Dopo quattro giorni di frenesia vissute ai due lati del confine tra le due potenze nucleari dell’Asia Meridionale, India e Pakistan, nella giornata di sabato 10 maggio è stato raggiunto un accordo per un cessate il fuoco. 

La mattina dello stesso giorno, in risposta all’avvio il 7 maggio dell’operazione Sindoor, da parte dell’India, il Pakistan ha dato inizio all’operazione Bunyan-un-Marsoos. Nei giorni precedenti ci sono stati diversi scambi di artiglieria e attacchi con droni da entrambi i lati del fronte, ma l’avvio di una vera e propria operazione militare ha fatto temere, sabato mattina, il rischio di una ulteriore escalation.  

Nel tardo pomeriggio del 10 maggio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dal suo account della sua piattaforma The Truth Social, ha annunciato: “Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli US, sono lieto di annunciare che India e Pakistan hanno concordato un cessate il fuoco completo e immediato”. Nel giro di una manciata di ore è arrivata la conferma da parte del vice Primo Ministro del Paksitan Ishaq Dar, che ha dichiarato che Trump avrebbe avuto un “ruolo vitale”. Il segretario al Ministero degli Affari Esteri (MEA) indiano Vikram Misri, ha invece negato la mediazione di paesi terzi e ha dichiarato che sarebbe stata raggiunta una “intesa”. 

Il Chief Minister del Kashmir, Omar Abdullah, ha dichiarato “Accolgo con tutto il cuore l’annuncio fatto dal portavoce del governo indiano sul ripristino dell’intesa tra India e Pakistan”, ma ha anche aggiunto che l’intesa si sarebbe potuta raggiungere due o tre giorni prima, risparmiando la perdita di preziose vite umane. Diversi abitanti del Kashmir sono stati costretti dagli attacchi dell’esercito pakistano a sfollare e abbandonare le proprie case. Ancora adesso, nonostante il cessate il fuoco, molti non possono tornare a causa del senso di insicurezza sulla tenuta del cessate il fuoco e per le restrizioni dovute al pericolo di ordigni inesplosi. In molti casi perché le case sono andate distrutte. 

Non sono mancati i momenti di panico la sera del sabato, quando diversi droni pakistani hanno superato il confine, violando il cessate il fuoco, e sono stati abbattuti dalle forze indiane, causando la morte di un sergente assistente medico dell’Aeronautica Militare indiana, colpito da una scheggia.  

Entrambi i governi per quattro giorni hanno continuato a reclamare la legittimità e la proporzionalità delle operazioni, hanno dichiarato di avere attaccato solo obiettivi militari ed entrambi hanno denunciato di aver subito perdite civili. Nelle ore successive alla cessazione delle ostilità non si sono risparmiati in elogi per le proprie forze armate: entrambi hanno potuto dichiarare vittoria. 

Quella a cui si è assistito è stata anche una guerra di propaganda, fatta di continue smentite, accuse di diffusione di false notizie reciproche tra i due governi e numeri poco chiari riguardo alle vittime, sia civili che militari.  

Accendendo un qualunque canale televisivo di informazione indiano, si respira ancora adesso un’aria ansiogena: il linguaggio aggressivo è normalizzato dai giornalisti in studio, il simbolismo della guerra è usato ad arte per glorificare il patriottismo e la demonizzazione del “nemico”. In una stessa schermata del telegiornale, con un sottofondo di musiche ed effetti sonori disturbanti, si possono trovare nove box con quattro giornalisti in studio o inviati, titoli sensazionalistici che riportano breaking news a cascata, aerei da guerra ed elicotteri ricostruiti al computer che attraversano lo schermo di continuo. Diverse fake news hanno dovuto essere smentite dai canali ufficiali dell’esercito. 

Lo spazio per il dialogo e soprattutto per le domande è stato annichilito: in primis sui fallimenti delle misure di sicurezza a Palgaham il 22 aprile, un’area altamente turistica nel cuore di uno dei territori più militarizzati del mondo. 

Nella giornata del 9 maggio il sito indipendente The Wire ha denunciato sui propri social l’oscuramente del proprio sito da parte del governo, in seguito alla pubblicazione di un articolo sull’abbattimento di alcuni aerei dell’aviazione militare indiana da parte dell’esercito pakistano. Il sito è stato reso nuovamente pubblico dopo che il contenuto è stato sostituito da una nota che spiega il motivo per cui la notizia non sia più leggibile. 

Nella giornata dell’8 maggio, inoltre, riporta la testata The Hindu, il responsabile degli Affari Governativi Globali della piattaforma X ha annunciato di avere ricevuto un ordine esecutivo di bloccare oltre 8.000 account, nella maggior parte pakistani, ma in alcuni casi indiani, tra cui quello di Maktoob News con sede a Nuova Delhi, del canale The Kashmiriyat e di Free Press Kashmir. 

L’aria di violenza che si respira, non ha risparmiato nemmeno gli esponenti del governo: nella giornata di domenica, in seguito all’annuncio del cessate il fuoco, il segretario del MEA Vikram Misri avrebbe bloccato il suo account sulla piattaforma X, in seguito a un’ondata di attacchi personali in cui sarebbe stato anche etichettato come traditore. 

Entrambi i paesi si classificano tra gli ultimi posti per la libertà di stampa, secondo l’organizzazione Reporter Senza Frontiere: l’India al 151º e il Pakistan al 158º.  

Mentre una tregua sembra essere raggiunta, rimangono aperte una serie di domande che non sappiamo se verranno poste e se riceveranno una risposta adeguata: tra cui il perché l’India non abbia accettato la proposta del Pakistan di effettuare un’indagine indipendente e mediata a livello internazionale sulle responsabilità dell’attentato. L’impressione è che Modi abbia voluto mostrare i muscoli a discapito delle vite di troppi indiani e pakistani, inclusi gli abitanti del Kashmir, un territorio martoriato da anni di terrorismo, tra i più militarizzati del mondo, in cui fa uso disinvolto della Legge sulla Prevenzione delle Attività Illecite e della detenzione per atti considerati “anti-indiani”, incluso il tifo per la squadra sbagliata in una partita di cricket. Pagine Esteri