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La pressione economica e le difficoltà quotidiane hanno raggiunto la soglia di insostenibilità per molti iraniani. Il governo accusa le sanzioni occidentali come causa, mentre la popolazione incolpa l’intero sistema. Non sono pochi quelli che credono che l’adozione della probabile politica di “massima pressione”, sbandierata dalla nuova amministrazione americana, potrebbe portare alla caduta della Repubblica Islamica.

Una speranza che sembra poco realistica. Sicuramente una forte pressione del governo statunitense può indebolire l’economia della Repubblica Islamica, già in affanno, ma che ciò possa causare o accelerare il declino del sistema non è affatto scontato. Finora, le numerose sanzioni imposte da vari paesi e organizzazioni internazionali hanno colpito pesantemente solo la popolazione, mentre non hanno avuto alcun effetto sulla politica estera, sulla conduzione militare e sulle decisioni strategiche del paese. Per quanto riguarda il programma, le sanzioni hanno causato una forte accelerazione, che ha portato Teheran alla soglia della capacità di costruire l’arma nucleare.

Il potere ha ripetutamente utilizzato le sanzioni come strumento per ottenere il sostegno popolare. Nell’aprile 2024, Khamenei ha esortato il popolo iraniano a considerare le sanzioni come un tentativo di costringere l’Iran a conformarsi a “politiche colonialiste e imperialistiche” e a sottomettersi a “richieste tiranniche”. Sebbene tali appelli si siano affievoliti nel corso degli anni nella loro efficacia, in alcuni casi continuano a esercitare un certo impatto, alimentati dal sentimento nazionalista diffuso tra tutte le classi sociali. Teheran probabilmente non si lascerà scoraggiare dal ritorno della campagna di massima pressione di Trump, anche se dovesse affrontare nuove pesanti sanzioni.
Qualsiasi cambiamento radicale del sistema sembra dipendere maggiormente da variabili interne alla politica iraniana e dall’alterazione degli equilibri di potere tra il governo e il popolo, piuttosto che dalle sanzioni o da un intervento dall’estero.

Tuttavia, non sono pochi, tra cui Javad Zarif, vicepresidente iraniano per gli Affari strategici, che sostengono che un accordo con Trump fosse possibile. L’affermazione di Trump di non voler impegnarsi nelle operazioni militari e ripetere esperienze come Afghanistan e Iraq, e il suo carattere mercantilista, rafforzano tale convinzione.

La leadership iraniana segnala, apparentemente con la consapevolezza e l’approvazione del leader supremo Khamenei, che è necessario esaminare la possibilità di raggiungere un nuovo accordo sul nucleare. Se i paesi europei avessero potuto operare indipendentemente dagli Stati Uniti, la Repubblica Islamica avrebbe preferito mille volte non entrare in negoziati con Washington. Tuttavia, l’amministrazione iraniana sa che gli europei non possono agire autonomamente senza il consenso degli Stati Uniti, come emerso chiaramente dopo l’uscita unilaterale di Washington dall’accordo nucleare. All’epoca, il tentativo degli europei di mantenere in vita l’accordo è fallito miseramente sotto la pressione della superpotenza americana.

Intervenendo al World Economic Forum di Davos, Zarif ha affermato che l’Iran spera che il presidente degli Stati Uniti scelga la “razionalità” nei suoi rapporti con la Repubblica Islamica. “Spero che questa volta il “Trump 2” sarà più serio, più mirato e più realistico”, ha aggiunto. Queste dichiarazioni arrivano dopo che il presidente iraniano, nell’ultima intervista con NBC, aveva dichiarato: “Siamo pronti al dialogo; accettiamo un dialogo paritario che tenga conto della nostra dignità e saggezza, e non ci sottometteremo in alcun modo alla forza”.

È probabile che questa volontà derivi dalle difficoltà regionali e interne che Teheran sta affrontando, in particolare dai gravi danni subiti dai suoi alleati, dal crollo del regime di Assad. Anche se il potere non lo ammette, definendo “delirante” l’idea che il Paese si sia indebolito, è indubbio che la debilitazione dei suoi alleati nella regione e la supremazia militare israeliana, sostenuta incondizionatamente dagli Stati Uniti, abbiano proiettato un’immagine di debolezza di Teheran, almeno agli occhi del grande pubblico nella regione.

Comunque sia, ci sono altri motivi importanti che spingono Teheran ai negoziati con gli Stati Uniti, nonostante la sua dottrina antiamericana seguita fin dal giorno successivo alla rivoluzione del 1979.

In primo luogo, il peggioramento delle difficoltà economiche interne. La crisi economica non sembra superabile senza la rimozione delle sanzioni, che stanno strangolando l’economia. Anche nel caso di una possibile cancellazione, potrebbero volerci diversi anni per riportare l’economia alla normalità. Attualmente, l’instabilità economica è tale che ogni notizia provoca uno shock sul mercato monetario, anche senza alcun evento concreto, ma semplicemente per effetto della notizia stessa. L’inflazione galoppante ha raggiunto il 33,6%, secondo il Centro Statistico Iraniano, nel periodo di dodici mesi conclusosi il 21 ottobre. La moneta nazionale ha perso il 90% del suo valore rispetto al dollaro statunitense.

Alla crisi economica si aggiunge anche il deficit energetico. Nonostante l’Iran detenga la seconda riserva di gas naturale e sia il quarto paese per riserve di petrolio, il paese affronta significative difficoltà energetiche. In particolare, deve far fronte a un deficit costante del 20% nella produzione di elettricità e del 25% nel gas naturale. Questa situazione è il risultato della mancata manutenzione delle infrastrutture energetiche e della produzione, aggravata dalla carenza di investimenti e dall’impatto delle sanzioni internazionali.

L’invecchiamento e l’inefficienza delle infrastrutture causano una perdita significativa durante la produzione e la trasmissione, che equivale al 40% del consumo totale di elettricità e gas domestico. Attualmente, tra il 30% e il 50% delle fabbriche sono inattive a causa della mancanza di energia elettrica regolare.

La Camera di Commercio, Industria, Miniere e Agricoltura del paese stima che le interruzioni di corrente costino all’economia circa 250 milioni di dollari al giorno. Secondo l’agenzia di stampa statale IRNA, il 40% della capacità di produzione dell’acciaio è rimasta inutilizzata, la fornitura di gas ad almeno dieci stabilimenti petrolchimici è stata interrotta e il flusso di gas al settore del cemento è diminuito dell’80%. Attualmente, oltre il 90% dell’elettricità del paese è generata da centrali termoelettriche, caratterizzate da tassi di efficienza molto bassi. Alcune delle centrali più vecchie hanno tassi di efficienza inferiori al 20%. Inoltre, le energie rinnovabili forniscono solo l’1% dell’elettricità totale del paese.

Il paese affronta anche un deficit significativo di benzina e gasolio. Per far fronte a queste carenze, Teheran è costretta a importare carburante dai paesi vicini, tra cui la Russia.
Il ministro del petrolio iraniano, Mohsen Paknejad, ha dichiarato che l’Iran ha bisogno di 45 miliardi di dollari di investimenti per uscire dalla crisi energetica.

Non da meno, in vista della scadenza della risoluzione 2231 prevista per ottobre 2025, se la Repubblica Islamica non riuscisse a concludere un accordo sul suo programma nucleare, rischierebbe che la troika europea attivi le disposizioni dello “Snapback”. La risoluzione, adottata dopo il raggiungimento dell’accordo JCPOA (Piano d’Azione Congiunto Globale), ha annullato sei precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza riguardanti il programma nucleare iraniano e la maggior parte delle sanzioni delle Nazioni Unite. Tuttavia, in caso di attivazione dello “Snapback”, tutte le sanzioni internazionali contro l’Iran verrebbero ripristinate, rappresentando una sfida che Teheran preferirebbe evitare.

L’altra questione importante è l’inevitabile tema della successione del leader del paese, Ali Khamenei, 85 anni. Questo rappresenta uno dei fattori cruciali nella ricerca di stabilità. Affrontare un passaggio così delicato in un momento di massima pressione economica, quando persino i sostenitori del regime lamentano le difficoltà che gravano sul paese, potrebbe rivelarsi estremamente rischioso. Una tale situazione rischia di generare seri conflitti sia all’interno della cerchia del potere sia tra la popolazione e le istituzioni del potere.

Tutto ciò spinge l’amministrazione iraniana a mostrarsi disponibile a negoziare. Tuttavia, le condizioni e i limiti che Teheran è disposta ad accettare sono cruciali per il possibile futuro accordo. Per il momento, Teheran si concentra esclusivamente sulla questione nucleare, ma è difficile immaginare che gli americani si limiteranno a trattare unicamente questo tema. Fine Prima Parte