di Francesca Luci – 

Pagine Esteri, 21 novembre 2024. Le scelte di Donald Trump per riempire i caselli del potere esecutivo e dell’amministrazione americana provocano la preoccupazione della comunità musulmana che ha sostenuto il neo presidente durante l’elezione. Rexhinaldo Nazarko, direttore esecutivo dell’American Muslim Engagement and Empowerment Network, ha affermato che gli elettori musulmani speravano che Trump scegliesse funzionari del governo che si impegnassero per la pace. Tuttavia, “sembra che questa amministrazione sia composta interamente da neoconservatori e da persone estremamente filo-israeliane e filo-guerra, il che rappresenta un fallimento da parte del presidente Trump nei confronti del movimento pro-pace e contro la guerra”.

Esaminando i nomi proposti al vertice della politica estera della futura amministrazione americana, come Marco Rubio, Mike Huckabee ed Elise Stefanik, è legittimo chiedersi come Trump intenda mettere fine ai conflitti con una squadra composta da falchi più inclini alla guerra che alla pace.

Una domanda che molti politici e osservatori si pongono anche in Iran. Il primo mandato di Trump è stato segnato da un periodo di confronto più intenso con l’Iran. L’attuazione della cosiddetta politica di “massima pressione”, il ritiro dagli accordi sulla questione nucleare e l’imposizione di sanzioni e dell’embargo sulle esportazioni di petrolio hanno avuto gravi ripercussioni sull’economia iraniana, contribuendo a disordini sociali all’interno del paese. Lo scontro è culminato nell’assassinio di Qasem Soleimani, comandante della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione, ordinato dal Trump nel 2020.

Dalla fine del primo mandato di Trump, in quattro anni si sono verificati importanti cambiamenti in Iran e in tutta la regione. Teheran ha ridimensionato la sua adesione all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), impedendo agli ispettori di monitorare il suo programma nucleare. Dal maggio 2019, l’Iran ha aumentato le sue attività di arricchimento al 60%, ben oltre il 3,67% consentito dall’accordo stracciato da Trump, collegando le sue violazioni al fallimento dei firmatari dell’accordo nel rispettare i loro impegni previsti. A settembre 2024, l’AIEA ha stimato che l’Iran aveva accumulato abbastanza uranio altamente arricchito che, se ulteriormente arricchito al 90% (grado per armi), sarebbe stato teoricamente sufficiente per quattro dispositivi esplosivi nucleari. Tuttavia, la capacità tecnologica e il tempo necessario per costruire una testata nucleare sono stati stimati in 1-2 anni. Nella sua valutazione annuale del 2024, l’ufficio del direttore dell’intelligence nazionale degli Stati Uniti ha concluso che, sebbene l’Iran non sembri attualmente impegnato nello sviluppo di un dispositivo nucleare, le attività nucleari intraprese dal 2020 “lo mettono in una posizione migliore per produrre un dispositivo nucleare, se sceglie di farlo”.

L’aggressione di Hamas del 7 ottobre 2023, seguita dal genocidio israeliano a Gaza, dall’attacco al consolato iraniano a Damasco, dall’uccisione di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas sul suolo iraniano, e dall’assassinio di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah e principale alleato di Teheran, hanno portato la Repubblica Islamica e Israele ad uno scontro armato a distanza, con lanci di missili mettendo in evidenza il potenziale devastante di entrambi i Paesi.

La morte del presidente conservatore iraniano, Ebrahim Raisi, in un incidente ha portato all’elezione del moderato Masoud Pezeshkian al vertice del governo della Repubblica Islamica, con un cambiamento strategico rilevante nella politica estera, che dà priorità al miglioramento e al rafforzamento delle relazioni con i Paesi del Golfo Persico, considerati alleati americani, e alla normalizzazione dei rapporti con l’Occidente.

Nondimeno, c’è stata la fine di un lungo periodo di ostilità tra la Repubblica Islamica e l’Arabia Saudita, con la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Ciò è particolarmente importante, considerando che l’Arabia Saudita, dopo Israele, è il più importante alleato degli Stati Uniti nella regione, con cui Donald Trump aveva firmato un accordo da oltre 110 miliardi di dollari per la vendita di armi durante il suo primo mandato. Nel frattempo, il Regno Saudita aveva facilitato gli Accordi di Abramo, in cui Paesi come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno normalizzato i rapporti con Israele.

Oggi, nonostante permanga un certo scetticismo tra Teheran e Riyad, le relazioni tra le due nazioni sono rapidamente progredite fino a un livello di cooperazione impensabile durante il primo mandato di Trump. La risoluzione del summit dei leader regionali a Riyad la scorsa settimana ha messo in guardia dal pericolo di “espansione dell’aggressione” di Israele contro l’Iran e altri paesi della regione.

L’Arabia Saudita sta perseguendo gli obiettivi del suo programma “Vision 2030”, diversificando le fonti di reddito e attirando investimenti esteri; per raggiungere questo scopo, sta cercando di risolvere le questioni in sospeso con i paesi vicini attraverso il dialogo diretto. Il Regno ha necessità di un ambiente stabile e sicuro che consenta ai grandi progetti di crescere senza il timore di devastanti guerre regionali.

Durante la campagna elettorale, Trump si è costantemente espresso contro il prolungato coinvolgimento degli Stati Uniti nelle guerre. Ha anche segnalato un approccio più conciliatorio nei confronti dell’Iran. Rifiutando l’idea di un cambio di regime guidato dagli Stati Uniti a Teheran, ha osservato: “Non ho intenzione di essere cattivo con l’Iran, spero che saremo amichevoli… vorrei vedere l’Iran avere molto successo. L’unica cosa è che non possono avere un’arma nucleare”.

Tuttavia, altri resoconti indicano che i principali consiglieri di Trump stanno pianificando di ripristinare la campagna di “massima pressione” contro l’Iran. Ciò includerebbe un nuovo aumento delle sanzioni e il soffocamento delle entrate petrolifere dell’Iran, attaccando i porti e i commercianti stranieri che gestiscono il petrolio iraniano. È opinione diffusa che la politica di Trump nei confronti del Medio Oriente sarà un’estensione della politica della sua prima amministrazione, caratterizzata da un sostegno assoluto nei confronti di Israele e dall’imposizione di severe sanzioni all’Iran. Ci sono indicazioni che Netanyahu potrebbe accettare un accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e in Libano nelle prime fasi del mandato di Trump, come un regalo che gli garantirebbe una rapida vittoria diplomatica, in cambio dell’ottenimento del suo sostegno contro l’Iran e il suo programma nucleare.

Lo slogan di Trump di “porre fine a tutte le guerre” è stato allettante per i suoi alleati arabi nel Medio Oriente e i paesi del Golfo Persico che, come hanno sostenuto nell’ultimo summit di Riyad, aspettano che l’amministrazione di Trump riduca il conflitto nella regione e apra la strada a soluzioni permanenti per Gaza, la Cisgiordania, il Libano e l’intera regione, mettendo la diplomazia come punto di partenza nei rapporti con l’Iran e i suoi sostenitori.

Se si ipotizza che Trump non veda un vantaggio sostanziale nell’entrare in guerra in Medio Oriente, dovrebbe cercare un accordo con la Repubblica Islamica che risulti accettabile anche per Israele. Ciò appare particolarmente arduo, poiché il governo israeliano è guidato da una destra intransigente, che trova riscontro nella forte influenza degli elementi radicali che detengono parte del potere a Teheran, altrettanto guerrafondai quanto i loro omologhi a Tel Aviv.

È difficile immaginare come lo stile imprevedibile di Trump e la sua politica fondata su un unilateralismo aggressivo e un pragmatismo basato sugli interessi possano portare a un risultato concreto e duraturo tra i due Paesi.

La Repubblica Islamica, nonostante la sua forza militare, sta affrontando profonde sfide economiche, con un’insoddisfazione popolare in crescita. Pertanto, l’Iran potrebbe cercare di dare priorità a soluzioni diplomatiche con la nuova amministrazione Trump. L’amministrazione del presidente Pezeshkian ha espresso il suo desiderio di migliorare le relazioni con l’Occidente e riprendere i colloqui sul nucleare. È importante sottolineare che, contrariamente ai precedenti governi riformisti, almeno per ora, Pezeshkian gode del sostegno della Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei, che detiene il potere supremo nel paese. Parallelamente, la Repubblica Islamica sta cercando di proiettare un’immagine di unità in patria per un eventuale negoziato. Teheran ha anche adottato un tono più conciliatorio sul suo programma nucleare durante l’ultima visita del direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.

Mohammad Javad Zarif, il vicepresidente per gli affari strategici, ha esortato Trump a rivedere la politica della “massima pressione”, affermando: “Trump deve dimostrare di non seguire le politiche sbagliate del passato”. Sulla stessa linea, Araghchi, il ministro degli Esteri, ha inviato segnali positivi a Trump, dichiarando: “Anche il percorso da seguire è una scelta. Inizia con il rispetto […] È necessario creare fiducia da entrambe le parti. Non è una strada a senso unico”. Ha anche sottolineato che l’Iran “non è alla ricerca di armi nucleari”.

Tuttavia, la pressione dei conservatori che detengono molti posti chiave del potere è incessante. Molti conservatori, compresi alcuni membri del potente Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, si oppongono a qualsiasi impegno con Trump. I conservatori hanno già espresso la loro opposizione, affermando che qualsiasi interazione costituirebbe un tradimento nei confronti del generale Qassem Soleimani, che Trump ha ordinato di assassinare nel 2020.

Ovviamente, tutto dipende dalla eventuale proposta americana e dal peso della rinuncia per la Repubblica Islamica. Se sulla questione nucleare si potrebbe raggiungere un’intesa, il sostegno di Teheran ai gruppi paramilitari nella regione e il potenziamento della sua industria missilistica e dei droni rappresentano nodi molto più difficili da sciogliere. È evidente che, se Trump avanzasse una proposta basata esclusivamente sulle esigenze israeliane, un completo rifiuto da parte iraniana sarebbe più che certo. Questo anche perché ciò potrebbe significare accettare un disarmo che per il regime di Teheran sarebbe equivalente a decretare il proprio suicidio politico. Tuttavia, alcuni analisti in Iran ritengono che Trump potrebbe essere l’unico in grado di contenere Netanyahu e frenare le sue ambizioni, proponendo una soluzione più equilibrata.

Se si verificasse un cessate il fuoco a Gaza e in Libano, la regione potrebbe entrare in un periodo di relativa calma dopo un anno di tensioni elevate. Ciò rappresenterebbe una preziosa opportunità per gli Stati Uniti di collaborare con Israele, gli stati arabi e potenzialmente l’Iran per sviluppare un quadro di pace regionale più permanente.

Sembra, almeno per ora, improbabile che Trump consenta a Netanyahu di agire liberamente per colpire le basi nucleari iraniane, anche perché è difficile pensare che Teheran, in questo caso, esiterebbe a scatenare una guerra catastrofica su larga scala. Una tale escalation rischierebbe di trascinare nel conflitto gli Stati Uniti, la Russia e altri attori internazionali, con conseguenze drammatiche per la stabilità economica globale e la sicurezza mondiale.

È più probabile che l’amministrazione Trump tenti di avviare un negoziato con Teheran, utilizzando Israele e Netanyahu come leva di pressione. In caso di fallimento, potrebbe continuare con la sua politica di “massima pressione” senza entrare in conflitto diretto con l’Iran. Questa alternativa rafforzerebbe l’ala intransigente del potere della Repubblica Islamica e potrebbe portare a un cambiamento nella dottrina nucleare di Teheran, indebolendo ulteriormente la classe media e sicuramente non favorendo il movimento democratico all’interno del Paese. Pagine Esteri