Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), impegnato da oltre quattro decenni in un conflitto con la Turchia in cui sono rimaste uccise circa 40mila persone, in maggioranza curde, sotto i bombardamenti turchi, ha deciso di sciogliersi e porre fine alla lotta armata. La decisione, presa durante un congresso la scorsa settimana, potrebbe contribuire ad allentare le tensioni anche nei vicini Iraq e Siria, dove sono presenti larghe minoranze curde.
Nella sua dichiarazione, il PKK ha affermato di “aver completato la sua missione storica”, che nel corso degli anni si è spostata verso la ricerca di maggiori diritti per i curdi e dell’autonomia nel sud-est della Turchia, piuttosto che verso uno Stato indipendente. “La lotta del PKK ha spezzato la politica di negazione e annientamento del nostro popolo e ha portato la questione curda a un punto in cui è possibile risolverla attraverso la politica democratica”, si legge sul sito d’informazione Firat.
Negli ultimi anni, la Turchia ha colpito i combattenti e le basi del PKK con attacchi tramite droni e altri mezzi militari nel profondo dell’Iraq, mettendo sotto una forte pressione i combattenti curdi che nel periodo 2015-2017 aveva compiuto una serie di attacchi ad Ankara, Istanbul e in altre città turche.

Il leader del PKK Abdullah Ocalan saluta i militanti del partito
Un funzionario del PKK, parlando alle agenzie di stampa, ha confermato la decisione e ha affermato che tutte le operazioni militari sarebbero cessate “immediatamente”, aggiungendo che la consegna delle armi sarebbe stata subordinata alla risposta di Ankara e al suo approccio nei confronti dei diritti curdi, nonché al destino dei combattenti curdi. Si è riferito in particolare alla condizione del leader del PKK, Abdullah Ocalan, in carcere dal 1999. Nei mesi scorsi, Ocalan, dalla prigione dove sconta una condanna all’ergastolo, aveva lanciato la proposta di mettere fine alla guerra e di ricercare una soluzione politica con le autorità turche.
I curdi costituiscono circa il 20% degli 86 milioni di abitanti della Turchia.
Tuttavia, una soluzione negoziata della lunga guerra e la realizzazione dei diritti dei curdi appaiono ancora lontane, sebbene Ankara abbia accolto con cauto favore la decisione del PKK. Il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, ha affermato che il passo compiuto dai curdi è di “importanza storica” e potrebbe portare “pace e stabilità durature” per tutti i popoli della regione.
Allo stesso tempo, il presidente turco Erdogan cerca di trarre vantaggio dal momento e da quella che considera la “vulnerabilità” delle forze curde affiliate al PKK in Siria, dopo la caduta dell’ex presidente Bashar al-Assad per mano dei gruppi jihadisti e islamisti sostenuti proprio dalla Turchia. Gli analisti affermano che Erdogan si sta concentrando sui dividendi politici interni che la pace potrebbe portare. La decisione del PKK giunge peraltro in una fase di tumulto nella politica turca: il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, principale rivale di Erdogan, è stato incarcerato a marzo con l’accusa di corruzione. Uno sviluppo che ha scatenato le più grandi proteste nel Paese in un decennio.
Non è chiaro se il passo del PKK avrà ripercussioni anche sulla milizia curda YPG in Siria (alleata degli Stati Uniti), che nelle settimane passate ha chiarito che l’appello di Ocalan per la fine della lotta armata non si applica nel suo caso. I curdi in Siria sono impegnati in una difficile trattativa con il nuovo regime islamista, che ha preso il posto di quello di Bashar al-Assad, per confermare la loro amministrazione autonoma nella regione del Rojava.
La fine dell’insurrezione del PKK potrebbe eliminare un punto critico costante nel nord dell’Iraq, controllato dai curdi locali e ricco di petrolio.
In Turchia, il partito filo-curdo moderato DEM si dice fiducioso. Tayip Temel, vicepresidente del partito, ha dichiarato all’agenzia Reuters che la decisione del PKK è significativa per il popolo curdo e per il Medio Oriente nel suo complesso. “Ciò richiederà anche un profondo cambiamento nella mentalità ufficiale dello Stato turco”, ha affermato.
La notizia è stata accolta con favore da alcuni nella città più grande del sud-est, Diyarbakir, dove regna la sfiducia di molti curdi nei confronti del governo centrale.