di Soulayma MARDAM BEY, 12 aprile 2025 – L’Orient Today

Traduzione di Federica Riccardi

1975 – 2025: La guerra civile libanese 50 anni dopo

Alwaleed Yahia è nato nel 1987 nel campo palestinese di Yarmouk, in Siria. Suo padre era iracheno e sua madre palestinese, ma i suoi genitori si sono conosciuti in Libano. Come molti appartenenti a una generazione di arabi per i quali la causa palestinese era centrale, suo padre si unì ai fedayeen in Giordania nel 1967. Dopo la guerra civile giordana del 1970-71, nota come Settembre Nero, il padre di Yahia e i fedayeen furono espulsi in Libano.

La madre di Yahia era una rifugiata del campo di Tell al-Zaatar, allora situato nella parte nord-orientale di Beirut. Lei e la sua famiglia furono costrette ad andarsene nell’agosto del 1976, quando le milizie cristiane sostenute dalla Siria assediarono la zona. Dapprima fuggirono nel campo di Mar Elias, prima di trasferirsi nel campo di Shatila. Furono costretti a fuggire ancora una volta, questa volta in Siria, durante l’invasione israeliana di Beirut del 1982 e il massacro di Sabra e Shatila.

Nel 1994, sua madre ha ottenuto la cittadinanza libanese attraverso il decreto di naturalizzazione n. 5247, un processo che riflette la natura arbitraria del confine, tracciato dalle ex potenze coloniali, e sottolinea lo sconvolgimento demografico causato dalla creazione di Israele nel 1948.

Questo decreto si applica specificamente ai discendenti dei residenti di sette villaggi del Libano meridionale e delle aree circostanti. Questi villaggi furono trasferiti dal territorio del Grande Libano alla Palestina durante i mandati francese e britannico, e i loro abitanti furono poi espulsi nei Paesi vicini durante la Nakba. La madre di Yahia era una di loro.

Solo due decenni dopo, quando infuriava la guerra civile siriana e il regime di Assad e i suoi alleati avevano imposto un brutale assedio al campo di Yarmouk, Yahia ha riscoperto questa parte della sua identità. Come migliaia di siriani, compresi i rifugiati palestinesi della Siria, è fuggito in Libano.

È stato subito colpito dal netto contrasto tra il contesto siriano e quello libanese. “In Siria, i palestinesi avevano gli stessi diritti dei siriani. Erano integrati nella società, nel mercato del lavoro e persino nell’esercito. L’unica cosa che mancava loro era il diritto di voto e di candidatura. Ma in ogni caso, dopo il 1963, anche i siriani hanno perso questi diritti”, ha detto Yahia con ironia.

In Libano, invece, la situazione era completamente diversa. “Qui i campi sono dei veri e propri ‘cantoni’”, ha detto.

Nel corso dei decenni, questi ghetti sono diventati un simbolo dei tabù nazionali – enclavi radicate nella città, ma anche motore della complessa repressione tra i libanesi. Nel periodo successivo alla guerra civile, mentre il Libano cancellava un passato a cui non aveva mai guardato veramente, i palestinesi sono diventati il simbolo definitivo dell’alterità.

Sono loro a portare il peso di una storia recente dolorosa, che non poteva essere discussa nella sua dimensione libanese per paura di riaprire vecchie ferite. La guerra, quindi, doveva chiamarsi “guerra degli altri” o non esistere affatto. All’ombra della pax siriana, l’“altro” principale erano i palestinesi.

Come dice lo storico Fawwaz Trablousi: “Il concetto di ‘guerra degli altri’ è stato usato, nel dopoguerra, per convincere un Paese in cui i civili libanesi hanno imbracciato le armi contro altri civili libanesi che, alla fine, loro non c’entravano nulla”.

“Naturalmente, questa narrazione è stata supportata dalla realtà: le guerre straniere si sono intrecciate con la guerra civile e sono seguite le occupazioni siriane e israeliane”, ha aggiunto. “Ma affermare che coloro che hanno combattuto da una parte o dall’altra lo hanno fatto solo per servire agende straniere significa ignorare i loro sacrifici. Queste persone credevano nelle loro lotte. Alcuni pensavano che il cambiamento del Paese potesse avvenire solo attraverso la resistenza armata, mentre altri credevano di combattere per la propria sopravvivenza”.

È qui, ha detto lo storico, che si trova l’essenza dell’amnesia postbellica. Da questo buco nero emerge un solo attore, i palestinesi, a cui devono essere negati tutti i diritti per evitare ciò che più si teme: il loro insediamento permanente (tawtin).

Capro espiatorio

Il rifiuto dell’insediamento palestinese ha permesso agli attori libanesi di assolvere alle proprie responsabilità e ha reso possibile la creazione di un senso di nazione. Tuttavia, questa inclinazione può essere ricondotta a ferite profonde.

Per tutta la durata della guerra, le relazioni tra palestinesi e libanesi sono state messe a dura prova dagli attacchi preventivi o reattivi di Israele al Libano per reprimere la resistenza palestinese. Gli attacchi hanno avuto gravi conseguenze per le popolazioni locali. In particolare nella parte meridionale del Paese, il crescente tributo di distruzione ha gradualmente alimentato il risentimento e la stanchezza tra gli abitanti, soprattutto tra gli sciiti. A ciò si aggiunge il comportamento di alcuni fedayeen nei confronti dei civili: furti, arresti, rapimenti…

Durante la guerra, in cui ogni omicidio di massa serviva come giustificazione per quello successivo, le fazioni palestinesi non si sono discostate da questa regola. È il caso del massacro di Damour del 20 gennaio 1976, compiuto congiuntamente dalle forze del Movimento Nazionale Libanese e dalle milizie palestinesi. Quello stesso mese fu segnato dall’inizio dell’assedio ai campi palestinesi di Jisr al-Basha, Tell al-Zaatar e Dbayeh da parte delle fazioni cristiane.

In seguito, la partecipazione dei gruppi palestinesi allineati con la Siria (il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP)-Comando Generale, un ramo dissidente del PFLP, e Fatah al-Intifada, un gruppo scissionista di Fatah) alla guerra di Shouf-Aley del 1983, a fianco del Partito Socialista Progressista (PSP) e contro le Forze Libanesi (LF), fu un’evidenza.

Nonostante il suo coinvolgimento diretto nella guerra, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) fu esclusa dai negoziati di Taif. L’accordo del 1989 non menzionava le relazioni libano-palestinesi, mentre attribuiva un’importanza fondamentale alle relazioni libano-siriane. Damasco è emersa come il maggior vincitore della guerra, sia come attore chiave nell’eliminazione dell’OLP dal Libano sia nell’indebolimento della leadership libanese-cristiana. Israele occupava ancora il Libano meridionale quando l’OLP e Israele avviarono i negoziati che, con gli accordi di Oslo del 1993, finirono per marginalizzare la questione dei rifugiati.

In circostanze sfavorevoli, i palestinesi sono stati spesso invocati nei dibattiti pubblici come il “nemico in casa”.

Già nel 1988, poco dopo la revoca dell’Accordo del Cairo del 1987, il leader del PSP Walid Joumblatt affermava che “gli attuali problemi fomentati da Arafat sono un complotto contro i patrioti libanesi e la Siria, e un servizio reso a Samir Geagea, Michel Aoun e Israele”.

Tra gli sciiti, la popolazione era ancora tormentata dalle violenze della guerra dei campi del 1985-1988, che vide l’OLP contrapposta al Movimento di Amal.

I sunniti agivano in un contesto in cui i poteri del presidente – e successivamente quelli della rappresentanza maronita – erano stati ridotti. Sunniti e sciiti avevano ottenuto significativi vantaggi politici e istituzionali e molti sunniti, a partire dal Primo Ministro Rafik Hariri, presero apertamente le distanze dall’OLP, un gruppo di cui non avevano più bisogno e la cui presenza era ampiamente percepita come all’origine della guerra.

L’ironia è che nel 2004 il presidente Emile Lahoud, molto vicino al regime di Assad, ha giustificato il rinnovo del suo mandato con la necessità di lottare contro l’insediamento permanente dei palestinesi, tra le altre ragioni. Ancora più ironico è il fatto che nel 1998 avesse accusato il suo rivale, Hariri, di perseguire questo insediamento in cambio di una compensazione finanziaria.

Terra di nessuno

Il coinvolgimento diretto dell’OLP nella guerra libanese spiega in parte questo risentimento diffuso, ma le sue radici sono molto più profonde e possono essere ricondotte alla Nakba e al suo legame con la costruzione dello Stato libanese.

Nella primavera del 1948, appena cinque anni dopo l’indipendenza del Libano, più di 100.000 palestinesi, per lo più sunniti, cercarono rifugio in Libano, un Paese alla ricerca della propria identità, a cavallo tra il mondo arabo e l’Occidente. All’epoca la popolazione era di soli 1,2 milioni di persone e, nonostante i legami libano-palestinesi che duravano da secoli, l’afflusso di rifugiati fu uno shock demografico per questo Stato emergente, fondato su un equilibrio settario estremamente fragile.

“Prima dell’istituzione degli Stati nazionali, non esistevano confini reali tra Libano, Siria e Palestina”, afferma la storica Jihane Sfeir. “La circolazione di beni e persone è continuata anche dopo la loro istituzione. La Palestina sotto il mandato britannico era molto più prospera del Libano sotto il mandato francese, e molti lavoratori libanesi vi si recavano fino agli anni ’40 per lavorare”.

“La regione che si estende dal nord della Galilea al sud del Libano ha costituito a lungo un’unica entità di villaggi e molti matrimoni hanno avuto luogo tra le diverse famiglie che vivevano in queste zone, sia che si trattasse di abitanti dei villaggi che di borghesi delle grandi città”, ha aggiunto.

Ma con la Nakba, questi aspetti della vita sono stati congelati nel tempo. La compassione è stata rapidamente superata dall’angoscia, poiché lo sconvolgimento temporaneo è diventato permanente. Il passaggio a un sentimento anti-palestinese, tuttavia, è stato graduale e le politiche nei confronti dei nuovi arrivati sono state molto diverse a seconda delle classi sociali e dell’appartenenza religiosa.

“La naturalizzazione di alcune categorie di rifugiati è iniziata un anno dopo il loro arrivo”, ha osservato Sfeir. “Il decreto del 1949 si applicava dapprima ai palestinesi di origine libanese e armena, così come agli individui borghesi, cristiani o sunniti. La presidenza di Camille Chamoun permise la naturalizzazione di un’ampia porzione di palestinesi cristiani, senza mai stabilire l’appartenenza religiosa come criterio chiaro”.

Nei primi anni dell’esilio, la popolazione palestinese in Libano comprendeva una comunità cristiana – tra il 20 e il 25% dei rifugiati – molto più numerosa di quella degli altri Paesi in cui erano fuggiti.

“Tuttavia, alcuni rifiutarono la naturalizzazione, temendo di non poter più tornare”, ha detto Sfeir. “La maggior parte di questi rifugiati cristiani – circa 5.000 – vive ora nel campo di Dbayeh. Sono collocati in una sorta di terra di nessuno dell’identità, lontani dagli altri campi palestinesi da un lato e dai libanesi dall’altro”.

A volte, queste naturalizzazioni sembrano essere servite a scopi politici locali. Anis Mohsen, redattore capo dell’Istituto per gli studi palestinesi (Majallat al-Dirasat al-Filastiniyya) è nato a Sour nel 1958 da una famiglia di rifugiati originaria del villaggio palestinese di al-Bassa. “A Sour, ho parenti che hanno ottenuto la cittadinanza libanese all’epoca, anche se erano sunniti, per sostenere la famiglia Khalil – alleata di Camille Chamoun – contro la famiglia Safieddine alle elezioni”, ha spiegato Mohsen.

Per i palestinesi in Libano si creò rapidamente una varietà di realtà sociali. I più ricchi si stabilirono nelle città costiere come Beirut, Saida e Sour. I più poveri, spesso provenienti da ambienti rurali, si ritrovarono gradualmente in campi dove le condizioni di vita erano orrende.

“All’inizio c’erano le tende. Non c’era acqua, elettricità o servizi igienici”, ha detto Mohsen. In una regione araba instabile, dove all’epoca il nasserismo stava prendendo piede, la presenza di rifugiati palestinesi sollevò le preoccupazioni delle autorità libanesi, soprattutto dopo la crisi del 1958 e l’insurrezione contro il presidente Camille Chamoun. Il Secondo Ufficio, originariamente creato dal generale Fouad Chehab per controllare l’opposizione libanese – in particolare i partiti di sinistra e nazionalisti arabi – sorvegliava da vicino i campi palestinesi nel tentativo di impedirne la politicizzazione.

“La realtà di essere palestinesi fuori dal campo è molto diversa da quella di essere dentro il campo. Chi era fuori, come noi, aveva una libertà molto simile a quella dei libanesi. Se non parlavano di politica, non gli succedeva nulla”, ha detto Mohsen. “Tuttavia, all’interno del campo, gli abitanti erano costantemente monitorati. Era necessario un permesso per andare in un altro campo, erano vietati gli incontri al di fuori della sfera familiare, così come l’accesso ai giornali o l’ascolto della radio”.

Allo stesso tempo, durante i primi decenni di esilio, il Libano ha beneficiato dei capitali palestinesi che affluivano nel Paese e dell’influenza di intellettuali e artisti che hanno contribuito attivamente al dinamismo culturale di Beirut. Essendo anglofoni in un Paese francofono, molti dei nuovi arrivati hanno anche partecipato allo sviluppo del settore dell’istruzione in lingua inglese o si sono uniti, durante il boom petrolifero, alle aziende britanniche e americane con sede in Libano.

“C’è stata un’integrazione di una parte della borghesia palestinese nella borghesia libanese”, ha osservato Traboulsi. “Molti uomini d’affari hanno investito in settori come la finanza, l’industria, le assicurazioni e il turismo”.

Molti palestinesi sono stati tra coloro che hanno plasmato l’ascesa del capitalismo libanese tra il 1948 e il 1967. Il più famoso, ovviamente, è Youssef Beidas, che fondò la Intra Bank nel 1951. Alla vigilia del suo crollo nel 1966, la banca deteneva quasi il 50% dei depositi del Paese.

“Era una banca nazionale araba che competeva con le banche familiari dell’indipendenza”, spiega Traboulsi. “Inoltre controllava una parte significativa dell’economia. Ad esempio, deteneva azioni della società che gestiva il porto di Beirut ed era l’azionista di maggioranza in settori chiave come il Casino du Liban e la Middle East Airlines”.

Il fallimento di Intra Bank avvenne in circostanze preoccupanti, tra tensioni con l’élite tradizionale del Paese, alcuni dei quali temevano la crescente influenza di Beidas.

“La stupefacente ascesa e caduta di Beidas è stata considerata da alcuni come un presagio delle terribili dispute libano-palestinesi degli anni Settanta”, ha scritto il famoso pensatore palestinese Edward Said nel suo libro di memorie ‘Out of Place’. “Ma a me è sembrato che simboleggiasse la traiettoria interrotta imposta a molti di noi dagli eventi del 1948”.

Ascesa

Nel 1969, più di vent’anni dopo la Nakba, le relazioni libanese-palestinesi hanno preso una nuova piega a seguito di una rivolta nei campi del paese, quando i palestinesi, sostenuti da alcuni libanesi, si sono ribellati contro il Secondo Bureau dell’esercito. L’atmosfera nel paese era estremamente tesa. Dalla sconfitta del 1967, gruppi di fedayin hanno condotto operazioni contro Israele dal Libano, scatenando preoccupanti rappresaglie israeliane che hanno preso di mira anche i civili.

Di fronte alle crescenti tensioni tra l’OLP e l’esercito libanese, da un lato, e gli attacchi israeliani sul territorio libanese, dall’altro, il generale Emile Boustani, comandante in capo dell’esercito libanese, ha firmato un accordo al Cairo il 3 novembre, 1969, con il leader dell’OLP Yasser Arafat.

Questo accordo ha riconosciuto la legittimità di una presenza armata palestinese e ha permesso ai fedayin di effettuare operazioni da Arqoub, situata sul confine meridionale del Libano, nel rispetto della sovranità e della sicurezza del paese. L’accordo garantiva anche ai rifugiati palestinesi il diritto al lavoro, alla residenza e al trasporto. Da quel momento in poi, l’OLP gestiva i campi.

L’accordo del Cairo del 1969 ha segnato l’inizio di un periodo di forza per i palestinesi. L’OLP ha sviluppato istituzioni politiche, economiche, militari e sociali, creando posti di lavoro per una popolazione che era stata precedentemente strangolata.

“Il periodo che è iniziato in quel momento è spesso visto come un’età d’oro per i palestinesi in Libano,” ha detto l’antropologa Hala Abou Zaki. “Chi l’ha vissuta parla di un dinamismo molto forte, di speranza e di desiderio di impegno. Si tratta di un’età d’oro rispetto a ciò che è venuto prima e ciò che è seguito.”

Per molti libanesi, tuttavia, questo periodo era maturo con divisioni politiche interne che si sovrapponevano alla questione della sovranità: le disuguaglianze sociali tra e all’interno delle comunità, e una distribuzione ineguale del potere tra cristiani e musulmani a favore dei primi, complicata la ricerca di un’identità nazionale da parte del Libano.

Dovrebbe essere parte integrante del mondo arabo, come desiderano i pan-arabi? È una nazione distinta, come affermano i nazionalisti libanesi? Dovrebbe allearsi con l’Unione Sovietica o allinearsi con l’Occidente? Queste profonde divisioni riflettevano spesso un’altra divisione tra le ali destra e sinistra della politica.

L’accordo del Cairo è stato accolto positivamente dalle forze cosiddette “progressiste” del Movimento nazionale libanese, guidate da Kamal Joumblatt, per il quale la resistenza palestinese era sia un indicatore ideologico che un sostegno significativo – in particolare militare – contro un regime libanese le cui élite erano considerate conservatrici e resistenti al cambiamento sociale e politico, e contro un esercito nazionale che era sempre più associato con le autorità.

D’altra parte, la tradizionale dirigenza maronita si è subito mostrata ostile all’accordo, considerandolo una minaccia sia per la stabilità del sistema politico libanese che per la sovranità del paese.

All’epoca, tuttavia, la resistenza palestinese aveva una vera e propria popolarità, che si estendeva oltre i circoli musulmani. Ad esempio, un sondaggio condotto dal giornale Annahar nel settembre 1968 ha rilevato che quasi il 79 per cento della popolazione sostiene i fedayeen. Un altro sondaggio pubblicato nel novembre 1969 ha mostrato che quasi il 94 per cento degli studenti musulmani e il 55 per cento dei loro omologhi cristiani li sostenevano.

“Mio padre mi ha raccontato che un giorno nel 1971, si stava allenando con un gruppo di fedayeen del Fronte Popolare in una zona a nord di Beirut,” ha detto Yahia. “Erano nuovi in Libano, si sono persi nella zona e sono finiti in un villaggio cristiano.”

“Un uomo con mezzi molto modesti li accolse e decise di cucinare per loro tutto quello che aveva in casa. Sentiva un senso di solidarietà con i palestinesi. Naturalmente, c’erano già tensioni all’epoca. Ma niente come durante o dopo la guerra.”

Declino

Tuttavia, l’atteggiamento della maggioranza pubblica cristiana verso i palestinesi si è rapidamente deteriorato fino al punto di non ritorno. Consentendo ai palestinesi di combattere dal territorio libanese, l’accordo del Cairo ha anche alimentato l’arroganza di entrambe le parti in un paese profondamente diviso.

Quando il Movimento Nazionale Libanese divenne più ardito, molti cristiani si sentirono minacciati. Hanno visto l’attivismo palestinese nel paese come un insediamento di uno stato all’interno dello stato. Temevano che, a lungo termine, il Libano sarebbe diventato una patria alternativa per i rifugiati.

I legami già complicati tra libanesi e palestinesi sono stati ulteriormente e cinicamente sfruttati dalle potenze regionali, a cominciare da Israele da una parte e dalla Siria dall’altra, e hanno avuto ripercussioni sulle alleanze esistenti. L’invasione israeliana del 1978 ha rimodellato il Libano meridionale, sia nel suo paesaggio che nelle relazioni tra i suoi abitanti.

Dopo l’incursione del commando palestinese che ha ucciso 34 israeliani sulla strada costiera Tel Aviv-Haifa, le forze israeliane si sono spinte fino al fiume Litani. Il bilancio umano è stato pesante: l’esercito israeliano ha ucciso più di 2.000 civili libanesi e palestinesi, ha sfollato oltre 200.000 persone, ha distrutto sei villaggi e ne ha danneggiati altri 82.

Dopo il suo ritiro, Israele ha istituito una zona cuscinetto profonda 10 chilometri sotto forma di un mini-stato che collega tre enclave cristiane. Alla sua testa, ha messo uno dei suoi collaboratori, ex ufficiale dell’esercito libanese Saad Haddad. Ha anche impedito l’ingresso alla UNIFIL (Forza Provvisoria delle Nazioni Unite in Libano), che era stata creata per proteggere le aree evacuate da Israele.

In queste circostanze dolorose, la rabbia contro l’OLP è aumentata e diverse figure politiche libanesi di varie comunità lo hanno incolpato per aver trascinato il paese nella catastrofe. Questo sentimento è diventato sempre più diffuso tra il pubblico in generale, anche all’interno delle popolazioni che storicamente hanno mostrato solidarietà con i palestinesi.

Nei villaggi del sud, molti abitanti sciiti hanno preso le armi per bloccare il dispiegamento militare palestinese vicino alle loro case. Il divario si è ulteriormente allargato con la scomparsa di Musa Sadr, fondatore del Movimento Amal e teorico dell’alleanza tra i ‘spossessati sulla loro terra’ (gli sciiti) e i ‘spossessati della loro terra’ (i palestinesi).

“Quando Musa Sadr ha fondato il Movimento Amal, ha ricevuto il sostegno di Fatah,” ha detto l’ex professore universitario libanese Saoud al-Mawla, “Fatah aveva bisogno di un appoggio sciita non di sinistra per la sua concentrazione nel sud,” “Ma dopo il rapimento di Musa Sadr [nell’agosto 1978], è scoppiato un conflitto tra gli sciiti e la sinistra libanese-palestinese”, ha detto Mawla. “La rivoluzione iraniana, seguita dalla guerra Iran-Iraq, ha ulteriormente aggravato la divisione tra i palestinesi e gli sciiti.”

Con il sostegno popolare per l’OLP in declino e il Movimento Nazionale Libanese indebolito dalle dispute interne, Israele invase il Libano per una seconda volta nel 1982, avanzando fino a Beirut. Il suo obiettivo era duplice: porre finalmente fine al movimento nazionale palestinese e instaurare un governo allineato.

“Ricordo i continui bombardamenti” ha raccontato Intissar al-Dinan, scrittrice, poetessa e attivista del PFLP. “Era la prima volta che vedevo così tante persone morte e case squarciate. La direttrice della scuola in cui ero iscritto è stata uccisa. Ricordo anche tutti quegli uomini riuniti, tra i 15 e i 60 anni, che gli israeliani avevano costretto a spogliarsi. Erano militanti di tutte le fazioni palestinesi. Dovevano camminare con le mani legate.”

Dinan è cresciuta a Serop, un quartiere della città sunnita di Saida. Nata nel 1970 da madre libanese e padre palestinese di Safad, ricorda ancora il 1982 come l’anno in cui la sua coscienza politica ha cominciato a prendere forma.

A dicembre, miliziani falangisti hanno bussato alla porta di suo padre. Era un combattente nella fazione palestinese al-Sa’qa allineata con Assad. I falangisti avevano già ucciso lo zio di Dinan, e ora erano lì per ucciderlo.

“Prima del 1982, avevo l’impressione che ci fosse una grande solidarietà con i palestinesi. Ricordo un tempo in cui i fedayeen sostenevano finanziariamente gli abitanti e distribuivano mouneh”, ha detto. “Con l’occupazione israeliana, mi sono resa conto del grado di ostilità che i palestinesi hanno affrontato. Anche se molti libanesi hanno resistito, alcuni hanno accolto i soldati israeliani con riso e acqua di rose.”

La partenza forzata di Arafat dal Libano quell’estate, insieme ad altri alti dirigenti dell’OLP, fu disastrosa per i palestinesi. I servizi un tempo forniti dalle istituzioni dell’OLP non erano più disponibili. La popolazione era economicamente soffocata. A questo si aggiunge il peso di una crescente emarginazione sociale e spaziale. “Era una seconda Naksa [la sconfitta del 1967],” ha detto Yahia.

L’assassinio di Bashir Gemayel, mentre stava per assumere la presidenza, è stato seguito da uno degli episodi più oscuri della storia palestinese: il massacro di Sabra e Shatila del dicembre 1982, descritto in seguito dal l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come “un atto di genocidio”.

Il crimine, compiuto da milizie cristiane sostenute da Israele, si è verificato quando non c’erano combattenti rimasti nel campo e mentre l’inviato speciale degli USA in Libano aveva promesso ad Arafat che nulla sarebbe accaduto ai civili lasciati indietro, che erano rimasti nei campi senza protezione dell’OLP.

Uno studio dell’appendice segreta del rapporto della Commissione Kahane di Israele – reso pubblico nel 2018 ma visto in precedenza dallo storico americano Seth Anziska – ha evidenziato la cooperazione di lunga data tra i falangisti e Israele, e la possibilità di un massacro su vasta scala discusso anche prima dell’assassinio di Bashir Gemayel. Il desiderio di Gemayel di espellere la popolazione palestinese si allineava perfettamente con l’intenzione di Israele di schiacciare il nazionalismo palestinese e risolvere la questione dei rifugiati una volta per tutte.

Vicini e fratelli
Tre anni dopo, la guerra dei campi ha travolto la parte occidentale della capitale e Sour, dove palestinesi e sciiti vivevano fianco a fianco. Questi scontri sono il risultato del conflitto tra il presidente siriano Hafez al-Assad da una parte e Arafat dall’altra, entrambi in lotta per il controllo del territorio libanese.

I combattimenti hanno messo l’OLP contro il Movimento Amal, sostenuto da Damasco. L’obiettivo della milizia sciita era quello di impedire il ripristino della presenza militare dell’OLP, assicurare il proprio dominio sull’area e ridurre la popolazione palestinese nell’area. L’obiettivo della Siria era quello di rompere l’autonomia del movimento nazionale palestinese e indebolire l’influenza di Arafat – in particolare sostenendo le fazioni palestinesi dissidenti – per sfruttare la situazione libanese a proprio vantaggio nel suo tiro alla fune geopolitico con Israele.
I civili, sia palestinesi che libanesi, hanno pagato un prezzo molto alto e i campi sono stati sottoposti a blocchi totali o bombardati senza sosta.

“Con la guerra dei campi, Shatila e Bourj al-Barajneh hanno subito una distruzione significativa. Il campo di Shatila, infatti, è stato quasi ridotto in cenere, cosa che non era più avvenuta dopo i massacri del 1982”, ha detto l’antropologo Zaki. “E poiché i servizi segreti siriani erano basati a Beirut, i campi sono stati controllati dopo questa guerra da fazioni affiliate con loro, che hanno impedito il ritorno dei combattenti di Fatah.”
“È stata una guerra terribile, una guerra tra vicini, tra fratelli”, ha detto Majdi riflettendo sul periodo 1985-1988. Il cinquantenne appassionato di sport ha fondato l’associazione Basket Beats Borders a Shatila, dove viveva, per incoraggiare ragazze e adolescenti palestinesi a giocare a pallacanestro. Ha vissuto la guerra civile dall’inizio alla fine. Aveva solo quattro anni quando fuggì con la sua famiglia dalle baraccopoli di Karantina per sfuggire al massacro. Aveva 10 anni quando si verificarono i massacri di Sabra e Shatila.

“Siamo stati in grado di scappare il primo giorno grazie ai nostri vicini libanesi. Ci hanno detto: ‘Andate via. Andatevene subito. Stanno cercando i palestinesi. Siamo libanesi, non ci faranno del male,’ ha ricordato Majdi. “Ma quando è tornato al campo con la sua famiglia, hanno trovato i cadaveri dei loro soccorritori allineati a terra.

“Tutti gli orrori e tutti gli spostamenti che abbiamo vissuto durante la guerra, li hanno vissuti anche i libanesi “, ha detto Majdi. “Oggi, sento che il rapporto tra molti libanesi e palestinesi si basa su un misto di solidarietà e rifiuto. La maggior parte di loro, per esempio, trova atroce ciò che sta accadendo a Gaza. Ma danno comunque la colpa a noi.”

“E’ vero che alcuni erano disposti a normalizzare le relazioni con il nemico sionista e volevano un Libano solo per i cristiani. Ma quando si tratta di noi, non avremmo dovuto partecipare a una guerra tra i libanesi. Abbiamo perso tempo e abbiamo perso la bussola. Il nostro unico obiettivo avrebbe dovuto essere quello di combattere contro Israele. Ed è stato un errore politico pensare che ‘la strada per Gerusalemme passa attraverso Jounieh.”

Fonti:

Abou Zaki, H.-C.-. (2020). The Uses of the Past in Lebanon: the Case of the War-Torn Past of Palestinians. Confluences Méditerranée, 112(1), 177-191.

Brynen, Rex. Sanctuary and Survival: The PLO in Lebanon. Boulder: Westview Press, 1990.

Khawaja, Bassam. War and Memory: The Role of Palestinian Refugees in Lebanon (2011). History Honors Projects. 13.

Sfeir, Jihane. Palestinians in Lebanon: The Birth of the ‘Enemy Within,’ 13-33 (Cited in: ed., Muhammad Ali Khalidi, Manifestation of Identity: The Lived Reality of Palestinian Refugees in Lebanon (Beirut, Lebanon: Institute for Palestine Studies (IPS) and Beirut & Institut français du Proche-Orient (IFPO), 2010).