di Elfadil Ibrahim – Responsible Statecraft

Negli ultimi giorni del Ramadan, davanti alla Grande Moschea della Mecca, il presidente de facto e capo dell’esercito del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, si è inginocchiato in preghiera accanto al principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. Al-Burhan era arrivato nel regno appena due giorni dopo che le sue truppe avevano inferto un colpo significativo alle forze Paramilitari di Supporto Rapido (Rapid Support Forces, RSF), riconquistando la capitale Khartoum dopo due anni di guerra civile. Nell’inquadratura mancavano gli Emirati Arabi Uniti (EAU), la potenza del Golfo che ha sostenuto i rivali di al-Burhan nella guerra civile sudanese con armi, mercenari e copertura politica.

La scena ha catturato l’essenza di una spaccatura sempre più profonda tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – un tempo alleati nel rimodellare il mondo arabo, ora artefici di visioni concorrenti per il Sudan e la regione.

Da due anni il Sudan è avvolto nel caos. Il conflitto scoppiato nell’aprile 2023 tra le Forze Armate Sudanesi (Sudanese Armed Forces, SAF) e le RSF, guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”, ha inflitto immense sofferenze: si stima che ci siano stati 150.000 morti, accuse di atrocità di massa che hanno macchiato entrambe le parti, ma in particolare le RSF nel Darfur, 12 milioni di sfollati e più della metà della popolazione che si trova ad affrontare una grave insicurezza alimentare.

Khartoum, un tempo simbolo di confluenza, porta profonde cicatrici: distruzione diffusa, case saccheggiate e strade infestate da morti non sepolti. È in questo contesto di devastazione e di conquiste militari che al-Burhan ha compiuto il suo viaggio attraverso il Mar Rosso.

All’inizio del conflitto, l’Arabia Saudita ha svolto un ruolo di primo piano facilitando l’evacuazione di migliaia di stranieri attraverso Port Sudan, uno sforzo che ha raccolto una notevole benevolenza. Su questa base, e insieme agli Stati Uniti, il Regno ha assunto il ruolo di mediatore ospitando i colloqui per il cessate il fuoco di Gedda nel maggio 2023.

Questa mediazione si è allineata con il più ampio orientamento strategico di Riyadh verso la de-escalation, evidente nel suo riavvicinamento all’Iran e nella sua trasformazione da aggressore a pacificatore nello Yemen. L’instabilità sul Mar Rosso rappresenta una minaccia diretta per l’ambiziosa revisione economica del Regno – Vision 2030 -, in particolare per i progetti di punta come NEOM e i megaprogetti turistici sul Mar Rosso lungo la costa occidentale, nonché per l’espansione del terminale di Yanbu, che mira a diversificare le rotte di esportazione del petrolio dallo Stretto di Hormuz. Queste turbolenze rischiano anche di compromettere i fondamentali investimenti dell’Arabia Saudita per la sicurezza alimentare in Sudan, dove vaste imprese agricole sono diventate un pilastro dei legami bilaterali.

Tuttavia, il processo di Gedda si è affievolito e gli impegni firmati sulla carta si sono dissolti davanti alla realtà caratterizzata dai continui combattimenti. Un successivo sforzo guidato dagli Stati Uniti a Ginevra, incentrato sull’accesso umanitario dopo il fallimento dei colloqui di Gedda, ha vacillato quando il SAF ha boicottato completamente i colloqui. Nel 2025, il ritorno della dottrina “America First” del Presidente Donald Trump ha smantellato ciò che restava del capitale diplomatico americano. I tagli ai finanziamenti di USAID – che hanno fatto chiudere il 77% delle cucine alimentari d’emergenza del Sudan – non solo hanno aggravato la carestia, ma hanno privato Washington di una leva fondamentale da utilizzare per ottenere concessioni. Con gli Stati Uniti in ritirata, il vuoto si è rivelato irresistibile per l’Arabia Saudita.

Il punto di svolta è arrivato nel febbraio 2025. Mentre le RSF e i suoi alleati formalizzavano la loro carta per un’amministrazione parallela a Nairobi, l’Arabia Saudita, insieme a Qatar e Kuwait, ha espresso un fermo rifiuto pubblico. Il Ministero degli Esteri saudita ha dichiarato inequivocabilmente la sua opposizione a “qualsiasi passo illegittimo compiuto al di fuori delle istituzioni ufficiali del Sudan che ne minacci l’unità”.

La recente visita di Al-Burhan in Arabia Saudita e la sua tempistica hanno consolidato questo allineamento. L’accordo annunciato da entrambe le nazioni durante la visita di istituire un “Consiglio di Coordinamento per rafforzare le relazioni” indica un impegno a lungo termine, che va oltre il ruolo di arbitro neutrale. È significativo che questo incontro abbia seguito di poco la visita di una delegazione saudita di alto livello a Port Sudan, avvenuta qualche giorno prima e incentrata sulla ricostruzione.

Mentre Riyadh coltiva attivamente il ruolo di stabilizzatore regionale, Abu Dhabi si trova ad affrontare un crescente scrutinio riguardo al suo presunto ruolo nell’alimentare lo sforzo bellico delle RSF.

Nel marzo 2025, il Sudan ha presentato una causa alla Corte Internazionale di Giustizia, accusando gli Emirati Arabi Uniti di aver violato la Convenzione sul Genocidio attraverso il loro presunto sostegno militare, finanziario e politico alle RSF, facilitando così le atrocità, in particolare la pulizia etnica dei Masalit nel Darfur occidentale. Mentre il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha respinto il caso come “debole manovra mediatica”, le accuse fanno eco ai risultati di un rapporto del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, che ha ritenuto “credibili” le prove di forniture di armi degli Emirati Arabi Uniti (compresi droni e difese aeree) alle RSF.

Questo presunto sostegno ha scatenato notevoli ripercussioni politiche a Washington. Il senatore Chris Van Hollen e la deputata Sara Jacobs hanno confermato pubblicamente a gennaio, citando i briefing dell’amministrazione, che gli Emirati Arabi Uniti stavano effettivamente armando le RSF, contraddicendo direttamente le precedenti assicurazioni fornite all’amministrazione Biden. Anche il deputato Gregory Meeks, membro della commissione Affari Rsteri della Camera, ha bloccato la vendita di armi agli EAU per il loro ruolo in Sudan.

Le azioni degli Emirati Arabi Uniti in Sudan sembrano coerenti con un modus operandi regionale più ampio. Il copione di Abu Dhabi prevede il potenziamento di attori non statali, spesso con tendenze secessioniste, per assicurarsi l’accesso alle risorse e a posizioni geografiche strategiche. Abbiamo visto questo schema in Libia, con l’appoggio a Khalifa Haftar, e in Yemen, con il suo sostegno duraturo al Southern Transitional Council (STC), la cui spinta all’indipendenza contrasta direttamente con gli sforzi sauditi per mantenere l’unità yemenita sotto il Presidential Leadership Council (PLC).

La Somalia offre un altro esempio lampante, dove gli Emirati Arabi Uniti hanno aggirato Mogadiscio per armare e finanziare direttamente entità regionali come il Puntland (che avrebbe usato la sua base di Bosaso per i rifornimenti delle RSF), il Somaliland e il Jubaland, frammentando così il Paese e assicurandosi al contempo punti di appoggio costieri. L’annuncio del governo parallelo delle RSF a Nairobi, il mese scorso, è sembrato un’applicazione diretta di queste tattiche. Gli Emirati Arabi Uniti hanno concluso un prestito di 1,5 miliardi di dollari al Kenya la stessa settimana, facendo ipotizzare che la loro influenza abbia giocato un ruolo nell’ospitare l’evento a Nairobi.

Il crescente divario sul Sudan, quindi, non è un disaccordo isolato, ma è sintomatico di una più profonda divergenza strategica tra Riyadh e Abu Dhabi. Se un tempo si coordinavano strettamente, in particolare per contrastare la minaccia percepita dei Fratelli Musulmani e per cercare di rimodellare il Consiglio di Cooperazione del Golfo durante il blocco del Qatar, ora le loro strade divergono nettamente.

Dal punto di vista economico, sono in forte competizione: l’Arabia Saudita ha sfidato lo status di hub commerciale di Dubai attraverso politiche che richiedono sedi regionali a Riyadh e il lancio di megaprogetti rivali. All’interno dell’OPEC+, le tensioni tra i due paesi si sono acuite sulle quote di produzione, riflettendo priorità diverse e proiezioni non allineate sulla prossimità del futuro decarbonizzato. Anche i confini marittimi vicino alle isole Yasat sono diventati un punto di contesa, con Riyadh che ha presentato denunce all’ONU contro la demarcazione unilaterale di Abu Dhabi dell’area potenzialmente ricca di petrolio.

Questa rivalità si riversa ora nel dominio pubblico attraverso i social media. Recenti scontri online hanno visto commentatori sauditi noti e molto seguiti bollare le controparti emiratine come “reietti”, descrivendole come “odiate dagli arabi e dai musulmani”. In ambienti mediatici strettamente controllati, questi scambi taglienti spesso riflettono il disappunto delle autorità.

In definitiva, il Sudan sta pagando il prezzo di questa relazione fratturata nel Golfo. L’Arabia Saudita, spinta dagli imperativi della Vision 2030 e dal desiderio di riaffermare la leadership regionale attraverso la stabilità e le istituzioni statali, ha puntato sul SAF. Gli Emirati Arabi Uniti, concentrati sull’accesso alle risorse e sul contrasto alle minacce ideologiche percepite, continuano a sostenere le RSF nonostante la crescente condanna.

Finché la rivalità persisterà, il Sudan rimarrà tragicamente sotto il fuoco incrociato, il suo futuro tenuto in ostaggio da una lotta geopolitica che sta ridisegnando i contorni del potere nella regione.

Elfadil Ibrahim è uno scrittore e analista di politica sudanese. Il suo lavoro è stato pubblicato su The Guardian, Al Jazeera, The New Arab, Open Democracy e altre testate.