di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 13 gennaio 2025 – Nei giorni scorsi il presidente eletto ha esplicitamente minacciato sanzioni nei confronti della Danimarca nel caso in cui essa non dovesse accettare l’annessione della Groenlandia da parte degli Stati Uniti, ha espresso la volontà di fare del Canada il 51esimo stato membro degli USA, ha minacciato Panama ed ha promesso un nuovo inferno a Gaza nel caso in cui gli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre del 2023 non vengano immediatamente liberati, chiedendo ai membri della Nato di aumentare le spese militari sino al 5% del proprio Pil.
In generale, Trump sembra voler imporre una politica estera aggressiva e interventista, in linea con la sua volontà di lasciare il segno nella storia e di “fare di nuovo grande” un paese che negli ultimi decenni sta sperimentando una crisi della propria egemonia mondiale e l’affermazione di potenze concorrenti.
Le pretese annessionistiche nei confronti della Groenlandia non sono nuove. Non solo Trump le aveva già esplicitate nel mese di dicembre, ma “l’acquisto” dell’isola artica dalla Danimarca era stato già citato tra le priorità di politica estera durante il primo mandato dell’allora outsider repubblicano. Già nel 2019 il tycoon tentò inutilmente di convincere il regno scandinavo a cedergli l’isola più grande del pianeta.
D’altronde l’interesse strategico di Washington per il territorio autonomo tuttora sottoposto alla sovranità danese risale a parecchi decenni fa. Da oltre un secolo amministrazioni statunitensi di diverso colore politico hanno cercato di mettere le mani sulla distesa di ghiaccio ma senza riuscirci fino in fondo. Già nel 1867, dopo aver acquistato l’Alaska dall’impero russo, il segretario di stato William H. Seward tentò inutilmente di convincere il regno scandinavo a cedere la Groenlandia.
Dopo che nel 1940 la Germania nazista invase la Danimarca, le truppe statunitensi occuparono la Groenlandia installandovi numerosi basi militari e stazioni radar, parte delle quali sopravvivono ancora. Dopo la fine del conflitto, Washington ha infatti continuato a gestire una grande base aerea denominata Thule, recentemente ribattezzata Pituffik in ossequio alle popolazioni Inuit che abitano storicamente quel territorio.
Nel 1946 il presidente Harry Truman offrì segretamente alla Danimarca 100 milioni di dollari (l’equivalente di 1,2 miliardi di euro di oggi) ricevendo però un nuovo diniego.
Dal 1951 un accordo con Copenaghen garantisce comunque agli Stati Uniti un ruolo fondamentale nella “difesa” della Groenlandia in caso di attacco, concedendo intanto a Washington il diritto di realizzare e mantenere basi militari.
Ma evidentemente il solo controllo militare del territorio groenlandese non basta a Trump, che sembra realmente intenzionato ad acquisirlo sia per lasciare il segno nella storia sia per espandere la sfera d’influenza statunitense in una zona che sta diventando sempre più strategica nella competizione tra le grandi potenze. Le ripetute menzioni da parte del presidente eletto, unite al ventilato ricorso a dazi punitivi e a pressioni di carattere militare nei confronti della Danimarca, sembrano dimostrare che l’obiettivo costituisce per Trump un’ambizione radicata e non un capriccio passeggero.
Secondo un collaboratore del tycoon citato anonimamente da Reuters, l’acquisizione della Groenlandia farebbe parte delle priorità del presidente, che non a caso ha descritto il passo come un imperativo per la difesa nazionale statunitense. Trump vorrebbe anche essere ricordato come il presidente che ha aggiunto nuovi territori alla federazione, cosa che non avviene dal 1959, quando le Hawai e l’Alaska divennero rispettivamente il 49° e il 50° stato dell’Unione durante la presidenza del repubblicano Dwight Eisenhower.
La futura amministrazione Trump intende contrastare l’aumento dell’influenza russa e cinese nella regione artica, considerato un serio pericolo per gli interessi statunitensi e per la stessa sicurezza nazionale. In questo senso vanno lette anche le aggressive dichiarazioni del tycoon nei confronti del Canada, “invitato” ad entrare a far parte degli Stati Uniti mentre sul web girano delle mappe, approntate dall’entourage di Trump, che mostrano dei “super Stati Uniti” che includono appunto il vicino settentrionale e alla Groenlandia.
Il governo della Danimarca ha risposto duramente alle minacce di Washington ed ha stanziato una cifra consistente per rafforzare la sicurezza dell’isola, decidendo l’invio in zona di alcune navi da guerra. Al tempo stesso Copenaghen – che rappresenta insieme alla Polonia il paese europeo più atlantista – non ha escluso una maggiore collaborazione militare con gli Stati Uniti diretta a soddisfare le “esigenze di sicurezza” del Pentagono.
Un atteggiamento simile a quello manifestato dal governo groenlandese, formato da una coalizione tra la “Comunità del popolo Inuit” (Inuit Ataqatigiit, di sinistra) e i Socialdemocratici (centrosinistra), entrambi con ambizioni indipendentiste. Il premier locale Mute Egede e i suoi collaboratori hanno ribadito più volte che “la Groenlandia appartiene ai groenlandesi” e che “non è in vendita”, ma non hanno chiuso del tutto la porta ad un aumento della cooperazione con Washington e ad un approfondimento dei legami economici con gli Stati Uniti.
Secondo molti analisti, l’amministrazione Trump potrebbe sostenere l’opzione indipendentista – il 6 aprile si vota per il rinnovo del parlamento di Nuuk e il governo è intenzionato a indire anche un referendum per il distacco definitivo da Copenaghen, opzione riconosciuta dalla madrepatria sin dal 2009 ma finora non esercitata – per poi proporre alla Groenlandia la firma di un Compact of Free Association (Cofa), un tipo di trattato di integrazione economica e politica sperimentato negli ultimi decenni con tre paesi insulari del pacifico. Del resto gli indipendentisti groenlandesi sono consci delle difficoltà economiche e logistiche derivanti un eventuale distacco dalla Danimarca, che ogni anno copre, stanziando più di 500 milioni di dollari, più di metà del fabbisogno finanziario dell’enorme territorio abitato solo da 57 mila persone.
Il territorio artico potrebbe utilizzare i vasti giacimenti di idrocarburi e di materie prime, il cui sfruttamento è stato finora minimo a causa di problemi logistici e delle preoccupazioni del governo locale per il forte impatto ambientale delle attività estrattive. Nel sottosuolo groenlandese si trovano quantità spesso abbondanti di “terre rare” e di altri minerali indispensabili per l’industria delle tecnologie che sfruttano le energie rinnovabili o per la produzione di batterie e veicoli a trazione elettrica. Inoltre la Groenlandia potrebbe contare su riserve di petrolio stimate in ben 31 miliardi di barili, finora sfruttate in minima parte.
Dal 2021, anno in cui si è affermato a Nuuk il partito Inuit Ataqatigiit dall’impronta fortemente ecologista, il governo locale ha smesso quasi di concedere licenze per nuove esplorazioni.
Il rapido e progressivo scioglimento dei ghiacci sta però rendendo sempre più appetibile lo sfruttamento minerario della Groenlandia, abbassando i prezzi e diminuendo le difficoltà tecniche e logistiche, e il governo che uscirà dal voto di aprile potrebbe inaugurare una stagione più permissiva nei confronti delle imprese straniere, allo scopo di attirare investimenti e rafforzare l’autosufficienza economica dell’isola.
Se gli Stati Uniti riuscissero a mettere le mani sul grosso delle risorse groenlandesi (la qual cosa suscita già le preoccupazioni della Danimarca e dell’intera Unione Europea) Washington ridurrebbe fortemente lo scarto rispetto alla Repubblica Popolare Cinese, che attualmente controlla più del 60% del mercato delle cosiddette “terre rare” e recentemente ha imposto il divieto di esportazione di alcuni di essi.
Ma ci sono anche questioni di ordine commerciale e strategico ad animare l’interesse di Washington per la Groenlandia e per l’intera area artica. A causa dello scioglimento dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale, infatti, l’Artide si appresta a diventare il crocevia di una serie di rotte di navigazione e trasporto globali più vantaggiose e rapide rispetto a quelle tradizionali. Negli ultimi dieci anni il traffico navale nell’area è aumentato già del 37%. L’area artica è sempre più ambita dalle diverse potenze mondiali e regionali, sempre più in competizione per aggiudicarsi una posizione di rilievo nel nuovo scenario determinato dai rapidi mutamenti climatici e geografici.
Secondo i servizi di intelligence occidentali, la Cina starebbe cercando di utilizzare la sua alleanza con la Russia – che possiede il 53% della costa artica – per ottenere da Mosca una proiezione economica e strategica nei territori del Polo Nord che finora Pechino non è riuscita ad ottenere. Otto anni fa la Cina ha tentato inutilmente, bloccata da Washington e Copenaghen, di acquistare una vecchia base navale Usa e di costruire tre aeroporti in Groenlandia. Ma nel 2018 Pechino ha avviato la Polar Silk Road, (la Via della Seta Polare), un piano per aprire rotte commerciali ed energetiche attraverso l’estremo nord russo, e le aziende energetiche cinesi hanno già acquisito importanti quote nei progetti di sfruttamento del gas siberiano o in quelli di sviluppo delle infrastrutture portuali russe.
Da parte sua Mosca negli ultimi anni ha moltiplicato le basi militari nelle sue regioni artiche e rafforzato i porti nella penisola di Kola (dove stazione una grande flotta da guerra) e a Murmansk, l’unico porto non ghiacciato situato oltre il Circolo Polare Artico.
La sempre più accesa competizione ha ovviamente anche delle ragioni di ordine militare, visto che dall’artico potrebbe passare un eventuale attacco missilistico lanciato dagli Stati Uniti o dalla Russia contro l’avversario. Non a caso la Pituffik Space Base, in Groenlandia, (l’installazione militare statunitense più a nord, distante 1200 km dal circolo polare artico) ospita il dodicesimo squadrone di allerta spaziale che gestisce il “Ballistic Missile Early Warning System”, un sistema progettato per rilevare eventuali attacchi missilistici contro il territorio americano.
Se finora gli Stati Uniti hanno dovuto subire, nella regione artica, la preponderanza e l’iniziativa russa, l’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia ha rafforzato lo schieramento di Washington nell’area. Ma le minacce e le mire annessionistiche di Trump nei confronti di Groenlandia e Canada dimostrano che gli Stati Uniti vogliono un controllo totale di tutti i territori che si affacciano sul polo, evidenziando una vera e propria “ossessione artica” di Washington.
Da questo punto di vista, la Groenlandia rappresenterebbe solo la punta dell’iceberg. «Non si tratta solo della Groenlandia. Si tratta dell’Artico. (…) Si tratta di petrolio e gas. Si tratta della nostra sicurezza nazionale. Si tratta di minerali essenziali» ha spiegato nei giorni scorsi, nel corso di un intervento sull’emittente conservatrice Fox News, il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Mike Waltz. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria