di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 8 gennaio 2025 – È un Trump senza alcun freno quello che, durante la prima conferenza stampa dell’anno appena iniziato, ha minacciato di usare anche la forza per ottenere ciò che vuole. Il presidente eletto, ad un passo dalla Casa Bianca, sembra lontano anni luce dal tradizionale ripiegamento sulla politica interna tipico dei repubblicani, atteggiamento che pure alcuni commentatori nostrani sembrano continuare ad attribuirgli contro ogni evidenza.
All’indomani della certificazione della sua vittoria alle presidenziali del 5 novembre, in un suo intervento davanti ai giornalisti nella sua residenza di Mar-a-Lago, ieri il tycoon ha sciorinato un programma zeppo di minacce diretto contro numerosi paesi, inaugurando una nuova ondata di destabilizzazione a livello planetario.
Ribadendo e chiarendo concetti già espressi in maniera più o meno spuria nei giorni e nelle settimane scorse, Trump “non ha escluso” la possibilità di usare la forza “militare ed economica” per ottenere il controllo del Canale di Panama e della Groenlandia ed ha ripetuto di voler annettere il Canada agli Stati Uniti. Inoltre Trump ha “chiesto” ai membri dell’Alleanza Atlantica di portare le spese militari nientemeno che al 5% del proprio Pil, affermando che si tratta di un passo che «tutti si possono permettere».
Intervenendo anche sulla situazione nel Vicino Oriente, il leader repubblicano ha minacciato di scatenare un nuovo inferno contro la già martoriata popolazione di Gaza «se gli ostaggi non saranno liberati prima» del 20 gennaio, data del suo insediamento alla Casa Bianca. Rivendicando i suoi presunti successi, Trump ha poi attaccato il suo predecessore Joe Biden, criticando la sua azione nei confronti dell’Afghanistan (secondo lui sarebbe stato il precipitoso ritiro delle truppe Usa dal paese asiatico a convincere Mosca ad attaccare Kiev), della guerra in Ucraina e della crisi in Siria. Durante il suo primo mandato, ha affermato il presidente eletto, gli Stati Uniti «non hanno sperimentato guerre, e abbiamo sconfitto lo Stato Islamico: ora erediteremo un mondo in fiamme con Russia, Ucraina e Israele».
Ma gli intenti di Trump sembrano tutt’altro che rivolti a spegnere l’incendio mondiale ad alimentare il quale l’amministrazione Biden ha certamente contribuito parecchio.
Nel suo intervento il tycoon ha affermato di comprendere che il leader russo non voglia l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, alimentando malriposte speranze che il nuovo corso della Casa Bianca possa risolvere definitivamente la crisi aperta nel 2014 dal cambio di regime a Kiev. Ma esplicitando la sua organica agenda espansionista Trump ha messo in allarme decine di governi in tutto il mondo.
Trump non ha mancato di minacciare anche il Messico, con una “battuta” sull’opportunità di cambiare in “Golfo d’America” il nome del “Golfo del Messico”, accusando il paese che sorge ai suoi confini meridionali di non adoperarsi abbastanza per bloccare l’ingresso di sostanze stupefacenti negli Stati Uniti. Dopo la conferenza stampa, la deputata repubblicana della Georgia, Marjorie Taylor Greene, ha subito annunciato di voler presentare una legge finalizzata a finanziare le modifiche del nome del Golfo del Messico (che si chiama così da più di quattro secoli) su tutte le mappe del governo federale e dell’esercito.
A preoccupare sono state però soprattutto le dichiarazioni annessionistiche di Trump nei confronti della Groenlandia e di Panama. Alla domanda di un giornalista che gli ha chiesto se sia da escludere la possibilità di un ricorso da parte di Washington alla coercizione economica e militare, Trump ha risposto: «No, non posso garantire nulla: ciò che posso dire è che ne abbiamo bisogno per la nostra sicurezza economica. La gente non sa nemmeno se la Danimarca abbia un diritto legale su di essa, ma se lo avesse, dovrebbe rinunciarvi perché ne abbiamo bisogno per la sicurezza nazionale». Poi il miliardario è tornato a criticare l’ex presidente Jimmy Carter per aver “regalato” a Panama il controllo del canale che taglia in due l’istmo centroamericano, lamentando l’imposizione di dazi troppo alti da parte del piccolo paese sulle navi statunitensi che transitano nel passaggio che unisce gli oceani Atlantico e Pacifico.
Nei giorni scorsi il nuovo inquilino della Casa Bianca aveva più volte accampato pretese su Panama, rivendicando la giurisdizione di Washington sulla grande opera realizzata all’inizio del secolo scorso dal genio militare statunitense e inaugurata nel 1914 in un territorio che fu sottratto alla Colombia. A preoccupare la Casa Bianca ci sarebbe la crescente presenza a Panama della Repubblica Popolare Cinese che attualmente controlla due dei cinque porti adiacenti il passaggio.
Al tempo stesso, Trump ha informato di considerare l’opportunità di imporre dazi punitivi alla Danimarca per costringere le autorità di Copenaghen a concedere a Washington il controllo della sua più grande colonia artica. Da tempo il tycoon insiste sulla volontà di “acquistare” dal paese scandinavo – nel cui territorio Washington già dispone di un’importante base militare – la Groenlandia, regione che gode di un’ampia autonomia ma la cui popolazione sembra puntare sempre più decisamente a ottenere l’indipendenza dal Regno di Danimarca (un’opzione che sarebbe appoggiata dal 60% degli elettori). Il territorio artico, oltre che strategico per il controllo del Polo Nord in competizione con Russia e Cina, è anche ricco di metalli rari e di idrocarburi, ai quali Trump non sembra voler rinunciare nell’ottica di uno scontro con i propri competitori economici e militari che un eventuale stop dei combattimenti in Ucraina non sembra in grado di fermare.
Le violente dichiarazioni del tycoon giungono, del resto, mentre suo figlio maggiore è sbarcato a Nuuk, capoluogo della Groenlandia, per quella che Donald Trump Junior ha definito una “lunga visita turistica personale”. Trump Jr ha affermato sul suo blog di non avere in programma incontri con funzionari locali ma è evidente che il suo viaggio nel territorio artico non è casuale, mentre il premier danese Mette Frederiksen ha dichiarato che il futuro della Groenlandia appartiene ai groenlandesi e che l’isola non è in vendita. Secondo alcuni analisti, la Casa Bianca potrebbe cercare di mettere le mani sul territorio indirettamente, foraggiando e sostenendo i settori conservatori del movimento indipendentista locale per poi ottenere in cambio, dopo un’eventuale indipendenza, il soddisfacimento dei propri interessi economici e militari.
Il territorio autonomo andrà alle urne il 6 aprile per il rinnovo del parlamento locale, e il sostegno di Washington ad alcune formazioni politiche “collaborative” potrebbe assicurarne la vittoria.
In un discorso di inizio anno realizzato la scorsa settimana, l’attuale primo ministro della Groenlandia, Mute Egede, ha dichiarato che «è giunto il momento per noi di fare un passo e plasmare il nostro futuro, anche per quanto riguarda la scelta dei nostri interlocutori e partner commerciali più stretti», lasciando intendere una certa apertura nei confronti delle mire statunitensi o quantomeno la volontà di utilizzare le pretese di Washington per operare pressioni su Copenaghen e convincere la Danimarca ad aumentare il grado di autonomia della colonia.
Tornando alla conferenza stampa di Mar-a-Lago, il presidente eletto ha usato toni altrettanto duri nei confronti del Canada, alle prese con una inedita crisi del governo e del Partito Liberale dopo le dimissioni del primo ministro Justin Trudeau.
Per “unificare” il Canada agli Stati Uniti, il tycoon si è detto pronto anche a fare ricorso alla “forza economica”: «Basta rimuovere queste linee tracciate artificialmente per capire che sarebbe molto meglio per la nostra sicurezza nazionale» ha detto riferendosi alla frontiera che divide i due paesi. La reazione dei leader canadesi è stata netta. La ministra degli esteri di Ottawa, Mélanie Joly, ha risposto che il Canada «non cederà alle minacce», mentre il dimissionario Trudeau ha dichiarato che «il Canada non farà mai parte degli Stati Uniti». Pagine Esteri