Il 13 aprile, Luisa González, candidata alla presidenza dell’Ecuador per la Revolución Ciudadana affronterà al ballottaggio il banchiere Daniel Noboa, figlio dell’uomo più ricco dell’Ecuador, sostenuto dal Comando Sud degli Stati uniti in quanto “trumpista di ferro”: agli ordini del tycoon non solo per ricevere i migranti deportati, ma anche per accogliere le basi militari statunitensi, a cui i governi di Rafael Correa non avevano rinnovato le concessioni. Nelle urne, si scontrano due diversi modelli di paese; e se Luisa González non riuscisse a diventare la prima donna presidente dell’Ecuador, “non ci sarà più nulla a cui aggrapparsi per risalire il precipizio”, ci ha detto Gabriela Rivadeneira. Ex Presidenta del Parlamento ecuadoriano, Rivadeneira dirige oggi l’Istituto Eloy Alfaro per la Democrazia (Ideal) un centro di ricerca, di confronto e di formazione “di nuovi leader politici per l’America Latina”. Ideal, il cui presidente è l’ex capo di stato ecuadoriano, Rafael Correa, conta su prestigiosi collaboratori internazionali. Con Gabriela, che ha ottenuto asilo politico in Messico a causa delle persecuzioni seguite al ritorno del neoliberismo in Ecuador, abbiamo parlato delle elezioni presidenziali, a pochi giorni dal ballottaggio del 13 aprile.
Siamo a ridosso del 13 aprile, il secondo turno delle elezioni presidenziali. Un appuntamento cruciale per il destino del paese ma anche per quello del continente. Come si sta preparando l’Ecuador? Quali sono le aspettative?
Dopo otto anni, il persistente attacco alle istituzioni ha comportanto anche il rapido e radicale impoverimento di gran parte della popolazione, l’Ecuador è passato dall’essere il secondo paese più sicuro del continente, all’essere quello più violento e insicuro. Penso che ciò abbia scosso profondamente anche il tessuto sociale e popolare. Andremo al ballottaggio tra Luisa González, candidata della Revolución Ciudadana, che potrebbe diventare la prima donna presidente dell’Ecuador, e il banchiere Daniel Noboa, figlio dell’uomo più ricco del paese. Vale a dire che l’Ecuador, in questo preciso momento e in queste elezioni, si trova di fronte ai due poli opposti che emergono in tutta la regione. Da una parte, l’imposizione di un “diritto” sempre più irrazionale, sempre più violento, dall’altra la possibilità di ricostruire un vero stato di diritto. Vale a dire che oggi non aspiriamo nemmeno a radicalizzare un processo politico, ma semplicemente a recuperare lo Stato affinché possa essere utile a soddisfare i bisogni immediati della popolazione. Questa elezione è cruciale perché ci troviamo davvero in un momento di profonda crisi, una crisi multidimensionale. Se non riusciremo a far sì che il popolo ecuadoriano prenda subito una decisione per cambiare direzione, temo che in seguito sarà troppo tardi: perché non ci sarà più nulla a cui aggrapparsi, non abbiamo più nulla a cui aggrapparci all’interno del processo politico nazionale.
Noboa si è incontrato con Trump per discutere le modalità del ritorno delle forze statunitensi e la costruzione della nuova base navale a Manta. C’è il rischio di brogli?
Sì, con il pretesto di garantire la “sicurezza” di Noboa e dello Stato ecuadoriano, sono presenti nel paese il Dipartimento di Stato, il Comando Sud, la DEA e anche i mercenari della ex Blackwater. Ciò che sta accadendo è estremamente pericoloso, perché si tratta anche di una configurazione che si sta “naturalizzando”. La sfida è quella di non permettere che ciò avvenga, prima che sia troppo tardi.
In Europa è presente un alto numero di migranti ecuadoriani: in Spagna, Italia e Germania. Quale messaggio vuole inviare a questi elettori in un momento così complicato per la mobilità dei migranti?
Vorrei innanzitutto esprimere loro la mia gratitudine, perché i migranti hanno sempre dato un voto molto consapevole al processo politico e perché stanno vivendo momenti complessi, non solo in Ecuador, ma in tutto il mondo. C’è una situazione di guerra, una situazione di instabilità, di disperazione. In questo senso, i voti dei migranti, e in particolare quelli degli ecuadoriani migranti all’estero, ci hanno dato una lezione di saggezza e di resilienza. Ci auguriamo che questa volta non sarà diverso.