di Davide Tornielli
Lo scorso 12 maggio, l’Emirato islamico ha pubblicato un editto che ha stupito i già vessati afghani: la proibizione del gioco degli scacchi. Essendo l’emiro di Qandahar una figura intoccabile, le cui parole sono ritenute di ispirazione divina, il malumore si è celato dietro qualche battuta o denuncia alla muta platea internazionale. Nati in India nel IV secolo DC, gli scacchi si sono diffusi nel mondo conosciuto grazie agli arabi, che li apprezzavano come straordinario esercizio di strategia. Una decisione, come il bando degli aquiloni del Primo emirato, che muove nella direzione di limitare progressivamente l’autonomia dei sudditi, che non devono cedere alle tentazioni, tra cui il gioco d’azzardo. I talebani, principali responsabili degli attentati nel periodo della repubblica, sono ora garanti dell’ordine. Tramite i funzionari rimasti, hanno preso il controllo di burocrazia, infrastrutture, esercito e polizia. Di fatto fanno funzionare a basso regime il paese. Una dinamica in cui i principi morali appaiono priorità anche rispetto alla sopravvivenza, dato che la metà della popolazione non raggiunge la soglia della sicurezza alimentare.
Dopo la carestia che ha segnato il paese nel 2021 – 22 e l’impennata dell’inflazione, l’economia ha registrato una sostanziale tenuta. Il paese è entrato nell’orbita della Cina, interessata a gas, rame e materie prime di cui l’Afghanistan è ricco. La relazione con il potente vicino pakistano, sponsor dei talebani dal tempo della jihad contro i sovietici, si sono deteriorati. Il Pakistan soffre degli attacchi terroristici del TTP, Tehrik-i-Taliban Pakistan, che ha le proprie basi nelle aree tribali a sud ovest, le stesse che hanno ospitato i talebani afghani durante l’occupazione occidentale. Una seconda ragione di tensione è, come per l’Iran, l’acqua. I fiumi afghani, in particolare il Kabul e l’Hari Rud ad Herat, sono ridotti a rigagnoli e si calcola che i sette milioni di abitanti della capitale entro cinque anni rimarranno senz’acqua. L’emirato ha reagito costruendo nuovi bacini e portando gli esistenti alla massima capienza, il che ha causato la reazione dei due vicini e l’espulsione dei profughi da questi ritenuti illegali.

foto di Milad Hamadi
Si tratta di un milione e duecentomila persone da parte pakistana e di ottocento mila dall’Iran. Un flusso iniziato nel 2024, che grava sulla disastrata economia locale e coinvolge famiglie rifugiate da decenni, che non hanno, o non hanno potuto, regolarizzare la loro posizione. Rientrano in condizioni precarie, con gli indumenti che hanno indosso. Nel caso dell’Iran si hanno notizie di rastrellamenti duri, durante i quali gli afghani non hanno la possibilità di prelevare o vendere i loro averi e vengono scortati al confine. Molti degli espulsi, lavoravano nelle raffinerie d’oppio e rientrano con un tasso di malattie e tossicodipendenza alto, in particolare polmoniti e tubercolosi. Si segnala il caso di un’operazione realizzata dagli iraniani durante un matrimonio, in cui i partecipanti sono stati caricati sui bus e scortati al confine.
Il traffico del papavero si è quasi arrestato da quando i talebani lo hanno reso illegale. Al posto delle distese porpora, che sono servite per un trentennio ai mujaidin per comprare armi, nel nord ovest dell’Afghanistan proliferano colture pregiate, tra cui lo zafferano. Anche se il problema degli eroinomani rimane significativo, da circa un anno la baraccopoli che popolava le colline a nord della capitale è stata sgomberata. Si sono ampliati i centri di recupero, in cui viene praticata una disintossicazione draconiana, senza attività e operatori qualificati, centrata sul ritorno alla fede. Da un paio d’anni si è diffusa la figura del difensore della moralità: anziani dalle lunghe barbe bianche, vigilano sui comportamenti, l’etica e la religiosità nei quartieri, per poi riferirne alle autorità. Spesso sono affiancati da gruppi di mujaidin che, a bordo dei fiammanti pickup lasciati insieme alle divise dagli americani, saettano per le strade delle città, urlando gli slogan dell’emirato. Sono giovani che hanno partecipato alla presa di Kabul e che, armatissimi, rappresentano un pericolo per la loro irruente mancanza di esperienza.
Il regime talebano è definibile un’apartheid di genere. Le donne sono sparite dalle strade, dai luoghi pubblici, dalla televisione, dai centri e dagli ospedali. È loro vietato uscire senza accompagnatore, frequentare parchi, lavorare, studiare oltre la scuola dell’obbligo. È tollerato che, coperte dal burka, vadano a fare la spesa, ma senza allontanarsi da casa e senza prendere mezzi pubblici. Si tratta di un livello di segregazione che non ha paragoni nei paesi islamici più integralisti e riduce le prerogative femminili alla pura funzione riproduttiva. Le donne non possono esercitare la professione medica e, d’altro lato non esistono ospedali rivolti a loro. Quindi, semplicemente, o si curano all’estero o sono lasciate a loro stesse. Un editto recente revoca loro la possibilità di partecipazione all’unico indirizzo universitario consentito: ostetricia. Gli ospedali permangono comunque in una situazione gravissima, sia per la mancanza di medici e infermieri, sia per la carenza di medicinali, tra cui anestetici e disinfettanti.
La giustizia è tornata di competenza delle corti islamiche ma, salvo casi isolati, il temuto bagno di sangue non c’è stato. L’emirato ha decretato l’amnistia per i collaboratori e i combattenti che hanno accettato di deporre le armi. Una politica che ha consentito che la maggioranza dei funzionari rimanesse al loro posto e che il sistema non si paralizzasse. Dopo la partenza degli occidentali, grazie a Turchia ed Emirati arabi, gli aeroporti hanno ripreso a funzionare. Anche oggi, dato il degrado in cui permangono le strade, le comunicazioni tra le maggiori città sono garantite via aerea. Nel 2024 si è inaugurato un ambizioso piano di ricostruzione delle infrastrutture; tra le prime opere, risulta non a caso la superstrada che congiunge Qandahar con Kabul.
Il diritto in vigore in Afghanistan è islamico quanto consuetudinario. Sulla base della sharia, si sono accumulati innumerevoli editti: è vietato vestire all’occidentale, fotografare, ascoltare musica, suonare, cantare, ballare. Il sistema è impegnato nella omologazione dei gruppi etnici e religiosi del caleidoscopio afghano, alla visione dell’islam dei talebani pashtun, che rappresentano il 40% della popolazione. Un’etnia divisa tra Pakistan e Afghanistan, custode di tradizioni millenarie e di un codice tribale, già presente quando Alessandro raggiunse l’Hindukush. Grandi guerrieri, i pashtun del clan Durrani unificarono il paese nel XVIII secolo. Il pashtunwali confligge in parte con la tradizione, in quanto la predicazione islamica si radicò nel paese dopo l’invasione araba, tramite i dervisci provenienti dalla Persia. Un movimento, quello Sufi, noto per tolleranza, sensibilità alle arti, profondità di pensiero, che si diffuse nell’area di cultura persiana soppiantando lo zoroastrismo.

foto di Jan Chipchase
Il tema è approfondito in un recente saggio del professor Hassan Abbas della National Defense University di Washington[1]. I talebani si ispirano al deobandismo, movimento sorto nel XIX secolo nel nord dell’India. La madrasa di Deoband partecipò al processo d’indipedenza, senza poi seguire i musulmani verso il Pakistan e ora disconosce, almeno parzialmente, le posizioni dell’emirato. Il rigore talebano si è consolidato in origine a fronte della corruzione e alla violenza dei Signori della guerra che hanno governato l’Afghanistan dopo il ritiro dei sovietici. I cinque anni del primo emirato (1996 -2001), rappresentarono il trionfo dell’ideologia islamico – pashtun su un secolo di tentativi riformistici e rivoluzioni. Si impose la dicotomia tra vero e falso, virtuoso e corrotto, credente e infedele, che con l’applicazione letterale della sharia, faranno da collante tra i movimenti islamici e permetteranno il radicamento di Al Qaeda e Bin Laden nel paese. Emblematico della concezione del potere del Primo emirato è il Mullah Omar. Figura carismatica di combattente e capo religioso, stupì il mondo quando nel 1995 si recò nel museo di Qandahar e indossò quello che i credenti credevano fosse il mantello originale del Profeta. Non si limitò ad ammirarlo, ma se lo pose sulle spalle per testimoniare la propria funzione discendesse direttamente dal fondatore dell’Islam.
Ciò che appare oggi evidente, è che il movimento talebano abbia subito significativi cambiamenti. La disponibilità a trattare con gli Stati Uniti a Doha, l’abilità diplomatica mostrata durante i negoziati, testimoniano una preparazione e capacità inedite. La mente degli accordi è certamente Abdul Ghani Barader, posto sotto arresti domiciliari per quasi un decennio a Islamabad e mujahiddin della prima ora. Gli incontri si sono svolti nel 2020 tra gli inviati americani e la delegazione talebana. Rimasero esclusi gli alleati europei che avevano partecipato al contingente, l’ONU, ma soprattutto il governo in carica di Ghani. Si trattò di un colpo da maestro da parte talebana, che mirava a disconoscere la Repubblica islamica quale istituzione, quanto approfittare dell’occasione fornita dalla presidenza Donald Trump. Un presidente alla fine del primo mandato, centrato sulla politica interna e fautore del disimpegno Usa nei fronti mediorientali.
A Doha andò in scena un capovolgimento di prospettiva, che elevava i fautori dell’emirato da terroristi e membri attivi dell’asse del male, a partner. Una situazione che evidenziava le spaccature del fronte occidentale sulla politica estera e le priorità in termini di bilancio della superpotenza americana. Trump aveva urgenza di chiudere un conflitto che poteva alimentarsi indefinitamente, per portare un risultato nelle elezioni di novembre che lo avrebbero contrapposto a Baiden. I negoziati furono rapidi e mirati al rispetto di alcuni punti che da parte occidentale si ritenevano irrinunciabili: diritti civili, diritti delle donne, governo ad interim con i partiti di Kabul, amnistia per quanti avevano collaborato con la coalizione. Le trattative con il governo Ghani e il tema dell’assetto istituzionale -repubblica islamica o emirato- erano rimandati a successivi negoziati tra le due parti afghane.
La serie di fortunose evenienze per i talebani proseguì con la decisione della nuova amministrazione americana a guida democratica di continuare con la politica estera di Trump. Seguirono la disastrosa fuga dei contingenti occidentali da Kabul, il regalo ai talebani della base Usa di Baguan praticamente intatta, la capitolazione del Governo in carica afghano. I talebani entrarono nella capitale il 15 agosto 2021, mentre la macchina da guerra occidentale si scioglieva come neve al sole e decine di migliaia di civili si accalcavano all’aeroporto. Le trattative con il governo Ghani non avrebbe mai avuto luogo.
In tutta questa vicenda, risultava un grande assente: il leader supremo del movimento eletto nel 2016 dal Consiglio islamico Hibatullah Akhundzada. Presidente della Corte suprema nel primo emirato, aveva fatto parte della cerchia ristretta del Mullah Omar ed era noto per le posizioni conservatrici e il consenso che godeva nei vertici talebani. La frettolosa fuga di Ghani con il tesoro nazionale, avvenuta contestualmente all’arrivo nella capitale dei primi contingenti mujahedin, chiudeva ogni prospettiva di compromesso. L’emirato venne dichiarato con propositi di riconciliazione nazionale, rispetto dei dissidenti, delle donne e dei diritti umani. Il temuto bagno di sangue non avvenne, anche se si registrarono sparizioni ed isolati casi di violenza, e il governo si insediò a Kabul per mandato dell’emiro che, come il predecessore, scelse di rimanere a Kandahar.
Il 28 di agosto un suicide bomber, appena liberato dalla prigione di Bagram, compì un attentato all’aeroporto di Kabul, che causò oltre duecento vittime. Fu la sanzione della rottura con Al Qaeda e Isis, quest’ultima nota in Afghanistan come Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan. Se lo slogan del Primo ministro Mohammad Hassan Akhund, leader anziano e già stretto collaboratore del Mullah Omar, continuava ad essere “prima l’Islam, poi l’Afghanistan”, la dimensione internazionalistica non appariva una priorità. I mujaheddin avevano atteso la loro opportunità per un ventennio e non avevano intenzione di farsela scappare. Iniziò un confitto armato con gli ex alleati, che avrebbe costretto le ultime sacche di resistenza in regioni remote, come il nord ovest della provincia di Herat.

foto di Milad Hamadi
Sulla base degli accordi di Doha, l’ala riformista ha cercato di aprire dei canali di comunicazione con il consesso internazionale, che non riconosceva l’emirato. L’isolamento fu interrotto nel 2023 dalla Cina, che pur aderendo al boicottaggio, accettò un ambasciatore talebano, e dai crescenti rapporti con l’India in funzione anti pachistana. Un tema, il riconoscimento internazionale, che faceva emergere alcune fratture interne. Kandahar si confermava roccaforte del fondamentalismo, con un gruppo dirigente fautore della continuità con il Primo emirato. Un gruppo che a parole aveva enfatizzato gli accordi Doha, ma rimaneva convinto che propria missione fosse rieducare il popolo afghano, corrotto dal ventennale dominio straniero. Significativo un editto della fine del 2024, in cui si affermava fosse vietato agli afghani stringere legami di amicizia con infedeli. D’altro lato il ruolo dei riformatori che avevano animato Doha è parso via via indebolirsi. L’accordo prevedeva, nel caso i punti salienti non fossero rispettati, la reazione della controparte occidentale. Il riferimento era ad un nuovo intervento militare, sfumato con il calare dell’oblio sulla questione afghana e l’impegno in Ucraina. Gli sviluppi interni hanno indebolito la fazione riformista e lo stesso Barader. In un editto recente, aprile 2024, Hibatullah Akhundzada ha sostenuto la necessità di un’applicazione più rigorosa della sharia, il che riporta il ricordo delle lapidazioni nella piazza di Kabul degli anni ’90. Sebbene il movimento sia convinto che la sua forza sia legata all’unità, le crepe si sono fatte profonde.
La strategia di Qandahar si chiarisce analizzando la sequenza dei decreti quotidianamente emanati. Non si tratta di un’azione drastica, quanto di una riduzione progressiva dell’autonomia dei singoli. In mancanza di un’opposizione, e in maniera più radicale che in Iran, la Guida spirituale traccia il solco tra ciò che è plausibile e ciò che non lo è. Parallelamente, lo spazio lasciato ai riformatori viene ridimensionato nella prospettiva di seppellire Doha e la strategia che lo ha ispirato. Se appare evidente che la maggioranza degli afghani apprezzi la ritrovata stabilità, gli editti hanno provocato un diffuso malcontento nelle città. Le tensioni si sono esacerbate nel dicembre del 2024, quando Khalil Haqqani ministro per i rifugiati e capo dell’omonimo clan, è stato assassinato a Kabul per mano dell’Isis. Da allora le misure di sicurezza sono aumentate, le dichiarazioni si sono fatte dure e si è diffuso il timore che possa scoppiare una nuova guerra civile.
La gente reagisce con la rassegnazione delle piccole trasgressioni quotidiane. Si cancellano le foto dopo averle condivise, si spegne l’autoradio vicino ai posti di blocco, si gioca a scacchi nell’intimità delle case. Kabul è soffocata da una cappa soffocante, ma nelle campagne la vita procede senza grandi mutamenti, polarizzata dalle preoccupazioni per le scarse piogge e gli stenti raccolti. Ovunque si discute della passata, tremenda, siccità e degli effetti del cambiamento climatico, che alimenta la grande sete dell’Afghanistan.
[1] ABBAS Hassan, The Return of the Taliban: Afghanistan after the Americans Left (English Edition). 2024, Yale University Press.