di Mjriam Abu Samra*

Sono sempre stata convinta di essere una persona estremanente ottimista. So, e me lo dico ogni mattina, che per continuare a credere nella rivoluzione, nella liberazione, bisogna riuscire a restare sempre romantici, e coltivare nonostante tutto una incondizionata fiducia verso il mondo. Leggere Wisam Rafidieh ha confermato e dato solidità politica a questo approccio spassionato e appassionato all’umanità. Ho anche sempre pensato che questo amore e questa fiducia si esprimessero spesso – e a volte soprattutto – attraverso una rabbia – che non è odio – ma è, appunto, la trasformazione dell’indignazione in azione determinata, convinta, indefessa. Non mi spaventa essere arrabbiata, non lo nascondo, anzi, spesso lo dimostro e lo comunico, ispirata proprio da quella inspiegabile, inconscia, convinzione che dal confronto e addirittira dallo scontro sincero e non-apologetico, possa ripartire l’analisi, la mobilitazione, la costruzione anche microscopica di un percorso rivoluzionario.

Oggi però no. Oggi mi sento sconfitta. La mia rabbia non è più motore. È disgusto.

Difficile da spiegare senza banalizzare. Non sono le immagini, le ennesime, le stesse, da un anno e mezzo a questa parte. Non è la stessa, forte indignazione per il silenzio assordante. Non è la constante e sempre più radicata consapevolezza del sistema; del marcio; dello squallido macchinone che continua ad opprimere e perpetrare violenza e repressione di ogni tipo, in ogni geografia. Non è la bruciante frustrazione per l’incapacità di troppi di vedere fino in fondo la raffinata oppressione del sistema e comprendere le radici profonde delle ingiustizie che viviamo.

È la confusione del pensiero, è l’incoerenza e l’inconsistenza politica che mi disgustano e paralizzano oggi. Perché sembrano confermare che l’individualismo e la superficialità che solo l’egocentrismo neoliberale può effettivamente produrre e continuare a rinforzare, hanno avuto la meglio. È la mancanza di solidità analitica, a livello collettivo ma anche – e più drammaticamente – a livello individuale, che mi spaventa. Non esiste la ricerca di un percorso trasformativo collettivo, proprio come il sistema si auspica. Ma non esiste neanche la fermezza critica di menti pensanti capaci di mantenere linearità di analisi e solidità di approccio. È il trionfo del buonismo e politically-trendy e politically-correct della sinistra perbenista. Il “tutto fumo e niente arrosto” che però trasuda arroganza politica e mi conferma che vivere in un mondo distopico ormai è una realtà accettata, anzi quasi cercata, per molti. Perché è comodo. Perché non richiede disciplina. Perché non richiede, appunto, neanche consistenza di pensiero. Perché appaga le coscienze. Il poter dire tutto, e poi il contrario di tutto, il poter essere rivoluzionari per la Palestina ma con le postille quando serve, o “staccando” quando è “tutto troppo intenso”. Il saltare di palo in frasca, indignarsi per tutto ciò che fa notizia, Benigni, Vecchioni, e Ventotene, senza sapere bene di che si parla, ma se ne deve parlare per non rischiare di restare indietro. L’Europa che è in crisi, e l’indignazione per il riarmo, tutto questo parlare, che però lascia il tempo che trova. Anzi no. E questo è il punto. Questo è il mio disgusto. Non lascia il tempo che trova. Perché in realtà genera confusione, distrazione. E inconsistenza. Una inconsistenza che può compiacere solo l’arroganza politica dell’individuo neoliberale e l’esaltazione di esso come centro fondante e imprescindibile di tutto.

E oggi che tutti si indignano per l’Europa che si riarma, mi viene solo da dire che anche questa è demagogia. Paroloni che restano vuoti e non hanno fondamenta.
Non esiste un passato coloniale europeo da cui emanciparsi, perché non è mai stato passato, e non c’è alcuna volontà di farlo diventare tale. Esiste, invece, un continuum coloniale che non si è mai concluso: al massimo si è spostato, si è trasformato, ha assunto nuove forme. Non esiste neanche un presunto riferimento etico ai valori morali che avrebbero ispirato il progetto europeista, l’approccio ai diritti individuali e collettivi o le relazioni internazionali. Non esiste una crisi di valori, perché non c’è mai stata una reale adesione a valori universali ed emancipatori. Esiste, piuttosto, una linearità arrogante e ottusa nel difendere e sostenere un sistema nato per essere e rimanere autoritario, oppressivo e coercitivo, ma con una forma così squisitamente neoliberale da rendersi desiderabile, amabile, persino difendibile perfino da coloro che ne sono vittime.

Non esiste alternativa al riarmo, perché neanche chi vi si oppone è realmente emancipato da una visione del mondo fondata su un pensiero e un’analisi eurocentrica. I valori di riferimento restano saldamente radicati in una visione illuminista che, pur presentandosi come universale, è in realtà l’espressione stessa dell’arroganza coloniale, interiorizzata come tale. L’Europa non può nemmeno concepire un’alternativa al riarmo, né a una strategia che non sia un goffo tentativo di “fare la voce grossa in virtù del nostro passato”, mentre altri urlano più forte. Non è che non voglia immaginarla: semplicemente, non può. È utopico pensare che in Europa si possa elaborare un pensiero trasformativo, perché sarebbe un paradosso. Non solo il progetto europeo, ma la stessa società, i popoli europei, non sono predisposti a pensare un’alternativa che sia realmente radicale. Per farlo, sarebbe necessaria una coscienza di rottura, che di fatto non esiste e non è mai esistita. E quando avrebbe potuto emergere, è stata diluita, incorporata, incatenata e infine deformata dal progetto e dalla retorica neoliberali, nascosta dietro il finto e arrogante linguaggio universale che sottende l’intero progetto europeo.

Non sono mai stata europeista, non ho mai creduto in quell’universalità dei valori con cui il progetto europeo ci è stato presentato, in quel buonismo e perbenismo arrogante che è diventato il mantra della sinistra borghese. Una sinistra che, di fatto, è al tempo stesso espressione e avanguardia del neoliberalismo.
Ho sempre pensato che l’Europa fosse semplicemente la nuova struttura e la nuova retorica con cui il capitalismo neoliberale ha potuto rafforzarsi, garantendo l’egemonia delle sue strutture sociali, politiche e del sistema di valori su cui si fonda. L’idea stessa di una “crisi europea dei valori” è priva di senso: crisi rispetto a cosa? Crisi rispetto a quando? Quando sarebbe stato il periodo d’oro dell’Europa? Quello degli imperi? Quello della costruzione dello Stato-nazione e dell’imposizione del sistema westfaliano al resto del mondo? L’Europa è sempre stata un progetto di dominio e di imposizione di valori, categorie e linguaggi su altri popoli. E quando sarebbe terminata questa ambizione alla supremazia di civiltà?

Ma per fortuna vivo qui. E mi ricordo che la rassegnazione, il perdere ottimismo, sono privilegi solo miei. E posso ancora scegliere di rinunciarci. E anche oggi, nonostante tutto, decido di credere che l’umanità si rivolterà e libererà anche l’Europa dalla sua ignoranza arrogante.

* Ricercatrice Università Ca’ Foscari – California Davis