Port Sudan è sotto le bombe. Per sei giorni consecutivi, droni di precisione hanno colpito la città portuale divenuta il quartier generale del governo sudanese durante la guerra civile che infuria dal 2023. Ma questa volta l’aggressore non è un gruppo ribelle o una fazione interna: secondo Khartoum, i responsabili sono gli Emirati Arabi Uniti, accusati di aver lanciato l’attacco da una base situata strategicamente tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden.

Tutto ciò accade mentre il colera miete vittime tra la popolazione vittima della guerra, 172 morti negli ultimi giorni.

Quella che fino a poche settimane fa sembrava una guerra interna, seppur devastante, si è così trasformata apertamente in un conflitto regionalizzato. Il 6 maggio, il Sudan ha rotto ufficialmente le relazioni diplomatiche con Abu Dhabi, definendola uno “Stato aggressore”. Pochi giorni prima, il 5 maggio, la Corte Internazionale di Giustizia aveva respinto una denuncia sudanese contro gli Emirati per violazione della Convenzione sul Genocidio, dichiarandosi incompetente per via di una riserva formale presentata dagli stessi Emirati al momento della firma del trattato. Una decisione puramente procedurale, ma che Abu Dhabi ha subito interpretato come un’assoluzione.

Le accuse sudanesi, tuttavia, non si sono limitate alla scena giudiziaria. Di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’ambasciatore Al-Harith Idris ha ribadito con forza la responsabilità emiratina negli attacchi a Port Sudan, indicandoli come rappresaglia per l’abbattimento, da parte delle Forze Armate Sudanesi (SAF), di un cargo aereo che trasportava armi destinate alle Forze di Supporto Rapido (RSF). L’incidente avrebbe provocato la morte di ufficiali emiratini, oltre che di cittadini sud sudanesi e kenioti, secondo fonti giornalistiche regionali.

Nel frattempo, da Washington, la retorica ufficiale prende una direzione inattesa. In un’audizione al Senato, il Segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato che gli Emirati stanno “trasformando la guerra civile sudanese in una guerra per procura”, destabilizzando l’intera regione. Un’affermazione forte che stride con il recente tour del presidente Donald Trump nel Golfo Persico, dove gli accordi economici tra Stati Uniti ed Emirati sono stati celebrati come un trionfo della diplomazia commerciale: oltre 200 miliardi di dollari in intese annunciate, con promesse emiratine di investimenti per 1,4 trilioni di dollari nell’economia americana nei prossimi dieci anni.

Ma non è solo la posizione emiratina a finire sotto scrutinio. Proprio mentre si accusano gli Emirati di fomentare il conflitto, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alle SAF per presunto uso di armi chimiche. Una denuncia senza precedenti che ha provocato l’immediata reazione del Ministero degli Esteri sudanese, il quale ha definito le accuse “infondate” e ha criticato la Casa Bianca per aver ignorato i canali internazionali preposti, come l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC), di cui il Sudan è membro attivo del consiglio esecutivo.

Anche in questo caso, la fonte primaria dell’accusa è incerta. Un articolo del New York Times pubblicato a gennaio citava fonti anonime dell’intelligence statunitense, ma sottolineava che “le informazioni non provenivano dagli Emirati Arabi Uniti”. Un disclaimer curioso, che sembra più un tentativo di proteggere un alleato strategico che di chiarire la verità.

Nel cuore del conflitto, la contrapposizione tra SAF e RSF si inasprisce ogni giorno. Le Forze Armate Sudanesi, guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, stanno sfruttando la crescente ostilità popolare verso le RSF per rafforzare il loro consenso. Hanno incorniciato la guerra come una lotta esistenziale per la “dignità” e la sovranità del Paese, impedendo qualsiasi apertura negoziale. Le RSF, accusate di genocidio e pulizia etnica già nel 2023 dall’amministrazione Biden, stanno invece tentando di costruire un governo parallelo, dipingendo l’esercito come illegittimo e controllato dagli islamisti.

L’escalation si muove su molteplici piani: militare, diplomatico, economico. Gli Emirati forniscono – secondo le accuse – droni e armi alle RSF attraverso rotte che coinvolgerebbero il Ciad e il Sud Sudan. Due Paesi ora minacciati da Khartoum, che li accusa di complicità e ha lasciato intendere possibili ritorsioni. Un’escalation che potrebbe estendere il conflitto oltre i confini sudanesi, trasformando il Corno d’Africa in un nuovo teatro di guerra regionale.

Tuttavia, un confronto militare diretto tra Sudan ed Emirati rimane altamente improbabile. Le SAF non dispongono delle capacità per colpire un Paese lontano e meglio armato. Per ora, la battaglia si sposterà nelle aule delle organizzazioni internazionali: dalle Nazioni Unite alla Corte Penale Internazionale, passando per le sedi della diplomazia multilaterale, dove il Sudan proverà a incrinare l’impermeabile influenza geopolitica di Abu Dhabi.

Eppure, mentre il tempo passa e le bombe continuano a cadere su Port Sudan, il rischio di un incidente che faccia precipitare la situazione è concreto.