Dopo 77 anni dalla Nakba palestinese, la “catastrofe” che ha causato l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, la minaccia della pulizia etnica è ancora reale, anzi proclamata con forza da Israele e dal governo degli Stati Uniti. La maggior parte dei 2 milioni della popolazione palestinese della Striscia di Gaza è attualmente sfollata e vive nelle tende o nei rifugi di fortuna, affamata, sono assediata, e colpita dal blocco totale di cibo, medicine, beni.
In occasione del settantasettesimo anniversario della Nakba, proponiamo un resoconto storico di alcuni degli eventi svoltisi nel 1948.
LA RISOLUZIONE ONU
Prima della ripartizione proposta dall’ONU, gli arabi di Palestina rappresentavano ancora i due terzi della popolazione e, nel 1945, erano la maggioranza in quasi tutte le zone abitative (Fig.1). Nel 1947 solo il 5,8% della terra coltivata in Palestina era proprietà degli ebrei[1]: i vertici sionisti avevano tentato di spingere gli immigrati ebrei ad abitare nelle campagne, ma la maggior parte di loro continuava a preferire i centri urbani.
Nel Febbraio del 1947 la Gran Bretagna mandataria decise di abbandonare la Palestina e di affidarla all’ONU, che nominò il Comitato Speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (UNSCOP).
Le azioni violente da parte ebraica erano divenute sempre più cruente: a luglio di quell’anno l’IZL sequestrò due sergenti britannici che furono impiccati e i loro corpi, imbottiti di esplosivo, ferirono i militari che erano andati a recuperare i feretri per la sepoltura.
L’UNSCOP passò cinque settimane in Palestina, ascoltando funzionari ebrei e britannici. La Lega Araba aveva deciso di non partecipare alle discussioni e lo spazio vuoto fu riempito principalmente dalla leadership sionista che parlò a nome degli arabi in base agli studi che aveva portato avanti negli anni precedenti.
(Fig.1) Population Distribution: Jews and Palestinians[2]
Le conclusioni della Commissione si tradussero, il 29 Novembre 1947, nella Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale, che attribuiva agli ebrei il 56% della Palestina, e il resto, con l’esclusione di Gerusalemme che sarebbe divenuta città internazionale, agli arabi[3]. La spartizione non tenne assolutamente conto della formazione etnica della Palestina e concesse agli ebrei le terre più fertili, che includevano 400 degli oltre 1000 villaggi palestinesi e l’unico grande porto, quello di Haifa.
Più precisamente la Palestina veniva divisa in tre parti: il 42% del territorio veniva assegnato a 818.000 palestinesi per uno Stato che avrebbe incluso 10.000 ebrei, mentre lo Stato ebraico si sarebbe esteso su circa il 56% del territorio, nel quale 499.000 ebrei avrebbero dovuto convivere con 438.000 palestinesi. La terza parte era costituita da una piccola enclave attorno a Gerusalemme, governata internazionalmente, con una popolazione di 200.000 abitanti, equamente divisa tra palestinesi ed ebrei (Fig.2)[4].
La Lega araba e ciò che restava della leadership palestinese reagirono duramente, mentre gli ebrei già festeggiavano la prossima fondazione del loro Stato.
(Fig.2) UN Partition Palestine[5]
Diversi esponenti palestinesi chiesero allora che la legittimità della Risoluzione venisse sottoposta al giudizio della Corte internazionale di giustizia, in quanto imposizione contro la volontà della maggioranza della popolazione, ma le richieste caddero nel vuoto.
Se la Carta fosse stata realmente applicata, senza modificare in alcun modo la composizione etnica dei due Stati, gli ebrei si sarebbero trovati a governare uno stato in cui metà della popolazione era araba e garantire la sicurezza in quelle condizioni sarebbe stato estremamente difficile, se non impossibile. Questo era chiaro alla leadership sionista: anni dopo Simcha Flapam, ebreo israeliano, avrebbe scritto che se gli arabi o i palestinesi avessero accettato la Risoluzione, la leadership ebrea l’avrebbe indubbiamente rifiutata[6].
E infatti Ben-Gurion dichiarò che i confini del suo Stato, dato il rifiuto della parte palestinese ed araba, «saranno decisi con la forza e non con la Risoluzione di spartizione», e ancora «non esistono confini territoriali per il futuro Stato ebraico»[7].
Tali dichiarazioni assumono un’importanza particolare dal momento in cui le forze militari sioniste cominciano ad attaccare i villaggi arabi, a cacciare la popolazione residente e a spianare tutto ciò che fino a quel momento vi era stato costruito, impedendo in tal modo il ritorno dei profughi nelle proprie case.
I PREPARATIVI EBRAICI ALLA FINE DEL MANDATO
Già alla fine del 1946, in previsione del ritiro britannico, Ben-Gurion e i suoi collaboratori iniziarono a lavorare ad una strategia generale da utilizzare per difendere gli insediamenti ebraici e, all’occasione, attaccare quelli arabi. Così nacque il Piano C, versione riveduta dei piani A e B. Il Piano C mirava a dissuadere la popolazione palestinese dall’attaccare gli insediamenti ebraici e dal mettere in atto rappresaglie per gli assalti alle case, alle strade e alle attività ebraiche: «Uccidere la dirigenza politica palestinese. Uccidere gli istigatori palestinesi e i loro finanziatori. Uccidere i palestinesi che agivano contro gli ebrei. Uccidere gli ufficiali e i funzionari palestinesi. Danneggiare i trasporti palestinesi. Danneggiare le fonti di sussistenza palestinesi: pozzi d’acqua, mulini ecc. Attaccare i villaggi palestinesi vicini che avrebbero potuto partecipare ad attacchi futuri. Attaccare i club, i caffè, i ritrovi palestinesi ecc.», aggiungendo che tutti i dati per la realizzazione di tali azioni potevano essere trovati nei documenti di schedatura dei villaggi[8].
Tuttavia, nel giro di pochi mesi fu realizzato un quarto piano, il Piano D (o Dalet), che venne utilizzato nelle azioni successive all’adozione della Risoluzione 181[9].
Il primo punto dell’introduzione del Piano recita: «L’obiettivo di questo piano è quello di ottenere il controllo delle zone dello stato ebraico e difendere i suoi confini. Essa mira inoltre a ottenere il controllo delle aree di insediamento ebraico e di concentrazione che si trovano al di fuori dei confini contro i regolari, semi-regolari, e piccole forze che operano da basi al di fuori o all’interno dello stato»[10]; queste operazioni potevano effettuarsi nei seguenti modi: «distruggendo i villaggi (dandogli fuoco, facendoli saltare in aria e minandone le macerie) e specialmente quei centri popolati difficili da controllare con continuità; oppure attraverso operazioni di rastrellamento e di controllo, con le seguenti linee guida: circondare i villaggi e fare retate all’interno. In caso di resistenza si devono eliminare le forze armate e la popolazione deve essere espulsa fuori dai confini dello Stato»[11].
Il piano Dalet venne adottato il 10 Marzo 1948: fino a quel momento, dall’inizio delle proteste arabe del Dicembre 1947, le truppe ebraiche avevano tenuto una strategia difensiva. Le prime rappresaglie “difensive” furono di risposta agli attacchi palestinesi, che colpirono autobus e centri commerciali, distruggendo alcuni negozi durante le manifestazioni contro la Risoluzione dell’ONU.
Ma già nel gennaio 1948 la semplice difesa era stata sostituita dalla cosiddetta “difesa attiva”: le rappresaglie ebraiche non rappresentarono più una semplice risposta alle azioni arabe, ma le superarono di gran lunga in gravità e aggressività. Inoltre, tale strategia tendeva ad estendere il conflitto ad aree i cui abitanti, fino a quel momento, erano rimasti del tutto pacifici[12]. La regia di questo tipo di attacchi era dell’Irgun o dell’LHI, ma anche l’Haganah aveva un suo ruolo nelle operazioni che, di lì a poco, sarebbe divenuto sempre più rilevante.
Il 18 Dicembre 1947 i soldati ebrei attaccarono il villaggio di Khisas, uccidendo 15 persone, di cui 5 bambini. L’evento scosse il corrispondente del New York Times presente in Palestina, che chiese spiegazioni a Ben-Gurion il quale, dopo aver negato l’operazione, rilasciò pubbliche scuse dichiarando che l’attacco non era stato autorizzato, ma alcuni mesi dopo lo incluse in una lista di operazioni riuscite[13].
Già in questa prima fase e successivamente, dopo il massacro di Deir Yassin, il panico si diffuse tra la popolazione araba e molti rappresentanti dell’élite palestinese si spostarono nelle proprie residenze di vacanza in Siria o in altri paesi arabi, come avevano fatto durante la rivolta del 1937-38, per poi fare ritorno in Palestina quando le acque si sarebbero calmate. Non potevano sapere, allora, che le proprie abitazioni sarebbero state distrutte o occupate dalle famiglie ebraiche e che il Diritto al Ritorno, sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo adottata il 10 Dicembre 1948 (Art. 13 «Everyone has the right to leave any country, including his own, and to return to his country»[14]), per Israele sarebbe stato carta straccia.
LA DIFESA AGGRESSIVA
Alla fine di Marzo 1947 la politica militare ebraica cambiò nuovamente, divenendo ancora più dura. Questa modifica di indirizzo fu causata, probabilmente, anche dal mutamento della situazione internazionale: si stavano manifestando ripensamenti sulla Risoluzione 181 e il 19 Marzo l’ONU presentò una mozione per rinviare la spartizione e istituire un’amministrazione fiduciaria internazionale.
Allora Ben-Gurion capì che era necessario dare un’accelerata ai suoi progetti, si convinse che la conquista di Gerusalemme aveva la priorità assoluta sulle altre e lanciò l’operazione Nahshon: una brigata di 1.500 effettivi sarebbe dovuta entrare a Gerusalemme, neutralizzando i principali villaggi arabi che avrebbe trovato sul suo cammino[15].L’episodio più importante dell’operazione fu l’occupazione del villaggio di Deir Yassin, durante la quale furono massacrati gran parte dei suoi abitanti. Il comandante del Servizio di Informazione di Gerusalemme (lo Shai, che era stato creato dall’Organizzazione Sionista e dall’Haganah nel 1940-41), Yitzhak Levy, in due rapporti, uno del 12 e l’altro del 13 Aprile, scriveva «La conquista del villaggio è stata compiuta con estrema spietatezza. Intere famiglie – donne, vecchi, bambini – annientate e pile di cadaveri. Alcuni prigionieri, compresi donne e bambini, trasferiti in luoghi di detenzione e lì brutalmente eliminati dai loro sequestratori»;[16]
Mordechai Gichon, agente dello Shai, qualche ora dopo l’attacco, riferì il 10 Aprile:
«Il loro comandante sostiene che l’ordine era: catturare i maschi adulti e inviare donne e bambini a Motza. Il pomeriggio l’ordine era diventato quello di eliminare tutti i prigionieri…i maschi adulti sono stati portati in città su alcuni camion, fatti sfilare per le strade, riportati al punto di partenza e falciati con mitragliatrici e fucili mitragliatori. Prima di caricarli sui camion gli uomini dell’IZL e dell’LHI hanno frugato donne, uomini e bambini e preso denaro e gioielli. Il trattamento riservato a costoro è stato particolarmente barbaro, calci, pressioni con le canne dei fucili, sputi e insulti (alcuni abitanti di Giv’at Shaul [un quartiere ebraico di Gerusalemme Ovest] hanno partecipato alle sevizie»[17].
Nei giorni successivi varie persone estranee agli eventi (medici ebrei, una rappresentanza della Croce Rossa, ufficiali dell’Haganah che non avevano preso parte all’attacco), visitarono ciò che rimaneva di Deir Yassin e nel 1948 molti osservatori, giornalisti, soldati, concordarono sul fatto che il numero dei morti non fosse stato inferiore a 254[18].
L’agenzia ebraica e il vertice dell’Haganah condannarono subito il massacro. L’Haganah in particolare fece di tutto per negare il proprio coinvolgimento nelle azioni, ma l’accusa sarebbe stata destinata ad inseguire i vertici dell’Agenzia militare anche nella propria scalata politica nel futuro Stato d’Israele[19].
La reazione araba si concentrò su un convoglio ebraico di 10 veicoli, che fu dato alle fiamme, causando l’uccisione di 70 ebrei. Conseguenza del massacro di Deir Yassin fu la paura. La notizia giunse velocemente in ogni villaggio e i vertici militari ebraici la utilizzarono per far abbandonare le proprie case ai palestinesi, avvisandoli con volantini e megafoni che li avrebbe attesi la stessa sorte.
4.2.2 I PROFUGHI PALESTINESI
Fu poi il turno di Haifa, che fu posta sotto assedio. Tentativi arabi di ottenere una tregua furono vani e, dopo più di una settimana di bombardamenti e di spari continui da parte dei cecchini, i leader arabi annunciarono che avrebbero voluto evacuare la città, spostando tutti i civili. Su 70.000 palestinesi, ne rimasero tra i 2.000 e i 4.000, nonostante il sindaco ebreo di Haifa utilizzasse gli altoparlanti per chiedere alla popolazione araba di non andare via, promettendo invano che gli ebrei non gli avrebbero fatto del male[20]. La maggior parte dei palestinesi che lasciavano i villaggi venivano espulsi, altri arrestati. Insediamenti che per anni erano stati abitati dalla comunità palestinese, nei quali coltivava, costruiva scuole, seppelliva i suoi morti, sono stati completamente distrutti e ricostruiti da capo per dare spazio alle abitazioni ebraiche. Oggi quei villaggi non conservano neanche più i propri nomi.
Haifa era l’ultima città del cammino della ritirata britannica, per cui durante i giorni dell’attacco ebraico era piena di militari inglesi, i quali però non fecero nulla per impedire la cacciata degli arabi e né limitarne il numero dei morti. Anzi, proprio quando la loro presenza costituiva l’unico cuscinetto tra gli abitanti di Haifa e le truppe ebraiche, che già attaccavano i civili lanciando bombe e sistemavano i propri cecchini, improvvisamente le truppe britanniche ebbero l’ordine di ritirarsi e lasciarono gli abitanti in balia dei militari ebrei. Questi ultimi utilizzarono ad Haifa una tecnica che era già stata sperimentata durante l’occupazione di altri villaggi: salivano sulla montagna che sovrastava l’insediamento e facevano rotolare giù barili pieni di olio e carburante dati alle fiamme, o imbottiti di esplosivo. Quando gli arabi spaventati uscivano dalle loro abitazioni, i cecchini li colpivano[21].
Stockwell, il comandante inglese, era a corrente che a breve gli ebrei avrebbero occupato Haifa e cacciato la popolazione araba, così il giorno prima dell’attacco comunicò alla leadership palestinese della città che gli inglesi non li avrebbero protetti, consigliando di dire alla propria gente di lasciare la città, le case e tutto ciò che avevano. Come molti politici inglesi avrebbero ammesso in seguito, la condotta delle truppe britanniche in quegli anni rappresenta uno dei capitoli più vergognosi della storia dell’Impero in Medio Oriente[22].
Gerusalemme fu occupata, Giaffa fu “ripulita”, decine di migliaia di palestinesi furono espulsi o costretti a fuggire, a centinaia furono uccisi.
Tra il 30 Marzo e il 15 Maggio 200 villaggi furono cancellati, altri 90 tra il 15 Maggio e l’11 Giugno[23].
Il 13 Maggio era il giorno designato per la fine del Mandato britannico e il ritiro completo delle truppe inglesi. Il 14 Maggio 1948 Ben-Gurion dichiarò la nascita dello Stato d’Israele, per sempre ricordata e celebrata dai palestinesi come la Nakba (la Catastrofe).
Al momento della proclamazione i confini dello Stato d’Israele si erano già pesantemente modificati (Fig.3) e la divisione riportata nella Risoluzione 181 era già divenuta carta straccia: secondo il documento le Nazioni Unite dovevano essere presenti in Palestina per garantire la spartizione, la nascita dei due stati e per fare in modo che nessuno dei due s’impossessasse delle terre dell’altro. Ma la Gran Bretagna permetteva un accesso limitato in Palestina ai rappresentanti dell’ONU i quali, tuttavia, non opposero grandi proteste.
La guerra del 1948, insieme alla fondazione dello Stato d’Israele, causò circa 700.000 profughi palestinesi (900.000-1.000.000 secondo gli arabi), che si stabilirono principalmente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il nuovo Stato ebraico possedeva confini che non avevano alcuna struttura topografica naturale e che spesso separavano bruscamente gli arabi dalle zone di origine e dai familiari. Alcuni villaggi erano divisi in due dai confini: una parte si trovava in Israele, l’altra in Cisgiordania.
(Fig.3) La griglia mostra le occupazioni ebraiche al di fuori dei confini dettati dall’ONU[24]
Alla fine della guerra, con l’armistizio del 1949, la terra in possesso d’Israele comprendeva il 78% di tutta la Palestina mandataria, il 50% in più di quanto era stato concesso dalla Risoluzione 181.
La Striscia di Gaza e la Cisgiordania (la West Bank) furono occupate rispettivamente da Egitto e Giordania. Dei 700.000 profughi palestinesi circa la metà era in Giordania, 200.000 affollavano la striscia di Gaza, 100.000 erano in Libano e più di 60.000 in Siria. Almeno la metà di loro si trovava nei campi profughi, in condizioni al limite della sopravvivenza[25].
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[1] Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma, 2008, p. 46
[2] Walid Khalidi, A photographic history of Palestinians, 1876-1948, Beirut, 1878, p. 239
[3] The Churchill White Paper, United Nations Information System, http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/F2CA0EE62B5680ED852570C000591BEB
[4] Riunioni plenarie dell’Assemblea Generale, 126^ riunione, 28 Novembre 1947, UN Official Record, vol. 2, pp. 1390-1400
[5] Cfr., Khalidi, A photographic history, cit. 1947, p. 307
[6] Simcha Flapan, The Birth of Israel, Myths and Realities, Pantheon Books, New York, 1987 pp. 13-54
[7] The Ben-Gurion Research Institution Library, Ben-Gurion Diaries, 7 ottobre 1947
[8] Yehuda Sluzki, The Haganah Book, IDF Publications, Tel Aviv, 1964, vol. 3, parte 3, p. 1942
[9] Cfr., Morris, Vittime, cit., pp. 262, 270, 319-327
[10] Mid East Web Historical Documents, Plan D, March, 10 1948, la traduzione dall’ebraico è tratta dall’opera di Sefer Toldot History of the Haganah, vol. 3, ed. by Yehuda Slutsky, Zionist Library, TelAviv, 1972, Appendix 48, pp. 1955-60.
[11] ibidem
[12] Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001. Rizzoli, 2001, p. 251
[13] The New York Times, 22 Dicembre 1947. Il rapporto è presente negli Archivi dell’Haganah, n.15/80/731
[14] The Universal Declaration of Human Rights, United Nations, http://www.un.org/en/documents/udhr/
[15] Uri Milstein, La storia dei Reparti di Paracadutisti, Shalgi, Tel Aviv, 1989-1991, vol. 4, pp. 165-181
[16] Yitzhak Levy (Yavne), a “Tene (Dalet)” (Shai area sud), L’iniziativa di IZL e LHI a Deir Yassin, 12 Aprile 1948, The Israel Defence Forces (IDF) and Defence Establishment Archives, 5254\49\\372, Tel Aviv
[17] Mordechai Gichon (Eliezer), Rapporto sulla conquista di Deir Yassin, 10 Aprile 1948, IDFA, cit., 500\48\\29
[18] Cfr., Milstein, La storia dei Reparti, cit., vol. 4, p. 274
[19] Cfr., Morris, Vittime, cit., p. 266
[20] Cfr., Morris, Vittime, cit., p. 269
[21] Cfr. Pappe, La pulizia etnica, cit., pp. 120-121
[22] Williams Rees, La dichiarazione del sottosegretario di Stato al Parlamento, Hansard, House of Commons Debates, 24 Febbraio 1950, vol. 461, p. 2050,
[23] Cfr. Pappe, La pulizia etnica, cit., p. 133
[24] Cfr., Khalidi, A photographic history, cit. 1948, p. 311
[25] Ivi, p. 329