di Michela Wrong*
(traduzione di Federica Riccardi)
Nel 1963, quasi tre dozzine di nazioni africane da poco indipendenti si riunirono ad Addis Abeba per fondare l’Organizzazione dell’Unità Africana. Tra i principi fondamentali abbracciati c’era l’inviolabilità dei confini nazionali esistenti di epoca coloniale. Il mancato rispetto di tali confini, concordarono, avrebbe aperto la strada a una rivendicazione irredentista dopo l’altra, minacciando di spaccare il continente.
Per gran parte degli ultimi sessant’anni, nonostante i confini siano stati ripetutamente violati e, in alcuni notevoli casi, ridisegnati, questo precetto legale è stato generalmente rispettato.
L’M23 sostiene di voler contrastare i gruppi estremisti hutu che hanno perpetrato il genocidio ruandese e si sono poi rifugiati nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Ma le Nazioni Unite e i vari Paesi donatori del Ruanda hanno da tempo respinto queste giustificazioni, consapevoli del fatto che il Ruanda, uno Stato densamente popolato e povero di risorse, ha sviluppato un appetito per i minerali di contrabbando della RDC ed è mosso da un puro interesse economico. In un discorso del 2023, il Presidente ruandese Paul Kagame ha affermato che i confini precoloniali del Regno del Ruanda si estendevano molto più in là delle frontiere attuali del Paese, sconfinando nell’odierna Uganda a nord, nel Burundi a sud e nella RDC a ovest.
Si tratta ora di capire se il mondo esterno è disposto a fare qualcosa per fermare l’avanzata dei ribelli. Osservando gli eventi delle ultime settimane, gli analisti e i diplomatici si sono chiesti se Kagame punti semplicemente a balcanizzare la RDC, per meglio perseguire la sua agenda economica e politica, o se in realtà cerchi di ridisegnare le frontiere di epoca coloniale del suo gigantesco vicino, creando un protettorato de facto la cui leadership prenderà ordini da Kigali, la capitale del Ruanda. Si profila anche una possibilità ancora più drammatica: in una ripetizione della storia, Kagame potrebbe pianificare un cambio di regime nella capitale congolese di Kinshasa, a circa 930 miglia di distanza in direzione ovest.
Sebbene l’offensiva del Ruanda abbia suscitato un crescente allarme a livello mondiale, le potenze occidentali e internazionali hanno tardato a intraprendere azioni significative. Dopo la presa di Goma da parte dell’M23, i funzionari statunitensi ed europei hanno rilasciato dichiarazioni di preoccupazione, ma poco più. Solo il 21 febbraio, dopo la caduta di Bukavu, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che condanna formalmente l’offensiva dell’M23, chiede un cessate il fuoco e l’immediato ritiro delle forze ruandesi dal territorio congolese.
Da allora, gli Stati Uniti hanno sanzionato un importante ministro ruandese, il Regno Unito ha annunciato la sospensione degli aiuti bilaterali al Ruanda, e l’Unione Europea ha dichiarato che sta rivedendo un accordo con il Ruanda per lo sfruttamento congiunto di minerali critici. Nel frattempo, gli Stati africani stanno valutando la possibilità di dispiegare un’altra forza di pace regionale nell’area, anche se non è chiaro come potrebbe riuscire dove i due predecessori hanno chiaramente fallito. Ma nessuna delle misure adottate finora sembra abbastanza forte o tempestiva da scoraggiare il continuo accaparramento di terre da parte del Ruanda.
Se l’M23 e i suoi sostenitori ruandesi riusciranno nel loro intento, un Paese che ospita già sette milioni di sfollati potrebbe essere inghiottito in una guerra destabilizzante, la terza dalla fine degli anni Novanta. Forse altrettanto importante è il fatto che, permettendo al Ruanda, che ha ricevuto miliardi di dollari di sostegno dall’Europa, dagli Stati Uniti, dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, di appropriarsi di fatto di una parte di uno Stato adiacente, l’Occidente rischia di contribuire all’ulteriore rottura di uno dei principi più cruciali a sostegno dell’ordine internazionale.
QUESTA VOLTA È DIVERSO
Sebbene il Ruanda si sia a lungo immischiato nel Congo orientale, gli eventi degli ultimi mesi hanno colto molti di sorpresa. Tra i diplomatici e gli analisti che si occupano dei Grandi Laghi africani, l’ipotesi prevalente era che Kagame – il cui sostegno all’M23 è stato esaurientemente documentato dalle Nazioni Unite – stesse usando il gruppo ribelle per proiettare un potere egemonico nella regione. Secondo questa visione, Kagame era infastidito dal fatto che i leader di Burundi, Congo e Uganda avessero aggirato il Ruanda in una serie di progetti di trasporto stradale e ferroviario, e stava segnalando che essi ignoravano la sua posizione di attore dominante a loro rischio e pericolo. Il fatto che il sostegno all’M23 permettesse al Ruanda di migliorare l’accesso al coltan, all’oro, allo stagno e ad altre risorse minerarie sepolte nel territorio congolese era solo un ulteriore vantaggio.
Ma questa analisi ha cominciato a crollare quando l’M23 ha iniziato a conquistare più territorio nelle due province del Kivu in Congo. Molti commentatori indicano ora il discorso di Kagame del 2023, pronunciato durante una visita ufficiale in Benin nell’aprile 2023, come una dichiarazione d’intenti fondamentale. Egli ha affermato che “i confini tracciati durante l’epoca coloniale hanno diviso i nostri Paesi. Gran parte del Ruanda è stata lasciata fuori, nel Congo orientale, nel sud-ovest dell’Uganda… questo è un dato di fatto. . . questo è un fatto. È un fatto della storia …E a queste persone sono stati negati i loro diritti”. Questa è una frase che da allora è stata ripresa dagli intellettuali ruandesi, fornendo una motivazione storica per il “Grande Ruanda” che potrebbe ora emergere nel Congo orientale.
Queste affermazioni – che semplificano e travisano i dati storici – segnano un cambiamento importante, Fino al 2023, Kagame aveva insistito sul fatto che non c’erano truppe ruandesi nella RDC e che Kigali non sosteneva l’M23. Esponendo pubblicamente la presenza ruandese nella RDC, è sembrato preparare la strada a una qualche forma di annessione. In realtà, queste idee sono presenti nel pensiero di Kagame da molti anni. “In passato, all’interno del gabinetto di cui facevo parte, Kagame alludeva costantemente all’idea del Grande Ruanda”, ha dichiarato Theogene Rudasingwa, ex ambasciatore negli Stati Uniti e capo dello staff di Kagame dagli anni ’90.
Nel dicembre 2024, i contorni del progetto più ampio del Ruanda stavano diventando più chiari. Quel mese, un gruppo di esperti ha riferito alle Nazioni Unite che nei territori sequestrati dall’M23 nel Nord Kivu si stava creando una “amministrazione parallela”, che comprendeva lo sfruttamento sistematico del coltan contrabbandato in Ruanda dalla miniera Rubaya del Nord Kivu. I diplomatici hanno notato separatamente che l’M23 sembrava bruciare i documenti nelle aree che controllava – una pratica che, se applicata agli atti di proprietà, avrebbe reso impossibile per i contadini dimostrare la proprietà della terra, aiutando a far posto alle famiglie tutsi che venivano fatte arrivare dal Ruanda per reinsediarsi. Cominciava a sembrare un piano di espansione territoriale ben preparato, portato avanti da un gruppo di ribelli equipaggiato – grazie alle linee di rifornimento del Ruanda – con missili anticarro e terra-aria a guida laser, oltre che con sofisticati sistemi antidrone.
All’inizio di gennaio, l’M23, sostenuto da 4.000 militari ruandesi, ha conquistato la città di Katale, sulle colline a nord-ovest di Goma. Una volta che Minova e Sake, sul lago Kivu, sono cadute sotto i colpi dei ribelli in avanzata, Goma è stata accerchiata e la sua cattura era solo questione di tempo. Pochi giorni dopo la caduta di Goma,
Corneille Nangaa, il leader grassoccio e con la barba bianca dell’Alleanza del fiume Congo, una coalizione che comprende l’M23 e una serie di altri gruppi ribelli, ha annunciato di voler marciare fino a Kinshasa, dove avrebbe rovesciato il Presidente della RDC Félix Tshisekedi.
LA STRADA PER KINSHASA
Per i corrispondenti stranieri che hanno coperto la regione dei Grandi Laghi negli anni ’90, c’è un senso surreale di déjà vu. Alla fine del 1996, un altro paffuto leader ribelle congolese, che fungeva da copertura per un intervento militare ruandese, dichiarò a un pubblico profondamente scettico che avrebbe marciato fino a Kinshasa per deporre l’allora presidente Mobutu Sese Seko. Quell’uomo si chiamava Laurent Kabila. Nessuno gli credette all’epoca, ma sei mesi dopo, dopo che l’esercito del
Congo si era dissolto come un mazzo di carte davanti all’avanzata della sua Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire (AFDL), la sua previsione si realizzò. Sono stata una dei tanti giornalisti che hanno visto le forze di Kabila, molte delle quali composte da bambini soldato, arrancare stancamente verso Kinshasa, mentre Mobutu e la sua famiglia si imbarcavano su un volo per il Togo.
Anche la velocità dell’attuale avanzata dell’M23 e il drammatico crollo delle forze congolesi hanno un sapore familiare. Sebbene alcune unità congolesi abbiano combattuto coraggiosamente, molte – proprio come ai tempi di Mobutu – si sono tolte le uniformi o sono fuggite; migliaia di truppe congolesi demoralizzate si sono unite all’M23. Le autorità congolesi hanno accusato decine di soldati di aver ucciso e stuprato i civili che avrebbero dovuto proteggere. Le forze ausiliarie a cui Tshisekedi si è affidato sottolineano ulteriormente la debolezza dell’esercito congolese: accanto a contractor militari europei – 288 dei quali si sono rapidamente arresi – la RDC ha schierato milizie locali a malapena addestrate, note come Wazalendo, che si suppone lavorino in collaborazione con l’operazione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite e con una forza dell’Africa meridionale.
Tuttavia, per il momento, le possibilità che l’attuale alleanza di ribelli prenda il controllo di Kinshasa sembrano scarse. Nel 1996, la fine della Guerra Fredda aveva radicalmente modificato le dinamiche a supporto di una generazione di despoti africani. I sostenitori occidentali di lunga data di Mobutu erano stanchi della sua corruzione e brutalità. I Paesi vicini erano esasperati dal suo impatto destabilizzante sulla regione e pronti a sostenere i ribelli di Kabila. Inoltre, Mobutu, che si era ritirato nel suo palazzo di Gbadolite, era un uomo malato: morì di cancro alla prostata meno di quattro mesi dopo essere fuggito dal Paese.
Questa volta, nessuna di queste dinamiche è presente. Sebbene permangano dubbi sulla legittimità della prima vittoria elettorale di Tshisekedi nel 2018, la sua rielezione, alla fine del 2023, è stata accettata a livello internazionale come ampiamente credibile. A fine febbraio, ha annunciato l’intenzione di istituire un governo di unità nazionale, nel chiaro tentativo di conquistare i partiti dell’opposizione, che potrebbero essere tentati di cercare di spodestarlo, irritati dal nepotismo e dall’incompetenza che hanno caratterizzato la sua amministrazione.
Inoltre, non c’è una coalizione di Stati africani che sostiene l’alleanza dei ribelli, come nel 1996. La posizione dell’Uganda, che era un partner chiave del Ruanda nella precedente guerra, è la più ambigua. Poco dopo l’inizio dell’assalto dell’M23 a Goma, 2.000 soldati ugandesi sono entrati nella RDC nei pressi di Butembo e Lubero, 150 miglia a nord della città, sollevando il timore che l’Uganda si stesse alleando con il Ruanda. Ma le truppe ugandesi erano già entrate nella RDC alla fine del 2021 su invito di Tshisekedi per affrontare un gruppo islamista. Inoltre, i rapporti tra Kagame e il presidente ugandese Yoweri Museveni sono freddi da decenni.
Nonostante una serie di tweet tipicamente eccitati del generale Muhoozi Kainerugaba, figlio di Museveni e capo delle forze di terra, in cui minaccia di attaccare la città di Bunia e di rivendicare la frontiera della RDC con il suo Paese, l’Uganda potrebbe semplicemente delimitare quello che considera il suo cortile congolese per tenerlo fuori dalla portata dell’M23.
È improbabile che Angola, Burundi e Zimbabwe sostengano il Ruanda. Le 12.000 truppe che il Burundi aveva dislocato nel Sud Kivu per sostenere l’esercito congolese si stanno ora ritirando, ma tra il Ruanda e il Burundi non c’è molto amore.
Per quanto riguarda Angola e Zimbabwe, entrambi si sono schierati con la RDC nel 1998, quando il Ruanda ha lanciato la Seconda guerra del Congo, con l’obiettivo di spodestare Kabila. Sebbene l’Angola abbia mediato i colloqui di pace tra il Ruanda e la RDC negli ultimi tre anni, le sue relazioni con il Ruanda sono tese. A dicembre, Kagame si è rifiutato di presentarsi a Luanda, in Angola, per firmare un accordo di pace con Tshisekedi e il Presidente angolano João Lourenço ha dichiarato di non voler più svolgere un ruolo di mediazione.
Tuttavia, anche se il Ruanda sembra, finora, andare da solo, ha incontrato una resistenza regionale molto limitata. Alcuni leader africani sono indubbiamente rimasti sconcertati dall’aggressione di Kigali, con i suoi evidenti echi dell’invasione dell’Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin. Ma non c’è molto che le nazioni dell’Africa orientale possano o vogliano fare al riguardo, dato lo stato delle loro forze militari. Si pensi a ciò che è accaduto al Sudafrica, che ha visto 14 dei suoi peacekeepers uccisi nell’attacco dell’M23 a Goma e ha poi firmato una tregua che ha permesso al suo contingente rimanente di essere disarmato dall’M23 e dalle Forze di Difesa ruandesi. “L’ultima volta che le truppe sudafricane sono state catturate o confinate in gran numero è stato durante la Seconda Guerra Mondiale”, ha dichiarato Darren Olivier, direttore dell’African Defence Review.
Anche la risposta di organismi multilaterali come l’Unione Africana, la Comunità dell’Africa Orientale e la Comunità per lo Sviluppo del Sudafrica è stata decisamente debole. In un vertice tenutosi all’inizio di febbraio in Tanzania, i leader dell’East African Community (EAC) e della Southern African Development Community (SADC) non si sono uniti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere il ritiro delle forze ruandesi dal Congo orientale. In seguito hanno approvato la ripresa dei negoziati di pace sotto l’egida di tre leader africani in pensione. Lo slogan “soluzioni africane a problemi africani” non è mai sembrato così debole.
L’OCCIDENTE ESITANTE
Con i governi africani apparentemente sopraffatti dagli eventi, la risposta dell’Occidente è diventata critica. Già nel 2012, quando una precedente variante dell’M23 entrò a Goma, la rigida resistenza occidentale si rivelò decisiva. I principali Paesi donatori, insieme alla Banca Mondiale, hanno sospeso 240 milioni di dollari di aiuti al Ruanda, imponendo a Kigali una stretta che ha di fatto messo fine alla crisi: i combattenti dell’M23 si sono dispersi in campi in Ruanda e Uganda nel giro di pochi mesi. Gli aiuti occidentali sono poi ripresi. Ma questa volta i Paesi donatori hanno esitato ad applicare una pressione efficace e Kagame ha approfittato di questi ritardi per rafforzare il suo vantaggio sul campo.
Prendiamo gli Stati Uniti. È improbabile che la tempistica dell’assalto a Goma, che ha coinciso con l’arrivo della seconda amministrazione Trump, sia stata una coincidenza. In precedenza, nessun funzionario occidentale era stato più critico del Segretario di Stato del Presidente Joe Biden, Antony Blinken, nei confronti del sostegno del Ruanda all’M23 e della presenza delle sue truppe nella RDC. A gennaio, tuttavia, Washington era distratta e Kagame sapeva che difficilmente Trump avrebbe avuto le stesse priorità in materia di diritti umani del suo predecessore democratico. Inoltre, sospendendo tutti gli aiuti globali statunitensi, l’amministrazione Trump aveva momentaneamente eliminato una potenziale leva. Il 20 febbraio, il Tesoro degli Stati Uniti ha finalmente sanzionato il ministro del governo ruandese ed ex capo dell’esercito James Kabarebe, principale architetto militare di ogni incursione ruandese nella RDC a partire dagli anni ’90, insieme al portavoce dell’M23 Lawrence Kanyuka Kingston. La mossa rappresenta la più severa reazione occidentale fino ad oggi, ma quando è stata resa nota, l’M23 era già saldamente insediato a Bukavu.
Anche l’Europa ha faticato a dare una risposta significativa. La Germania ha sospeso i colloqui di aiuto con il Ruanda e anche il Regno Unito ha messo in pausa la cooperazione in materia di aiuti e difesa. Ma il Lussemburgo – che ha un accordo per lo sviluppo di Kigali come centro finanziario – ha bloccato unilateralmente sanzioni severe da parte della stessa Unione Europea. Nel frattempo, l’operazione dell’M23 ha acquisito uno slancio apparentemente inarrestabile. Secondo l’analista veterana del Congo Stephanie Wolters, “Kagame ha corso un rischio calcolato quando l’M23 ha preso Goma e Bukavu, e ora ha intenzione di continuare a farlo”.
Per il governo congolese, le risposte inefficaci dell’Occidente seguono uno schema sconfortante. Decenni di sostegno allo sviluppo e di aiuti militari al Ruanda, insieme alla forte dipendenza dell’Occidente dalle forze ruandesi per le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, hanno permesso a uno dei Paesi più piccoli e poveri dell’Africa di trasformare il proprio esercito in uno dei più letali dell’Africa subsahariana. Ora questa capacità militare viene utilizzata in modo distruttivo ed egoistico. Durante una visita a Londra a metà febbraio, il ministro degli Esteri della RDC Thérèse Kayikwamba Wagner ha avvertito: “Questo è un Ruanda che sta perseguendo un cambio di regime con la violenza”.
INCIDERE O CONQUISTARE
Il governo ruandese sta comunque pagando un prezzo elevato per la sua ultima avventura in Congo. Le immagini satellitari mostrano che il cimitero militare di Kanombe di Kigali ha aggiunto più di 600 tombe negli ultimi tre anni, mentre fonti di intelligence stimano che le vittime delle Forze di Difesa del Ruanda potrebbero essere “migliaia”. Gli avvisi funebri per i soldati ruandesi vengono regolarmente pubblicati sulle pagine Facebook gestite da attivisti anti-governativi in esilio, mentre le famiglie in lutto pubblicano su TikTok omaggi “RIP” a questi giovani dal volto fresco, molti dei quali reclutati da poco, accompagnati da emoji di volti piangenti e suoni di singhiozzi. I membri della diaspora ruandese sono regolarmente contattati da disertori dell’esercito che chiedono aiuto. Dicono che questi uomini sentono che il loro piccolo Paese è coinvolto in una guerra senza fine e non vedono la logica dell’ultimo intervento militare.
Ma Kagame, che ha ottenuto il 99,18% dei voti alle elezioni dell’anno scorso, si è costruito da solo, nel corso di tre decenni, una posizione che lo rende in gran parte immune da cali di sostegno pubblico. Una generazione di giornalisti indipendenti è stata prima messa a tacere, uccisa o costretta all’esilio; gli YouTuber e i “citizen journalist” che hanno preso il loro posto ora languono in carcere. Sia il sistema giudiziario che la società civile sono stati costantemente politicizzati. In questo contesto altamente controllato, un flusso di corpi che ritornano ha un impatto minimo. “Le vittime non scoraggiano Kagame”, dice un ex comandante militare ruandese.
Naturalmente, il Ruanda potrebbe decidere che è sufficiente balcanizzare il Congo orientale, lasciando questa parte del Paese nominalmente sotto Kinshasa, ma con Kigali che controlla effettivamente le sue città e la sua economia ricca di minerali attraverso un’amministrazione fantoccio locale. Questo risultato, di per sé, avrebbe gravi conseguenze per la RDC, creando un precedente che altre zone ricche di risorse di questo gigantesco Paese potrebbero cercare di emulare, con la conseguente destabilizzazione dell’intera regione. Ma mentre l’M23 continua la sua avanzata, ciò che prima era impensabile diventa possibile. Ci sono sempre più segnali che Kagame potrebbe puntare a qualcosa di più.
Sultani Makenga, il tutsi congolese a capo delle operazioni militari dell’M23 nel 2012 e 2013, è stato visto solo sporadicamente in pubblico dalla caduta di Goma. Al contrario, Corneille Nangaa, leader dell’Alleanza del fiume Congo, è diventato il volto pubblico dell’offensiva. Nangaa proviene dalla provincia di Haut-Uélé, vicino al confine del Congo con il Sudan, e non è un tutsi. Può quindi dare più credibilmente ai ribelli sostenuti dal Ruanda la parvenza di un movimento nazionale congolese con un programma ampio, invece di apparire come difensore dei soli interessi ristretti dei
tutsi congolesi. I suoi sostenitori sperano che questi fattori giochino a loro favore mentre i ribelli avanzano, con l’M23 che sfrutta il crescente e diffuso sgomento popolare per la disorganizzazione, la debolezza e la corruzione dell’amministrazione di Tshisekedi.
Nangaa farà comunque fatica a raccogliere il sostegno popolare. Tutti i congolesi sanno che durante il periodo in cui è stato direttore della Commissione elettorale del Congo, ha contribuito alla controversa vittoria di Tshisekedi alle elezioni del 2018.
Ma un candidato più indipendente rappresenterebbe un rischio per Kigali, come ha imparato tre decenni fa con Laurent Kabila, che ha tentato senza successo di rovesciare l’anno dopo averlo insediato come presidente della RDC. “I decisori in Ruanda potrebbero giungere alla conclusione che un cambio di regime è problematico”, afferma Wolters. “Dopotutto, significherebbe negoziare con una leadership completamente nuova, e chiunque venga insediato rischia di essere rifiutato dalla popolazione congolese, mentre la comunità internazionale sarà ostile. Di conseguenza, il Ruanda potrebbe decidere di non muoversi e di consolidare le sue conquiste a est”.
Con lo sguardo rivolto all’abisso di una terza guerra del Congo che si profila, il Ruanda deve decidere fino a che punto intende rimodellare la geografia dei Grandi Laghi africani: se accontentarsi di un protettorato de facto del Kivu o tentare, ancora una volta, di costruire un nuovo governo con un occhio benevolo alla spartizione delle risorse tra Kinshasa e Kigali. Per gli abitanti di quello che oggi è il Paese francofono più popoloso del mondo, il costo di entrambe le opzioni sarebbe comunque alto e sanno di non poter contare sul sostegno dei loro vicini africani o dell’Occidente.
Fonte: https://www.foreignaffairs.com/democratic-republic-congo/how-far-will-rwanda-go-congo
Traduzione a cura di PagineEsteri