del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Mentre alcuni media erano diventati uno strumento della guerra di propaganda di Netanyahu, altri si sono gradualmente sottomessi alle sue pressioni, sostenendo gli alleati e i punti di vista del primo ministro nelle loro trasmissioni.

[Pochi mesi prima del 7 ottobre, il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi aveva annunciato un progetto di legge per riformare il panorama dei media, basato sul proposito di chiudere la Public Broadcasting Corporation israeliana [nota con abbreviazione di KAN] e di “prendersi cura” [cioè di esercitare un controllo sul] settore dei media privati. Tutto ciò è stato fatto sotto gli slogan di “aprire il mercato” e “rimuovere le barriere” – slogan che in realtà significavano facilitare il lavoro degli organi di informazione che servivano gli interessi di Netanyahu e limitare quelli che lo criticavano.

Quali sono le misure adottate da Netanyahu e dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni per reprimere la stampa?

Dal 1999 [quando perse le elezioni dopo il suo primo mandato come primo ministro], Netanyahu ha marchiato i media come suoi avversari e ha gradualmente unificato la sua base in una lotta populista contro di essi. Questo è stato particolarmente vero a partire dal 2017, quando sono esplosi i suoi numerosi scandali legali, tutti direttamente collegati ai tentativi di controllare i media.

Nell’ultimo decennio, Netanyahu ha cercato di far chiudere Canale 10; ha tentato di smantellare il dominio di Yedioth Ahronoth sulla stampa israeliana; avrebbe promesso a un magnate dei media cambiamenti normativi vantaggiosi in cambio di una copertura positiva su di lui e sulla sua famiglia; e ha meticolosamente piazzato i suoi sostenitori in ogni singolo organo di informazione israeliano possibile, da Canale 12 e Radio dell’Esercito israeliano a i24 e KAN.

Eppure, non possiamo dare tutta la colpa al primo ministro. Netanyahu opera in un Paese in cui la maggior parte dei media è di proprietà privata e in cui il pubblico si sta spostando a destra. Queste testate commerciali non vogliono perdere spettatori e lettori. Non possono vendere pubblicità se non hanno un pubblico, e non possono mantenere il loro pubblico se gli mostrano cose che lo fanno arrabbiare.

Nessuna discussione sui media israeliani oggi è completa senza parlare del Canale 14, che è diventato un punto di riferimento nel mondo della comunicazione, e potrebbe ancora superare il Canale 12 nel suo predominio.

Il Canale 14 è nato dal Jewish Heritage Channel, una piccola emittente, ormai fallita, dedicata a fornire contenuti religiosi e priva di una licenza per la trasmissione di notizie. Ma gradualmente Netanyahu e i suoi alleati hanno iniziato a scalfire queste norme: alla fine il canale ha ottenuto la licenza per trasmettere notizie e si è trasformato nella vera e propria struttura di propaganda che conosciamo oggi.

Anche se ora è il secondo canale più popolare in Israele, continua a ricevere finanziamenti come se fosse ancora la piccola azienda che era all’inizio. Oggi il canale è di proprietà del figlio di un oligarca che ha stretti legami con Netanyahu e che, a quanto pare, è legato a Vladimir Putin e ad altri personaggi poco raccomandabili.

Con l’inizio della riforma giudiziaria, all’inizio del 2023, molti media si sono ricordati del loro scopo e ruolo: occuparsi in modo critico di tutti i nodi del potere nel Paese, sia delle élite economiche che della classe dirigente. Canale 14, invece, ha continuato a parlare a una sola voce con il governo.

I telespettatori di Canale 14 formano anche una sorta di comunità. I sondaggi dimostrano regolarmente che, a differenza di Canale 11, Canale 12 e Canale 13, i cui telespettatori si spostano da una stazione all’altra, gli spettatori di Canale 14 sono fedeli alla rete [e non cercano notizie o analisi da altri canali].

Questo significa che se Netanyahu si sveglia una mattina e decide di prendere una certa posizione, Canale 14 trasmetterà quel messaggio ai suoi spettatori?

Come l’intero apparato mediatico costruito da Netanyahu – spesso soprannominato “macchina del veleno”, che si avvale di media convenzionali e sociali – Canale 14 è uno strumento di propaganda. Offre intrattenimento alle masse.

Sembra molto simile a quello che Donald Trump e Fox News fanno negli Stati Uniti. Che impressione fa questo su Canale 14?

Gli israeliani sono impegnati in una guerra sanguinosa da più di un anno e il messaggio di fondo che ricevono da Canale 14 è la sensazione che stiamo vincendo, che la vita è bella. Il canale enfatizza i successi militari di Israele, sminuendo i suoi fallimenti, e denigra gli altri canali di informazione per il fatto di promuovere il panico e il disfattismo.

Ad esempio, dopo l’attacco con un drone di domenica a una base militare dell’IDF, che ha ucciso quattro soldati e ferito decine di altri, i siti dei media israeliani hanno mantenuto la notizia come titolo principale per tutta la notte e la mattina. Non è stato così per Canale 14, che l’ha tenuta come notizia principale sul suo sito web per mezz’ora, dopo di che è stata sostituita da un sondaggio che mostrava come la maggior parte degli israeliani fosse a favore di un attacco all’Iran.

La rete si rivolge anche ai “nemici comuni” – altri media, l’élite dell’esercito e il procuratore generale – accusandoli di collusione contro il governo e attribuendo loro la responsabilità dell’attuale situazione di Israele. È pieno di incitamenti, propaganda e teorie del complotto, facendo leva sul desiderio di vendetta del pubblico dopo il 7 ottobre. I commentatori che appaiono su “The Patriots”, il talk show di punta dell’emittente condotto da Yinon Magal, invocano regolarmente il genocidio e lo sterminio [dei palestinesi]. Molti telespettatori si sentono bene quando vedono tutto questo, perché conferma ciò che già sentono.

Sembra che la popolarità di Canale 14 sia uscita dal nulla. Come è successo?

Dal momento in cui i media mainstream in Israele si sono opposti alla riforma giudiziaria, gli ascolti di Canale 14 hanno iniziato a crescere rapidamente. Il secondo incremento degli ascolti è avvenuto subito dopo il 7 ottobre. Entrambi questi aumenti rappresentano la capacità del canale di formare una comunità di telespettatori.

Dopo due o tre settimane in cui hanno mostrato una sorta di “unità nazionale” dopo gli attacchi di Hamas, i media israeliani sono tornati rapidamente alle loro precedenti posizioni pro o contro Netanyahu. Nel periodo immediatamente successivo, su Canale 14 ci sono state diverse voci che hanno incolpato il Primo Ministro per quanto accaduto il 7 ottobre, ma anche loro sono tornati molto rapidamente alla linea di partito.

La continua crescita e la diffusione di Canale 14 dopo il 7 ottobre è, a mio avviso, lo sviluppo più significativo che abbiamo visto nei media israeliani dopo il massacro.

Ma le manifestazioni di retorica estremista e bellicista non erano certo limitate a Canale 14. Lo abbiamo visto in quasi tutti i media israeliani dopo il massacro. Lo abbiamo visto praticamente in ogni singolo organo di informazione mainstream dopo il 7 ottobre, che fosse critico o meno nei confronti di Netanyahu.

Ha ragione: l’intero pubblico israeliano si è spostato fortemente a destra e, per la prima volta nella sua storia, il Canale 12 si trova ad affrontare una concorrenza serrata da parte del Canale 14. Ha commesso il classico errore di cercare di essere appetibile per tutti, compresi i fascisti che guardano Canale 14, e così fornisce una platea a persone come Yehuda Schlesinger [che ha chiesto di rendere lo stupro dei detenuti palestinesi nel centro di detenzione Sde Teiman una politica ufficiale].

Bisogna ricordare che i giornalisti in Israele fanno parte della società israeliana. Conoscono le persone che sono state uccise o rapite il 7 ottobre. Conoscono i soldati a Gaza.

Certo, ma hanno anche la responsabilità nei confronti del pubblico di riferire ciò che sta accadendo, e non solo agli israeliani. Altrimenti è una negligenza del loro dovere.

Lo è, ma vedo anche il loro comportamento – in cui mettono da parte la loro integrità giornalistica per creare una sorta di unità tra il pubblico – come una risposta naturale e umana dopo un evento così traumatico. Non penso che sia una cosa positiva, penso che sia un errore. Ma non credo di potermi aspettare qualcosa di diverso da loro.

Non ci va un po’ leggero?

I giornalisti israeliani considerano un loro dovere patriottico focalizzarsi sul nostro vittimismo, ignorare le vittime dell’altra parte, e sollevare il morale nazionale – in particolare il morale dei soldati israeliani. Credo che la cosa patriottica da fare sia fornire informazioni affidabili al pubblico, in modo che possa formarsi una visione reale di ciò che accade intorno a lui. Altrimenti, la società israeliana – o qualsiasi altra società – avrà una comprensione distorta della realtà basata su ignoranza, bugie e negazione. Questo porta a una società debole che può crollare molto più facilmente. Dire la verità avrebbe l’effetto esattamente opposto, ma i giornalisti qui non ci credono.

I media israeliani mostrano al pubblico ciò che l’esercito fa ai palestinesi di Gaza?

No.

Monitorano le violazioni israeliane dei diritti umani in Cisgiordania?

No.

Monitorano le ripetute menzogne del portavoce dell’IDF?

No.

Capisco il suo punto di vista sulle prime settimane in cui i giornalisti erano profondamente traumatizzati, ma siamo a un anno dal 7 ottobre e i giornalisti stanno ancora, per la maggior parte, abdicando alle loro responsabilità quando si tratta di affrontare queste questioni fondamentali. Hanno semplicemente smesso di interessarsene?

L’intera società israeliana ha molti anni di esperienza nell’ignorare i nostri crimini contro i palestinesi. Che si tratti della Nakba, che è un argomento completamente tabù, o dell’occupazione militare in corso su milioni di persone. I media e gli spettatori sono coinvolti in una sorta di patto del silenzio: il pubblico non vuole sapere, quindi i media non ne parlano. Questi meccanismi psicologici erano già così radicati che quando è successo il 7 ottobre si sono attivati e sono diventati ancora più potenti.

Quello che abbiamo visto nell’ultimo anno è il risultato di un processo pluridecennale di educazione sia dei giornalisti che degli spettatori al fatto che ci sono cose di cui semplicemente non si parla e che non vengono mostrate nei notiziari. La maggior parte dei giornalisti che lavorano in queste testate mainstream sa cosa sta accadendo, ma non vuole alienarsi gli spettatori per paura di perdere ascolti. Potrebbero volerci decenni per invertire questo tipo di indottrinamento.

Fanno dunque finta che queste cose non esistano?

I media capiscono che le violazioni dei diritti umani non sono qualcosa da celebrare, quindi semplicemente le ignorano. Non vediamo titoli sul Ministero della Sanità di Gaza che annunciano che 40.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza. Non vediamo storie umane di palestinesi sotto i bombardamenti israeliani. Non sentiamo parlare delle malattie che devastano la Striscia. Personalmente, quello che ho sentito dire dai giornalisti è che “semplicemente non è il momento di parlare di questi temi”.

Sembra che ogni volta che si accende uno di questi canali di informazione, si rivivano costantemente gli orrori del 7 ottobre, sia attraverso le storie dei sopravvissuti che attraverso nuovi rapporti investigativi. Che tipo di effetto ha questo sul pubblico israeliano?

Il 7 ottobre è stato un evento che ha riportato gli ebrei israeliani nella posizione della vittima storica. Le immagini dei kibbutzim e delle città israeliane invase e massacrate dagli uomini armati di Hamas ci ricordano le immagini storiche dell’Olocausto. Non è uno scherzo: siamo una società profondamente post-traumatica che non ha ancora superato l’Olocausto, e quel giorno è stata la prima volta in cui lo Stato che avrebbe dovuto prevenire futuri Olocausti non ci è riuscito.

Eppure, la propaganda che abbiamo visto nei telegiornali nell’ultimo anno non fa che rafforzare e giustificare la violenza dello Stato contro i palestinesi. Fornisce una razionalizzazione per fare tutto il necessario per annientare coloro che vengono dipinti come un “male assoluto”. In definitiva, infonde negli israeliani un senso di rettitudine, necessario durante una lunga guerra senza una chiara data finale.

Qual è l’influenza che i media israeliani hanno effettivamente sul pubblico, soprattutto quando molti hanno accesso ad altre forme di notizie sui social media?

Se in passato il ruolo dei media era quello di mediare e organizzare la realtà [per lo spettatore], oggi il ruolo centrale dei media israeliani è quello di segnare i confini della legittimità rispetto al discorso pubblico, così come chi può partecipare a tale discorso. Se guardate il Canale 12, per esempio, vedrete che quando si tratta di questioni militari, sono gli ex militari – la maggior parte dei quali uomini – a partecipare alla conversazione.

È anche difficile evitare un’altra dimensione del ruolo dei media: fornire una piattaforma per gli sforzi di hasbara [propaganda] israeliana, e spesso servirne come strumento, con influencer come Yoseph Haddad che appaiono regolarmente nei vari notiziari.

Assolutamente sì. L’hasbara è molto richiesta e i media – sia commerciali che pubblici – la offrono al pubblico, perché è ciò che il pubblico vuole. Si è arrivati al punto che Yoseph Haddad ha realizzato più di un terzo di tutte le apparizioni di “esperti arabi” nei media israeliani nella prima metà del 2024. Va bene che lo invitino, ma non rappresenta in alcun modo la maggioranza dei cittadini palestinesi di Israele.

Israele si vanta spesso di avere una stampa libera ed estremamente critica nei confronti del governo. È vero?

In ogni grande evento [storico], i media israeliani sono sempre stati fedeli all’establishment politico e militare del Paese, che si trattasse di una guerra, di un piano di pace o di un programma economico. Fino alla revisione del sistema giudiziario, ha seguito praticamente tutte le principali mosse politiche del governo. È molto critico nei confronti di Netanyahu perché è un bugiardo corrotto che antepone chiaramente i suoi interessi privati a quelli dello Stato. Ma non critica l’esercito o lo Stato stesso.

Vale la pena ricordare che nel 2002 ci fu un’enorme indignazione pubblica dopo che Israele assassinò il leader di Hamas [Salah Mustafa Muhammad Shehade] e uccise 14 membri della sua famiglia, tra cui 11 bambini. Ma un’occupazione continua che non riceve quasi nessuna copertura mainstream porta a un’erosione sia dell’indignazione pubblica che degli standard giornalistici. Oggi l’esercito non si fa problemi a uccidere 14 persone se questo significa eliminare un membro di basso rango di Hamas – e i media, a parte i giornali come Haaretz, lo assecondano.

Cosa avrebbero potuto fare di diverso i media nella loro copertura dopo il 7 ottobre? Che differenza avrebbero potuto fare?

Innanzitutto, nei primi giorni dopo l’attacco, i media hanno svolto un lavoro eccezionale in un momento in cui il resto delle istituzioni israeliane non funzionava. I media hanno portato immagini al pubblico, [che hanno contribuito ad] assistere i rifugiati del sud e coloro che sono sopravvissuti al massacro, fornendo letteralmente la logistica per le persone, perché lo Stato semplicemente non funzionava in quel momento.

Nessuno obbliga il pubblico israeliano a non sapere cosa sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Chi vuole saperlo può rivolgersi al New York Times o al Guardian. Immaginate di prendere Haaretz o +972 e di trasformarli in un canale di notizie mainstream: cambierebbe qualcosa? Forse un po’, ma qui stiamo parlando di annullare generazioni di indottrinamento.

Nell’ultimo mese abbiamo assistito a una sorta di euforia pubblica dopo gli attacchi con i cercapersone e l’assassinio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, dopo il quale abbiamo visto Amit Segal e Ben Caspit di Channel 12 brindare alla sua morte in diretta TV. Questa euforia si è estesa all’invasione del Libano meridionale da parte di Israele e all’assalto al nord di Gaza come parte di quello che è noto come il “Piano dei generali” per liquidare efficacemente l’area. Cosa ne pensa di questa atmosfera apertamente celebrativa negli studi dei telegiornali?

I successi israeliani in Libano sono stati accolti con grande clamore e celebrazione. Nei giorni successivi a queste “vittorie”, i media hanno discusso pochissimo del significato geopolitico di questo momento, al di là del danno arrecato da Israele a Hezbollah, che secondo gli opinionisti avrebbe potuto dichiararsi sconfitto. Nessuno si è alzato e ha dato una valutazione realistica del fatto che stiamo entrando in una fase in cui vedremo [un aumento di] razzi e droni in tutto il nord.

Questo ricorda quello che è successo subito dopo l’attacco di Hamas, quando i media hanno affermato che l’operazione sarebbe durata solo alcune settimane o pochi mesi. [Ignoravano completamente il fatto che] nel 2014, l’IDF aveva stimato che la rioccupazione della Striscia sarebbe potuta durare cinque anni e avrebbe causato la morte di decine di migliaia di palestinesi e israeliani. Netanyahu avrebbe fatto trapelare questa analisi a Channel 2 nel 2014 proprio perché comprendeva questi immensi costi e non voleva rioccupare Gaza militarmente. Perché i media non ricordano al pubblico queste valutazioni? Perché Udi Segal, il giornalista di Channel 2 che per primo ha rivelato questa dichiarazione, non parla oggi?

Sono sicuro che ci sono valutazioni simili per quanto riguarda Hezbollah, ma quando l’esercito israeliano ha iniziato l’invasione i media hanno affermato che sarebbe durata solo poche settimane. Questo ci riporta alla prima guerra del Libano, quando i media fecero affermazioni molto simili sulla durata dell’operazione [l’esercito israeliano sarebbe rimasto nel sud del Libano per quasi due decenni].

Secondo il sindacato dei giornalisti palestinesi, Israele ha ucciso 168 giornalisti palestinesi a Gaza dallo scorso ottobre. Quanta solidarietà c’è da parte dei giornalisti israeliani con le loro controparti palestinesi a Gaza, o con i giornalisti di Al Jazeera a cui è stato vietato di lavorare in Israele e i cui uffici a Ramallah sono stati assaltati e chiusi dalle forze israeliane a settembre?

Zero. Alla fine dello scorso anno, ho assistito Reporters Without Borders nell’organizzazione di una petizione di solidarietà da parte dei giornalisti israeliani ai loro colleghi palestinesi. Ho detto loro che nessuno, a parte alcuni esponenti della sinistra radicale, avrebbe firmato quel tipo di dichiarazione, e ho invece proposto di provare a far firmare ai giornalisti israeliani una petizione che chiedeva ai media di mostrare di più ciò che stava accadendo a Gaza, perché pensavo che saremmo stati in grado di far firmare più giornalisti mainstream. Ma non mi hanno ascoltato e pochissime persone hanno voluto firmare.

Quello che i giornalisti israeliani non capiscono è che quando il governo approva la sua “legge Al Jazeera”, in ultima analisi si tratta di qualcosa di molto più grande del semplice attacco al canale. La legge attuale prevede il divieto di diffusione di notizie che “mettono a repentaglio la sicurezza nazionale”, ma si vuole anche dare al ministro delle Comunicazioni israeliano il diritto di impedire a qualsiasi rete giornalistica straniera di operare in Israele qualora la sua attività possa “danneggiare la morale nazionale”. Quello che l’opinione pubblica israeliana non capisce è che i prossimi in linea sono BBC Arabic, Sky News Arabic e CNN. Poi arriveranno Haaretz, Canale 12 e Canale 13.

Vi sembra che questo stia accadendo?

Ci stiamo dirigendo verso un regime autocratico, simile a quello di Orbán, e tutto ciò che ne consegue – nei tribunali, nel mondo accademico e nei media. Certo che è possibile. Sembrava irrealistico 10 anni fa, poi è diventato più realistico cinque anni fa, quando sono esplosi gli scandali legali legati ai media di Netanyahu. Poi è diventato ancora più plausibile con la revisione del sistema giudiziario, e ancora di più oggi. Non ci siamo ancora, ma siamo certamente sulla buona strada.

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Edo Konrad è l’ex caporedattore della rivista +972.