Pagine Esteri – La primavera del 2025 doveva segnare – almeno a dar retta alle sparate di Donald Trump e alle aspettative generate dalla ripresa di trattative dirette tra Mosca e Kiev – l’avvio di un compromesso tra Russia e Ucraina e invece stiamo assistendo ad una evidente recrudescenza del conflitto, con il conseguente aumento del numero di vittime militari ma anche civili.

L’altro ieri notte le forze armate russe hanno effettuato uno dei più massicci attacchi contro le città ucraine dall’inizio dell’invasione, colpendo le regioni di Volyn, Leopoli, Ternopil, Kiev, Sumy, Poltava, Khmelnytsky, Cherkasy e Chernihiv e uccidendo 4 persone. Poi stanotte di nuovo intensi bombardamenti hanno ucciso cinque persone nelle città di Kherson e Kharkiv.  Contemporaneamente, bombardamenti ucraini nella regione russa di Kursk hanno provocato due vittime.

Non è chiaro se la massiccia ondata di bombardamenti con missili e droni sia da considerare la risposta russa al duplice colpo inferto nei giorni scorsi dall’intelligence ucraina – sicuramente supportata dai servizi occidentali, probabilmente britannici – all’interno del territorio russo.

Con la distruzione di alcuni bombardieri strategici in grado di trasportare testate atomiche che fanno parte del sistema di deterrenza nucleare di Mosca, il sabotaggio del ponte di Crimea (già colpito nel 2022 e nel 2023) e la distruzione di due ponti ferroviari nel Briansk e nel Kursk, che hanno causato il deragliamento di alcuni treni e alcune decine tra morti e feriti, Zelensky ha voluto dimostrare di essere ancora in grado di vendere cara la pelle, proprio alla vigilia del quasi inutile incontro bilaterale di Istanbul.

Non è chiaro se la dirigenza ucraina stia deliberatamente boicottando un eventuale accordo – dal quale ha tutto da perdere, vista la situazione sul campo – o se al contrario, proprio in previsione del fatto che presto o tardi si dovrà arrivare ad un compromesso, Kiev ci voglia arrivare a testa alta.

Sul fronte opposto è invece abbastanza evidente che la dirigenza russa non ha alcuna fretta di arrivare ad uno stop dei combattimenti, perché seppur lentamente le sue truppe continuano ad avanzare, soprattutto nell’oblast di Sumy, dove nelle ultime settimane Mosca ha conquistato vari villaggi avvicinandosi pericolosamente al capoluogo regionale.

Per quanto la guerra pesi sull’economia russa – comunque meno di quanto la maggior parte degli osservatori occidentali continuino ad affermare – l’esercito di Mosca continua ad avere dalla sua una superiorità numerica indiscutibile sulle forze armate di Kiev, sempre più sfiancate e demotivate dall’andamento del conflitto e dalla perdita del sostegno statunitense.

Ad Istanbul i negoziatori russi si sono presentati con un pacchetto massimalista, che – anche volendo – Kiev potrebbe accettare solo se fosse alla vigilia del collasso, per ora rimandato grazie soprattutto al sostegno europeo. Il piano presentato da Mosca prevede il ritiro completo delle forze ucraine da tutte e quattro le regioni parzialmente occupate dai russi – Donetsk, Lugansk, Zaporizhzia e Kherson – con il riconoscimento legale da parte di Kiev dell’annessione alla Federazione; l’interruzione delle forniture di armi e del sostegno delle agenzie di intelligence al paese invaso; il disarmo e la smobilitazione delle forze armate, che dovrebbero attestarsi intorno ad un massimo di 100 mila effettivi; la rinuncia a sviluppare un programma nucleare militare e ad ospitare armi atomiche di paesi terzi; la neutralità dell’Ucraina con la rinuncia definitiva all’ingresso del paese nell’Alleanza Atlantica.


Mosca ha inoltre nuovamente rifiutato il piano proposto dalla controparte per un cessate il fuoco preliminare di almeno trenta giorni, limitandosi ad offrire una breve tregua “tecnica” di due, massimo tre giorni.

Scopertosi impotente il presidente americano – che evidentemente pensava di governare il pianeta come un imprenditore decisionista governa la propria azienda – ha da qualche settimana cominciato a lanciare segnali di apparente disinteresse per la questione. L’ultima giravolta, l’altro ieri, quando ha comparato i due paesi in guerra a due bambini, commentando: «A volte è meglio lasciarli litigare per un po’ di tempo prima di separarli», tornando comunque a minacciare di nuovo la Russia di sanzioni durissime – che il presidente ucraino continua ad implorare – nel caso in cui non sblocchi le finora infruttuose trattative.

Intanto però il flusso di aiuti militari da Washington si è quasi del tutto interrotto, e i comandi dell’esercito ucraino devono affrontare un numero sempre maggiore di episodi, anche violenti, di rivolta contro l’arruolamento coatto dei cittadini arruolabili, realizzato spesso in maniera molto aggressiva da parte dei reclutatori ucraini con rapimenti nelle strade e irruzioni nelle abitazioni.

In attesa di capire se l’ostilità statunitense va considerata una parentesi, che scomparirà quando Donald Trump cesserà di occupare la Casa Bianca, i paesi europei tentano di sfruttare l’allontanamento di Washington da Kiev per provare ad accreditarsi in quell’area come polo con aspirazioni egemoniche.

All’ultimo summit dei ministri della Difesa della Nato, il segretario generale Mark Rutte ha di nuovo insistito sulla necessità per gli stati membri di aumentare rapidamente le spese militari al 5% del Pil, scontrandosi con le resistenze soprattutto di Italia e Spagna.

Intanto l’Alta Rappresentante europea per la politica estera, Kaja Kallas, ha ribadito la necessità di armarsi e di prepararsi alla guerra che Mosca starebbe per scatenare contro le Repubbliche Baltiche, o la Polonia o la Moldavia.

Anche per la leadership politica e militare britannica la Terza Guerra Mondiale sarebbe scontata e occorrerebbe soltanto prepararsi ad affrontarla. È quanto ha detto, sfrondando eufemismi e giri di parole, Keir Starmer presentando a Londra il “piano di sicurezza strategica” del Regno Unito per i prossimi dieci anni. Per il leader laburista le priorità saranno rendere il paese pronto allo scontro, rafforzare l’Alleanza Atlantica ed espandere il complesso militare-industriale e quindi la produzione di armi tecnologicamente avanzate. Allo scopo il premier ha confermato la realizzazione, in collaborazione con Australia e Stati Uniti, di 12 nuovi sottomarini nucleari, l’istituzione di un centro di coordinamento tra marina e aeronautica e l’avvio di un “programma nazionale di assemblaggio di testate missilistiche” con uno stanziamento di 15 miliardi, per espandere e ammodernare l’arsenale atomico di Londra. – Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria