Dietro la cortina fumogena della “ricostruzione” e dell’”assistenza umanitaria”, prende forma un progetto che punta a svuotare Gaza dei suoi abitanti. Le rivelazioni pubblicate in questi giorni da Reuters e Washington Post, insieme alle dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz, confermano l’esistenza di almeno due proposte parallele, di matrice statunitense e israeliana.
La prima è stata elaborata dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), la fondazione americana alleata di Israele che distribuisce pacchi alimentari a Gaza al posto delle Nazioni Unite. Il progetto da 2 miliardi di dollari, descritto in una serie di slide visionate dalla Reuters, prevede la costruzione di “Aree di Transito Umanitario” (HTA), ovvero campi su larga scala all’interno – e potenzialmente all’esterno – di Gaza, destinati a ospitare temporaneamente centinaia di migliaia di palestinesi. Nelle intenzioni dichiarate, questi campi sarebbero luoghi “volontari” in cui i civili potrebbero “deradicalizzarsi, reintegrarsi e prepararsi a trasferirsi se lo desiderano”. Ma il linguaggio del progetto e la sua cornice politica sollevano gravi interrogativi sulla reale volontarietà e sul fine ultimo dell’iniziativa.
Le preoccupazioni non sono infondate. Già lo scorso 4 febbraio, Trump aveva dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti avrebbero dovuto “prendere il controllo” di Gaza, trasformandola in una “Riviera del Medio Oriente” dopo aver reinsediato la popolazione palestinese altrove. La visione di GHF si inserisce perfettamente in questa narrazione, presentando i campi come uno strumento per “sostituire il controllo di Hamas” e creare le condizioni per il trasferimento della popolazione. A chi si domanda dove dovrebbero essere collocati questi campi fuori Gaza, le diapositive rispondono con una mappa in cui compaiono frecce rivolte verso l’Egitto, Cipro e altre “destinazioni aggiuntive”, senza ulteriori specificazioni.
Il sospetto che si tratti non di un piano umanitario, ma di un progetto di espulsione mascherata, è condiviso da numerosi esperti. “Non esiste nulla di simile allo sfollamento volontario tra una popolazione sottoposta a bombardamenti continui e tagliata fuori dagli aiuti”, ha commentato Jeremy Konyndyk, presidente di Refugees International. Anche le Nazioni Unite hanno denunciato come “intrinsecamente pericoloso” l’operato della GHF, accusato di violare i principi di imparzialità umanitaria e di coordinarsi direttamente con l’esercito israeliano.
L’Alto Commissariato ONU per i diritti umani ha registrato oltre 600 morti presso i punti di distribuzione degli aiuti della GHF e ai convogli umanitari.
Mentre la GHF afferma di non aver mai formalizzato una proposta, e il Dipartimento di Stato USA si smarca dichiarando che “non è in discussione nulla del genere”, le slide presentano una tempistica dettagliata per l’avvio dei campi e una proiezione secondo cui ogni campo potrebbe ospitare centinaia di migliaia di persone. In una delle immagini, si legge che i campi sarebbero operativi entro 90 giorni e dotati di scuole, docce e lavanderie. Ma resta il nodo centrale: come verrebbero trasferiti i palestinesi, in quali condizioni, e soprattutto, con quali garanzie di ritorno.
Nonostante il disconoscimento ufficiale del piano, la sua esistenza contribuisce ad alimentare l’idea che “l’emigrazione volontaria da Gaza”, di cui parlano Donald Trump e il premier israeliano Netanyahu, sia più di una ipotesi.
Ad aggravare ulteriormente le preoccupazioni è il piano parallelo annunciato da Israel Katz, ministro della Difesa israeliano, che ha incaricato l’esercito di preparare una “città umanitaria” sulle rovine di Rafah. Questa struttura, secondo quanto riportato da Haaretz, dovrebbe ospitare tutta la popolazione residua di Gaza, inizialmente accogliendo 600.000 persone. Katz ha affermato che a nessuno sarà permesso di uscire una volta entrati, e che l’area sarà circondata e protetta dalle forze israeliane, pur lasciando la gestione civile a non meglio precisati partner internazionali.
Sebbene Israele presenti il piano come soluzione temporanea di emergenza, l’idea di concentrare l’intera popolazione palestinese superstite in un unico sito fortificato e circondato militarmente – di fatto un campo di internamento – ha suscitato reazioni di allarme internazionale. Amnesty International e Human Rights Watch hanno da mesi avvertito che la politica israeliana verso Gaza, a partire dall’assedio e dai bombardamenti indiscriminati, risponde a una logica di “pulizia etnica graduale”, con l’obiettivo di svuotare la Striscia della sua popolazione.