La Repubblica Islamica si siede al tavolo delle trattative con il suo acerrimo nemico di sempre: gli Stati Uniti. Teheran sta davvero cambiando la sua linea politica, oppure — come insinuato da alcuni media — sta semplicemente guadagnando tempo per ricostruire le proprie difese, distrutte secondo fonti israeliane durante l’attacco dello scorso ottobre?

Secondo alcuni esperti militari, se davvero gli israeliani avessero distrutto, nel giro di poche ore durante l’attacco del 26 ottobre dello scorso anno, le batterie di difesa S-300 di produzione russa, insieme ai radar e ai centri di comando della difesa aerea di Teheran, la Repubblica Islamica avrebbe bisogno di molto più tempo e risorse economiche per ricostruire il proprio sistema difensivo, considerando la vulnerabilità già insita nelle sue strutture precedenti.

Il voltafaccia di Teheran potrebbe dipendere dalla devastante crisi economica provocata dalle sanzioni imposte per anni; dal rovesciamento del governo Assad in Siria; dal logoramento di Hezbollah e Hamas; non ultimo, dal pericolo che la Troika Europea attivi il meccanismo di “Snapback”, che ristabilirebbe automaticamente le sanzioni ONU.

Nella procedura di attivazione, non è previsto l’uso del diritto di veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ciò impedirebbe a Cina e/o Russia di bloccare la procedura. La scadenza per attivare il meccanismo è fissata all’autunno di quest’anno.

I motivi plausibili che avrebbero potuto convincere il potere della Repubblica Islamica a scegliere la via dei negoziati non mancano. Tuttavia, il cambiamento sembra essere particolarmente più roseo di qualsiasi previsione.

Va sottolineato che gli iraniani sono stati accontentati nel far concentrare i colloqui unicamente sulla questione nucleare, garantendo così a Teheran un ampio margine di manovra. Resta tuttavia difficile credere che la questione della sicurezza israeliana, nei termini espressi da Tel Aviv, non finirà prima o poi al centro dei negoziati.

Se gli americani intendono davvero raggiungere un accordo, oggi la prospettiva appare più sostenibile per Teheran. A differenza dei negoziati passati, il presidente iraniano ha mantenuto un ruolo marginale nelle trattative, dichiarando che ogni decisione è stata presa dalla Guida Suprema, Khamenei.

Questa situazione rappresenta una novità significativa: per la prima volta Khamenei ha assunto direttamente la responsabilità del processo negoziale. Questo approccio potrebbe garantire due vantaggi: in primo luogo, neutralizzerebbe parzialmente l’opposizione dei gruppi politici e militari più intransigenti e sigillerebbe un eventuale accordo senza grosse discussioni.

Una situazione analoga si presenta negli Stati Uniti: se le richieste di Trump venissero soddisfatte, sembrerebbe che egli sia in grado di superare le resistenze del Congresso e di controllare l’influenza della lobby israeliana.

Un’altra situazione favorevole si sta presentando anche in Medio Oriente, in particolare tra i paesi arabi del Golfo Persico. L’Arabia Saudita, alleato chiave degli Stati Uniti – paese in cui la famiglia Trump ha diversi interessi economici – punta sulla de-escalation regionale, riaffermando il suo ruolo di guida nel processo di pacificazione delle tensioni. La visita del Ministro della Difesa saudita, il Principe Khalid bin Salman, in Iran la scorsa settimana ha rappresentato un importante segnale in questa direzione.

Dall’altra parte, la spietatezza del governo israeliano nei confronti dei palestinesi ha superato ogni limite, al punto che nemmeno i ricchi paesi arabi riescono facilmente a trovare simpatia per una potenziale alleanza. Un eventuale conflitto tra Stati Uniti e Iran potrebbe incendiare l’intera area, con esiti imprevedibili — un rischio che gli attuali alleati del Golfo Persico, pur essendo legati a Washington, non sembrano disposti a correre.

Ovviamente rimane l’attivismo dei falchi israeliani e dei suoi sostenitori. L’assalto politico e mediatico delle lobby e dei sostenitori di Israele è già cominciato: la denigrazione di Witkoff, definendolo incompetente, filo-russo e via dicendo, e l’ipotesi che un eventuale accordo sarà simile a quello precedente, da cui Trump si è ritirato, e che quindi sarà un fallimento… Oltre a numerose altre iniziative più ambiziose e fantasiose.

Ma considerando che Trump, durante il suo primo mandato, ha affidato la guida dell’“Accordo del Secolo” a suo genero Jared Kushner, figura nettamente meno qualificata di Witkoff, è difficile credere che queste campagne possano rivelarsi efficaci.

Un’azione militare israeliana, come l’assassinio di figure di primo piano iraniane – ipotizzato recentemente da un noto giornale israeliano – potrebbe trascinare gli Stati Uniti in una spirale da cui i negoziati difficilmente si riprenderebbero.

Tuttavia, con un presidente vendicativo come Trump, molti osservatori dubitano che Netanyahu possa giocare questa carta, almeno per la sua sopravvivenza politica.

Comunque stiano le cose, l’esperienza insegna che in Medio Oriente le situazioni possono cambiare rapidamente e in modo imprevedibile, soprattutto quando le decisioni sono prese da individui convinti della propria onnipotenza e privi di qualsiasi remora morale. Perciò, l’ombra della guerra continua a pendere sul cielo della regione, ancora ben lontano dal tornare sereno.