Il 17 agosto la Bolivia tornerà alle urne per scegliere chi guiderà un Paese che, a vent’anni dalla sua rivoluzione democratica e indigena, si ritrova più frammentato che mai e rischia di aprire le porte a venti razzisti e reazionari.

Il fallimento e le profonde fratture, interne ed esterne al MAS (il partito di governo Movimento al Socialismo), stanno aprendo uno spazio che – nonostante divisioni e contraddizioni – le destre sono pronte a occupare.

Quell’insieme di forze sociali, indigene e sindacali che nel 2005 rovesciò la partitocrazia neoliberale, spalancando le porte a una delle esperienze più dirompenti dell’America Latina, oggi è imploso in una lotta di potere pura quanto estenuante, figlia, tra l’altro, di quel tremendo fardello latinoamericano chiamato caudillismo.

«Negli anni Novanta – racconta Juan Carlos Morales Calle, attivista politico e filosofo – la Bolivia era governata da una partitocrazia: chi arrivava terzo alle elezioni poteva diventare presidente grazie a patti parlamentari. Ma con la nuova Costituzione del 2009, per governare serve il 50% più uno. Questa regola doveva blindare il potere popolare, ma ora rischia di consegnare la vittoria a una destra che sfrutta la nostra divisione. Samuel Doria Medina, per esempio, ha davvero una possibilità reale di vincere, o almeno di forzare un ballottaggio che prima era impensabile.»

Il Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos (MAS–IPSP) nacque come espressione politica della Guerra dell’Acqua di Cochabamba nel 2000: una rivolta popolare che, dalle strade di El Alto alle comunità contadine, rovesciò governi, impose la nazionalizzazione delle risorse naturali e riscrisse la Costituzione del 2009, dando forma a uno Stato Plurinazionale.

Nel 2005, il MAS vinse con Evo Morales, cocalero del Chapare, portando al governo il primo presidente indigeno della storia boliviana. Un simbolo e, insieme, una promessa di riscatto collettivo.

Quella promessa, però, si è presto scontrata con uno degli assi del capitalismo stesso: la logica del potere. Il MAS ha tradito non solo con le scelte elettorali di Morales – che, perso il referendum costituzionale del 2016, decise comunque di ricandidarsi nel 2019 – ma anche con una gestione del potere che ha acuito lo scontro per il controllo dei territori, alimentato tensioni con comunità indigene, campesinas e movimenti femministi, e consolidato una dipendenza dal modello estrattivista, pur socializzandone parte dei guadagni.

«Una delle logiche che ha permesso la corruzione del sistema – spiega Morales Calle – è stata la cooptazione delle dirigenze sindacali. Quella cooptazione ha creato una burocrazia: le teste decidevano da sole, prescindendo dalle basi. Così sono arrivati auto di lusso, viaggi, posti di lavoro per amici e parenti. Questo lo hanno fatto tutti: prima Condepa, poi il MNR, poi il MAS, che ha solo ampliato quella logica, fino a svuotare dall’interno la forza dei movimenti sociali.»

La ricandidatura forzata di Morales nel 2019 fu solo la scusa che permise alle destre di attuare un golpe già preparato, sostenuto da oligarchie economiche, apparati militari, gerarchie ecclesiastiche e interessi esterni. Quando Morales fuggì, la Bolivia entrò in una spirale di violenza repressiva, ma la resistenza popolare, radicata in tutto il Paese, riportò in piazza l’anima ribelle che aveva fatto nascere il MAS. Il 18 ottobre 2020, quelle stesse forze sociali strapparono una nuova vittoria elettorale, portando Luis Arce alla guida del Paese. Ma va ricordato: Arce fu scelto da Morales, imponendolo come candidato contro la preferenza dell’assemblea del partito, che avrebbe voluto David Choquehuanca come volto di continuità.

Da lì nacque, subito dopo l’insediamento, lo scontro di leadership tra Morales e Arce: un conflitto che, ancora oggi, segna la frattura di quel sogno collettivo. E la frammentazione non è solo a sinistra: anche la destra boliviana corre divisa, incapace di darsi un fronte unico. Oggi, da quel che fu l’alleanza originaria, emergono almeno tre candidature: Eduardo del Castillo, volto istituzionale del MAS; Eva Copa, sindaca di El Alto, legata a una sinistra popolare di base; Andrónico Rodríguez, leader dei cocaleros e diretto erede della base chapareña di Morales.

Sul fronte opposto, la destra schiera Samuel Doria Medina (Unidad Nacional), l’ex presidente Jorge Quiroga (Libre) e il sindaco di Cochabamba Manfred Reyes Villa (Autonomía Para Bolivia). Nemmeno loro, però, riescono a coalizzarsi in un’unica candidatura, segno di una crisi di leadership speculare a quella del campo progressista.

Gli ultimi sondaggi – elaborati da El Deber, Captura Consulting e Red Uno – fotografano una corsa apertissima: Samuel Doria Medina è accreditato tra il 19 e il 24%, Jorge Quiroga tra il 16 e il 22%, Andrónico Rodríguez intorno al 14–15%, mentre Eva Copa ed Eduardo del Castillo restano sotto il 2%. Manfred Reyes Villa oscilla tra il 7 e il 9%. Ma il dato più pesante è quello degli indecisi, ancora oggi oltre il 20–25%.

«Nemmeno la destra è unita – avverte Morales Calle – Samuel Doria Medina guida una parte, Jorge Quiroga un’altra, Manfred Reyes Villa un’altra ancora. Se fossero compatti, la sconfitta del nostro campo sarebbe certa. Ma pure loro sono prigionieri delle loro ambizioni personali, di vecchie logiche di potere. Questo ci dice quanto profonda sia la crisi politica del Paese. Intanto il popolo, quello vero, è fuori da tutto questo: lavora giorno e notte solo per portare il pane a casa. E mentre le élite si sbranano, nessuno ascolta davvero quella voce.»

Il 17 agosto segnerà se la Bolivia saprà rigenerare quell’energia originaria del 2005 o resterà ostaggio di vecchi e nuovi caudillos, di burocrazie e di una logica di potere che, invece di cambiare la storia, l’ha piegata ai propri interessi. O, ancora peggio, potrebbe tornare a destra, andando in continuità con l’onda che da Trump a Bukele, passando per Milei e Noboa, sta segnando il continente.