Secondo quanto rivelato oggi dal Washington Post, basandosi su fonti interne e una bozza di piano strategico, funzionari dell’Amministrazione Trump stanno valutando la possibilità di ridurre o rimuovere le protezioni federali su milioni di etteri di parchi nazionali nell’Ovest americano, con l’obiettivo dichiarato di “stimolare lo sviluppo energetico” e aprire la strada a trivellazioni, miniere, disboscamenti e cementificazioni.
Nell’elenco dei siti sotto osservazione compaiono luoghi dal valore paesaggistico e culturale inestimabile: Baaj Nwaavjo I’tah Kukveni – Impronte Ancestrali del Grand Canyon, Ironwood Forest, Chuckwalla, Organ Mountains – Desert Peaks, Bears Ears e Grand Staircase-Escalante, sparsi tra Arizona, California, Nuovo Messico e Utah. Sono aree protette in virtù dell’Antiquities Act del 1906, una legge promulgata dal presidente Theodore Roosevelt per tutelare i tesori archeologici e naturali degli Stati Uniti. Ed è proprio quella legge che oggi, con perversa ironia, l’Amministrazione cerca di svuotare dall’interno, reinterpretandola come una clausola di servizio per l’industria estrattiva.
Una visione di terra come bottino
Dietro il linguaggio tecnocratico della “valutazione dei confini” e della “ridefinizione dei parametri di performance” si nasconde una chiara operazione di esproprio ecologico. Le mappe geologiche in esame presso il Dipartimento degli Interni non cercano di preservare: cercano giacimenti di gas, petrolio, uranio e minerali strategici. La natura, nella visione trumpiana, è una risorsa da monetizzare, non una realtà da rispettare. E poco importa se i monumenti nazionali sono anche riserve sacre per le comunità indigene, luoghi dove il legame con la terra è spirituale prima che utilitaristico.
La riduzione dei confini di Bears Ears e Grand Staircase-Escalante — già operata da Trump nel suo primo mandato — è stata un precedente pericoloso, che il presidente Biden ha poi provato a sanare. Ma la bozza del piano strategico recentemente trapelata mostra che l’offensiva è tutt’altro che terminata: il documento parla apertamente di “liberare beni federali” per lo sviluppo edilizio e industriale, di ridurre i costi di pascolo per gli allevatori e di aumentare la produzione di combustibili fossili come priorità nazionale fino al 2030.
Un attacco frontale alla biodiversità
Non solo terra: anche le specie viventi che abitano quei territori vengono considerate un ostacolo da rimuovere. L’Amministrazione Trump sta lavorando per ridefinire il concetto di “danno” all’interno dell’Endangered Species Act, escludendo la distruzione dell’habitat naturale tra le attività considerate una minaccia. È un colpo mortale a una delle leggi più importanti per la tutela della fauna americana, approvata nel 1973 proprio per impedire che logiche economiche soppiantassero il diritto all’esistenza di interi ecosistemi.
Secondo Noah Greenwald del Center for Biological Diversity, si tratta di “un passo avanti” rispetto ai tentativi precedenti di deregolamentazione, che “taglia al cuore” la legge. Senza l’habitat, spiegano gli ambientalisti, è impossibile garantire la sopravvivenza di specie come la pantera della Florida, la lince del Canada, il gufo maculato o il gallo della prateria, tutti già messi a dura prova dall’espansione urbana e industriale.
In pratica, l’Amministrazione vuole autorizzare trivellazioni, disboscamenti, cantieri e miniere in zone dove vive ancora una biodiversità fragile, trasformando il “recupero” delle specie in una scusa per rimuovere ogni vincolo. È la negazione stessa del principio di precauzione: invece di proteggere ciò che resta, si legittima la sua distruzione.
L’umiliazione culturale dei popoli nativi
Ma l’attacco non è solo ecologico. È anche simbolico e culturale. In uno dei suoi primi atti al ritorno in carica, Trump ha deciso di revocare il nome Denali alla montagna più alta del Nord America, restituendole il vecchio titolo coloniale di Monte McKinley. Un gesto apparentemente marginale, ma denso di significato: è l’ennesima rimozione della toponomastica indigena, l’ennesimo tentativo di cancellare la memoria dei popoli nativi per sostituirla con la narrazione dei pionieri bianchi, dei presidenti-imprenditori, dei conquistatori della frontiera.
Così come le trivellazioni distruggono i luoghi sacri delle tribù Hopi, Zuni e Navajo, la ridenominazione dei monumenti è un’operazione di dominio simbolico, che trasforma le terre ancestrali in “zone economiche speciali” per multinazionali e lobby minerarie.
Una guerra ideologica, non economica
“Ci sono molti minerali altrove. Questa è una battaglia ideologica”, ha dichiarato Tracy Stone-Manning, ex direttrice del Bureau of Land Management sotto l’amministrazione Biden. Ha ragione. Nessuna crisi energetica impone di devastare monumenti nazionali per estrarre risorse disponibili altrove. È la visione stessa della terra, e del potere politico, a essere in gioco: da un lato chi vede il paesaggio come patrimonio comune e spirituale, dall’altro chi lo considera una proprietà da saccheggiare per generare dividendi e consensi.
E se le comunità indigene e gli ambientalisti protestano, la risposta dell’establishment trumpiano è chiara: i vincoli ambientali danno vantaggio alla Cina. L’argomento è paradossale e pericoloso: in nome della competizione geopolitica, si giustifica la devastazione ecologica interna. Un’autarchia energetica fondata sulla distruzione dei propri stessi territori.
Il rischio di una restaurazione permanente
Il vero pericolo è che questo approccio venga normalizzato. Già oggi, molti repubblicani negli stati occidentali considerano l’Antiquities Act un abuso del potere federale. Doug Burgum, Segretario degli Interni scelto da Trump, ha dichiarato che la legge dovrebbe valere solo per “piccoli siti archeologici, tipo Indiana Jones”. Un’interpretazione riduttiva e faziosa, che ignora come lo stesso Roosevelt la utilizzò per proteggere l’enorme area che oggi conosciamo come Grand Canyon National Park.