C’è un paese dell’America latina dove a impugnare la motosega – e in senso letterale – non sono i presidenti “pazzi”, fanatici di Trump e del Fondo monetario internazionale, come Milei in Argentina, ma i contadini e le comunità indigene, che la usano per abbattere gli alberi e bloccare così le strade all’arrivo dei militari. Si tratta di Panama, una regione del Centro America attraversata da un’ondata di scioperi e proteste, che continuano nonostante la feroce repressione. I sindacati hanno cominciato a mobilitarsi lo scorso 28 aprile, principalmente contro la Legge 462, che riforma il sistema di previdenza sociale (Caja de Seguro Social – CSS), vista come un tentativo di privatizzazione e di attacco alle pensioni da parte del governo neoliberista di José Raúl Mulino.
A fare da traino, principalmente i lavoratori delle piantagioni di banane (come quelli di Chiquita, rappresentati dal Sitraibana), ma a cui presto si sono uniti gli insegnanti, gli edili e altri settori colpiti dalle politiche di governo e dalla subalternità a un modello economico che prevede l’asservimento degli interessi nazionali a quelli dei grandi monopoli occidentali. Le proteste, infatti, denunciano anche lo sfruttamento delle miniere, e la svendita del paese alle grandi imprese straniere, principalmente nordamericane.
Il popolo panamense organizzato rifiuta anche l’accordo l’intesa siglato con gli Stati uniti sulla cooperazione in materia di sicurezza durante la visita del Segretario alla Difesa dell’amministrazione Trump, Pete Hegseth. Si batte contro la riapertura della miniera Cobre Panamá (First Quantum Minerals Ltd) e contro i “serbatoi multiuso” per il canale interoceanico, che implicano progetti di costruzione di nuove dighe e bacini artificiali lungo i fiumi che alimentano il Canale, come il fiume Indio.
A queste rivendicazioni se ne aggiungono altre che sono storiche, e attengono a problemi di natura strutturale e che indicano una profonda crisi economica, politica, sociale: riguardano l’istruzione e la sanità pubblica, le infrastrutture stradali, la lotta alla corruzione, e alla disuguaglianza sociale, in un paese che, nella sostanza, è rimasto una delle “repubbliche delle banane” di novecentesca memoria.
Lo testimonia l’importanza che riveste Chiquita Brands International, da cui dipende l’economia della provincia di Bocas del Toro, prevalentemente bananiera. La povertà a Bocas del Toro non è solo economica, è strutturale, storica e politica. Dati ufficiali del 2024 evidenziano che, dopo le comarche (territori indigeni autonomi), la provincia caraibica è quella che presenta la maggiore povertà multidimensionale: cioè, problemi di fame, mancanza di elettricità, scuole che non funzionano, acqua potabile che non arriva mai e una lunga lista di promesse non mantenute.
Sebbene Chiquita Brands International abbia radici storiche profonde negli Stati uniti (come erede della United Fruit Company, una compagnia nordamericana fondata a Boston), e mantenga una forte presenza e un marchio riconoscibile negli Usa, attualmente la sua sede principale è in Svizzera. Dopo essere stata acquisita nel 2015 da un consorzio brasiliano (composto dalle aziende Cutrale e Safra), Chiquita Brands International ha spostato il suo quartier generale a Étoy, in Svizzera.
Tuttavia, la multinazionale continua a essere un distributore leader di banane negli Stati uniti e mantiene grossi interessi nel paese, con un’attività importante a Fort Lauderdale, in Florida. Nel corso degli scioperi, Chiquita ha licenziato la quasi totalità dei suoi dipendenti a Panama (oltre 6.000 lavoratori), e ha dichiarato l’intenzione di cessare le attività “a causa della paralisi prolungata delle sue operazioni”.
In prima fila nell’unificare le mobilitazioni, il Suntracs, un sindacato storico (è nato il 10 settembre del 1972), attore fondamentale all’interno della Coordinadora de Unidad Sindical (Conusi), la federazione sindacale considerata tra le più radicali di Panama. Il Suntracs è forte principalmente nel settore delle costruzioni, un settore strategico per l’economia panamense (si pensi alla costruzione del Canale e a tutti i grandi progetti infrastrutturali collegati).
Nel 2014, nell’ambito del progetto di espansione del Canale, il sindacato ha indetto uno sciopero di due settimane, ottenendo un significativo aumento salariale. Ha organizzato anche lotte significative all’interno di un fronte ampio contro la privatizzazione dei servizi pubblici (come il Frenadeso – Frente Nacional por la Defensa de los Derechos Económicos y Sociales – Fronte Nazionale per la Difesa dei Diritti Economici e Sociali), e ha fatto della battaglia contro le riforme della previdenza sociale, una bandiera, e non da oggi.
Costante anche l’impegno antimperialista contro l’influenza degli Stati uniti, ancor più incombente e pervasiva dopo le minacciose dichiarazioni di Trump, che ha espresso ripetutamente l’intenzione di voler “riprendersi” il Canale di Panama, o in ogni caso di esercitare un controllo pieno sulla zona.
Vale ricordare che l’importante snodo commerciale e geopolitico del Canale di Panama è sotto il pieno controllo e la sovranità del governo panamense dal 31 dicembre 1999, come stabilito dai trattati Torrijos-Carter, e le sue operazioni sono gestite dall’Autorità del Canale di Panama (Acp). Con la consueta retorica vittimistica, tesa a far apparire i super ricchi della sua cerchia come gli eterni penalizzati da un progressismo inetto, incapace di farsi valere, il tycoon sostiene, così, ora, che il trasferimento del Canale a Panama, mediante i trattati firmati da Jimmy Carter nel 1977, siano stati un “regalo sciocco” e mal gestito che ha avuto come risultato una penalizzazione commerciale per gli Usa, colpiti da un peso eccessivo per l’uso del canale, che pur avevano costruito.
Trump punta il dito anche su una presunta egemonia della Cina sul canale, considerata una minaccia per la sicurezza nazionale e gli interessi economici degli Stati uniti. Malgrado la retorica, usata dal presidente Mulino e da alcuni suoi funzionari, che si sono appellati alla Carta delle Nazioni Unite, che vieta la minaccia o l’uso della forza contro la sovranità di un altro stato, Panama è chiaramente posizionato nel campo dei governi subalterni agli Usa in America latina.
E sono in molti a ricordare che la minaccia di Trump poggia su antecedenti storici reali e nemmeno troppo lontani nel tempo, come l’invasione del dicembre 1989 – l’Operazione Just Cause – ordinata dall’allora presidente George H.W. Bush. Con la cattura di Noriega, che aveva osato voltare le spalle al padrone nordamericano, gli Usa hanno lanciato un avvertimento, ben recepito dai presidenti che sono venuti dopo, e sono stati ben attenti a non farseli sfuggire un’altra volta.
La posizione di quello attuale, Mulino, eletto l’anno scorso, non ha lasciato dubbi sulle politiche che sta portando avanti nel continente quando si è affrettato a ricevere il nuovo autoproclamato “vincitore delle elezioni” del 28 luglio 2024 in Venezuela, Edmundo González Urrutia, candidato di cartone della golpista Maria Corina Machado.
E per questo – ha denunciato Marina Mesure, deputata della France Insumise al Parlamento europeo -, l’Unione europea, pur essendo il Panama partner attivo in iniziative regionali dell’Ue in aree come l’ambiente, il cambiamento climatico e la trasformazione digitale, tace sugli avvenimenti panamensi, sulla scure che si abbatte sui diritti dei lavoratori e sulla repressione. Mesure ha accusato anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), di cui Panama fa parte di tacere sulla persecuzione di cui sono vittime due noti dirigenti sindacali, come Saúl Méndez, attuale segretario generale del SUNTRACS, e il suo predecessore, Genaro López.
Il primo ha dovuto cercare rifugio presso l’ambasciata di Bolivia a Panama City, dove sta ricevendo “protezione temporanea” mentre la sua richiesta viene analizzata dal Consiglio Nazionale dei Rifugiati della Bolivia. Il secondo, inizialmente arrestato e trasferito nel centro penitenziario La Nueva Joya, ora è agli arresti domiciliari. Pagine Esteri