Con notizie di agenzia e informazioni della Associazione Daraj
Rapite in pieno giorno, torturate e poi fatte sparire. È quanto emerge dai racconti di un numero crescente di donne, quasi tutte alawite, rapite sulla costa siriana. Un fenomeno che si consuma sotto gli occhi della comunità locale e che si nasconde dietro un muro di silenzi imposti dalla paura, dallo stigma e da minacce dirette. E soprattutto nel disinteresse del nuovo regime che fa capo ad Ahmad Sharaa, presidente autoproclamato della Siria e leader del gruppo qaedista Hay’at Tahrir a-Sham
Rabab, nome di fantasia per proteggerne l’identità, è una delle poche sopravvissute al rapimento che ha trovato il coraggio di raccontare. È stata rapita in una piazza pubblica di un villaggio costiero, in pieno giorno. Spinta con forza su un furgone che non si è fermato a nessun posto di blocco, è stata portata in una casa sconosciuta. Con lei c’era Basma, anch’essa rapita, anch’essa alawita. Legate, picchiate, insultate. «Ci torturavano e ci vietavano di parlarci», ha raccontato Rabab. «Uno parlava con un accento straniero, l’altro con uno di Idlib. Ci odiavano perché eravamo alawite».

Siriani alawiti lasciano il Paese e cercano rifugio in Libano
Il caso di Rabab non è isolato. L’associazione Daraj ha documentato almeno dieci rapimenti analoghi, ciascuno con dinamiche diverse, accomunati però dalla brutalità e dalla costante minaccia di morte. Le vittime sono tutte donne giovani, rapite nei mercati, lungo le strade, talvolta mentre si recavano a scuola o al lavoro. Basma non è mai tornata a casa. Rabab l’ha lasciata in quella casa-prigione, dopo che uno dei rapitori avrebbe dichiarato di «essersi innamorato di lei». Il silenzio delle famiglie è un macigno che grava sulla possibilità di fare luce. «Speriamo di morire», ha dichiarato il padre di una ragazza rapita, esprimendo la disperazione di chi non solo perde una figlia, ma si ritrova muto davanti a una società che giudica, e a uno Stato che non protegge. In molti casi, le famiglie hanno ricevuto minacce dirette: «Se parlate, la restituiremo cadavere». Alcune ragazze sono riuscite a contattare i familiari tramite messaggi vocali o telefonate da numeri stranieri, persino dalla Costa d’Avorio o da paesi arabi. «Sto bene. Non dite nulla. Sono viva», ripetono le voci registrate. Poi, il silenzio.
L’“operazione militare” lanciata il mese scorso dal nuovo governo siriano per “ripulire” la regione costiera dalla presenza di ex combattenti lealisti del deposto presidente Bashar Assad ha lasciato dietro di sé un’ombra lunga. Human Rights Watch e Amnesty International hanno denunciato centinaia di uccisioni indiscriminate e casi di tortura contro civili alawiti. Ma nessuna cifra ufficiale è stata fornita. Secondo i centri di documentazione fuori dalla Siria, oltre 2.000 persone sono state uccise. Nelle ultime settimane migliaia di siriani alawiti sono scappati dalla Siria cercando rifugio in Libano.
È in questo contesto che si inserisce il fenomeno dei rapimenti, in un ambiente devastato dalla vendetta politica, dal collasso istituzionale e dalla riemersione di pratiche antiche. Alcune voci parlano di bande autonome, altre evocano lo spettro del ritorno della “prigionia” delle donne, una pratica già vista con l’ISIS ai danni delle ezide.
La difficoltà di ottenere prove è accentuata dalla paura dei sopravvissuti e delle famiglie. In un contesto sociale conservatore, una ragazza rapita è vista con sospetto al suo ritorno, nella sua comunità si ritiene che sia stata stuprata. Alcune famiglie hanno ricevuto “consigli” dalle autorità: «Lasciate la Siria» o «Ora che è tornata, è come se fosse divorziata». Nessuna parola di conforto, nessuna promessa credibile di giustizia. «Non c’è nessuno a cui chiedere conto», ha detto una madre, disperata. Le indagini sono inconsistenti: furgoni senza targa, telefoni non rintracciabili, mancanza di mezzi e volontà. In un caso, le telecamere di sorveglianza hanno immortalato un furgone durante un rapimento, ma il veicolo era senza targa e non ha potuto essere identificato.
Spesso i funzionari di polizia, legati al nuovo regime sunnita imposto da Sharaa, mostrano simpatia proprio per i sequestratori, ritenendoli gli esecutori di “giuste vendette” contro la comunità alawita considerata alleata di Assad e “apostata” da un punto di vista religioso.
Il blackout mediatico imposto nelle zone costiere complica ulteriormente la situazione. Le notizie faticano a emergere. Gli appelli delle famiglie si moltiplicano online, spesso accompagnati da foto delle ragazze scomparse e da numeri di telefono. Ma ogni pubblicazione comporta il rischio di nuove minacce. «Se pubblicate ancora, la uccidiamo», recitano i messaggi anonimi. La pratica del terrore si accompagna a una strategia sofisticata di controllo dell’informazione.
Nel vuoto lasciato dallo Stato, la paura si è trasformata in normalità. I rapimenti continuano, le storie si accumulano sui social media, come quella di ragazza rapita a Latakia e ritrovata giorni dopo a Damasco. Senza spiegazioni. Senza giustizia. La sensazione è che nulla cambierà.
Nel video la telefonata di Aya Qasim, una giovane donna alawita, rapita alle 8 del mattino dopo essere uscita di casa. Più tardi, quello stesso giorno, il suo telefono è stato acceso e la sua famiglia ha ricevuto due telefonate dai jihadisti ritenuti responsabili del rapimento. La ragazza Aya è disperata e chiede aiuto. Non è più tornata a casa.