Pagine Esteri – Volodymyr Zelensky ha tentato fino all’ultimo di blandire Donald Trump sperando di convincerlo a mantenere un minimo di sostegno all’Ucraina. Ma nel giro di pochi giorni, dopo il primo incontro diretto a Riad tra i ministri degli Esteri di Washington e Mosca, Marco Rubio e Sergei Lavrov, le già nette prese di distanza della Casa Bianca da Kiev si sono trasformate in pesanti insulti.
A tre anni dall’invasione russa dell’Ucraina, Kiev non solo ha perso il suo principale alleato e sostenitore – scoprendo ciò che molti osservatori prevedevano sin dall’inizio, cioè che Washington l’avrebbe abbandonata così come ha fatto in passato con molti dei suoi protetti – ma dovrà ora guardarsi dalla furia di Washington, che pretende il via libera al saccheggio delle terre rare e dei minerali preziosi celati nel sottosuolo ucraino a titolo di “risarcimento” per gli aiuti economici e militari concessi.
In un crescendo di dichiarazioni ostili, Trump ha definito Zelensky un «dittatore mai eletto» che godrebbe solo del 4% di popolarità, e un «comico mediocre» che è riuscito a convincere il suo predecessore, “sleepy Biden”, a concedere all’Ucraina centinaia di miliardi per finanziare «una guerra che non avrebbe mai potuto vincere». Il tycoon ha poi spiegato che la responsabilità dell’inizio della guerra è in gran parte di Zelensky e che per l’Ucraina non c’è spazio nella Nato.
Elon Musk ha rincarato la dose, scrivendo sul suo “X” che Zelensky è «un dittatore» a capo di «una gigantesca e disgustosa macchina della corruzione che si nutre dei cadaveri dei soldati ucraini». Il presidente ucraino, ha accusato ancora Musk, «non può dire di rappresentare il volere del suo popolo, a meno che non ripristini la libertà di stampa e smetta di cancellare le elezioni».
Trump ha liquidato Zelensky al punto che alcuni suoi collaboratori gli hanno suggerito, parlandone al New York Post, di sbrigarsi a cercare un paese dove rifugiarsi, suggerendo quella Francia che, insieme alla Gran Bretagna, si è offerta di prendere il posto di Washington come fornitori di armi e finanziamenti pur sapendo che non sarà mai in grado di cambiare le sorti di una guerra inesorabilmente persa.
Il presidente statunitense manifesta ormai la sua piena sintonia con Vladimir Putin, chiarendo che sarà con lui che deciderà le sorti dell’Ucraina, dopo aver liquidato Zelensky e umiliato l’Unione Europea, tagliata completamente fuori da trattative che il tycoon pretende rapide, desideroso com’è di chiudere la partita con la Russia.
Non è solo una evidente consonanza ideologica ad avvicinare Trump e Putin, con sommo scandalo delle élite liberali occidentali che hanno sempre guardato all’altra sponda dell’Atlantico come ad un faro ed ora vedono improvvisamente sgretolarsi un “occidente collettivo” che in realtà non è mai esistito. Washington mira ad approfittare della situazione per imporre rapporti di forza più favorevoli, tentando di frenare il proprio declino e di contrastare l’ascesa di una serie di attori che ne contestano la leadership.
D’altronde Mosca non ha mai rappresentato un competitore particolarmente pericoloso per l’egemonia statunitense nel mondo, e il leader repubblicano sembra disponibile a riconoscere alla Federazione Russa il ruolo di potenza regionale all’interno dei confini del suo ex cortile di casa – lo spazio geopolitico ereditato dall’Unione Sovietica e dall’impero zarista – dove gli interessi di Washington sono relativi.
Ben più urgente e preoccupante appare a Trump il pericolo rappresentato da una Cina che negli ultimi anni ha conquistato il ruolo di potenza economica globale – e brucia ormai le tappe anche sul piano militare – conquistando territori e mercati ormai in tutti i continenti a spese dell’influenza di Washington.
L’amministrazione repubblicana spera evidentemente di recuperare un rapporto con la Russia – mentre centinaia di grandi aziende statunitensi scalpitano in vista della ripresa dei rapporti commerciali con Mosca – che convinca Vladimir Putin a sciogliere l’abbraccio con Pechino, conseguenza della fallimentare strategia messa in campo dai democratici di Joe Biden.
È quanto ha fatto notare, evidentemente contrariato, il presidente bielorusso. «Non sappiamo – ha commentato Aleksandr Lukashenko, citato dall’agenzia bielorussa Belta – cosa vogliano gli Stati Uniti. Non sappiamo cosa chiederanno ai russi in cambio della fine della guerra. Credo che cercheranno di mettere i russi contro i cinesi, e i russi non possono permettere questo”
In realtà ai russi questa prospettiva potrebbe anche non dispiacere troppo, sempre che Washington abbia qualcosa di consistente da offrire. D’altronde la Cina, se pure ha rappresentato per Mosca un indispensabile alleato durante questi tre anni di isolamento internazionale, costituisce per la Russia un pericoloso competitore diretto che ha fortemente rafforzato la sue egemonia in Asia Centrale a scapito di quella russa e si è largamente insinuato nell’economia della Federazione.
Per quanto eccessive e stravaganti le sparate di Trump – e di Musk – possano suonare anche per degli esponenti di una alt right bizzarra e senza freni, manifestano una strategia precisa: concentrare gli sforzi contro Pechino – alla faccia di chi crede in un presidente americano impresentabile ma quantomeno pacifista – e approfittare dell’appeasement con Mosca per continuare a schiantare l’Europa.
La guerra ucraina è già stata un grande affare per Washington, che ne ha approfittato per recidere i legami tra il vecchio continente e la Russia e per aumentare la dipendenza dell’Europa dagli USA. L’economia della maggior parte dei paesi dell’Unione Europea è stata pesantemente indebolita dal varo delle sanzioni nei confronti della Russia e dall’aumento dei costi energetici dovuto alla sostituzione degli idrocarburi prima forniti da Mosca con quelli americani.
Ora non solo l’Unione Europea attende con ansia che le proprie produzioni vengano gravate dai pesanti dazi annunciati da Washington, ma si vede quasi del tutto esclusa dall’importante partita della ricostruzione dell’Ucraina, oltre che umiliata politicamente dal tycoon. Come se non bastasse, dall’altra parte dell’Atlantico si continua a chiedere a gran voce ai partner europei un aumento draconiano delle spese militari (fino al 5% del PIL) per sostenere i costi di una macchina bellica – quella della Nato – in fin dei conti ad uso e consumo degli interessi statunitensi.
I leader dell’Unione Europea sembrano essere stati colti completamente di sorpresa da una svolta americana sull’Ucraina che pure era annunciata, ma che forse speravano meno repentina e più equilibrata. Le riunioni d’urgenza finora convocate non sembrano aver appianato le divisioni interne.
L’UE vorrebbe salvare la faccia lasciando intendere che l’invio di truppe in Ucraina costituirebbe un contributo fondamentale alla fine della guerra e alla difesa di ciò che resta del paese, amputato del 20% del suo territorio. L’operazione, presentata all’insegna del principio “pace attraverso la forza”, pretenderebbe di forzare Mosca a cessare le ostilità. Peccato che l’eventuale invio di truppe europee – che qualche leader vorrebbe accompagnare a quello di contingenti di paesi neutrali o vicini a Mosca, come il Brasile e la Cina – avverrebbe dopo il cessate il fuoco, e quindi a cose fatte (da Trump e Putin).
Alla fine, comunque, solo la Gran Bretagna sembra effettivamente disponibile a inviare truppe in Ucraina (che Mosca ha già chiarito di non volere), mentre i paesi dell’UE subordinano la propria disponibilità alla garanzia costituita dallo schieramento nel paese di un consistente contingente militare statunitense, escluso però categoricamente da Washington.
L’unica misura adottata finora dai 27 è il varo di un sedicesimo pacchetto di sanzioni anti-russe, che penalizzano ulteriormente l’economia continentale quando sull’altra sponda dell’Atlantico è già iniziata la corsa a fare di nuovo affari con lo Zar.
A questo punto l’Ucraina può solo sperare che il prezzo da pagare a Washington per l’interessato aiuto non sia più pesante di quello incassato dalla Russia. Da parte sua, l’UE orfana della tradizionale guida americana si ritrova, per l’ennesima volta, a fare il vaso di coccio tra i due vasi di ferro. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria