di Bishoy Kaleny – Al Akhbar

La politica non crolla tutta insieme. Ciò che si sgretola per prima è l’infrastruttura che ne permette l’esistenza; le relazioni sociali e organizzative che producono attori politici con un’immaginazione politica collettiva. La politica non nasce dalla coscienza individuale, ma dalla posizione delle persone all’interno dei rapporti di produzione, dai loro bisogni, dall’attrito con l’apparato statale e dalla loro capacità di costruire strumenti rappresentativi e collettivi.

Il fallimento della mobilitazione politica egiziana prima e dopo la rivoluzione del 2011 non è stato né un cedimento morale né un riflesso della repressione autoritaria. Piuttosto, è stato un risultato complesso plasmato dall’interazione storica tra quelle che potremmo definire le condizioni oggettive e soggettive necessarie per l’emergere dell’azione politica.

Dagli anni Settanta, l’Egitto ha subito profonde trasformazioni strutturali: lo smantellamento della base produttiva, la liberalizzazione economica, la marginalizzazione della classe operaia, la ruralizzazione dei centri urbani, il crollo dei sindacati e il restringimento della sfera pubblica. Questi cambiamenti hanno eroso non solo la rappresentanza politica, ma lo stesso tessuto sociale che poteva sostenere un’azione collettiva radicale.

Tuttavia, la crisi strutturale da sola non produce movimento politico. Momenti come gli scioperi di Mahalla del 2006 o la rivoluzione di gennaio hanno rivelato crepe nella presa egemonica del regime in senso gramsciano: una rottura nella capacità del regime di rappresentare interessi di classe contrastanti all’interno di un unico blocco dominante. Tuttavia, nessuna forza è stata in grado di trasformare queste fratture in un’organizzazione duratura. I partiti politici che esistevano prima di Kefaya, non avendo radici in basi sociali reali, erano vuoti – elitari, clientelari e non ancorati alle realtà di classe.

Kefaya, emerso all’inizio degli anni 2000, è stato più un momento di confusione che un vero e proprio movimento. È stato un tentativo radicale di rompere con la vecchia era dei partiti politici, non riuscendo però a inaugurare una nuova fase. La sua coesione non si basava sull’organizzazione o sul sostegno di massa, ma sul consenso di una manciata di individui e di élite culturali affini, uniti nel rifiuto della successione politica. Privo di infrastrutture strategiche, è diventato un gesto piuttosto che un progetto, simbolicamente visibile e poi rapidamente irrilevante.

Il suo fallimento ha fatto nascere un nuovo modello. Si trattava di una politica distaccata dalle realtà economiche, radicata invece nel discorso, negli affetti e nell’identità. Si è radicata nella sensibilità, nel linguaggio e nei gesti simbolici. Iniziò così l’era dell’attivismo: una politica senza organizzazione, senza classe, senza strategia.

La rivoluzione del 2011, paradossalmente, ha consolidato questo modello. Per molti, quel momento ha convalidato l’attivismo come modalità di impegno più efficace. Le organizzazioni della società civile hanno assorbito le energie post-rivoluzionarie, incanalandole in contesti istituzionali depoliticizzati. Dopo la sconfitta della rivoluzione, il terreno dell’azione politica si è ristretto al discorso rivolto verso l’esterno. Sia in Egitto che all’estero, l’azione politica si è ridotta alla produzione di dossier, alla documentazione delle violazioni, alla stesura di rapporti e alla messa in scena di interventi sui media, il tutto premettendo l’idea che un impegno politico efficace sia possibile solo all’estero, mentre il paesaggio interno è incapace di trasformarsi.

Ma questo mondo, in cui appellarsi alle potenze liberali all’estero sembrava politicamente fattibile, sta per finire. E con essa ritornano le domande urgenti: come costruire la politica dall’interno? Come passare dalla denuncia al potere collettivo?

L’attivismo, in questo senso, non è un momento di deviazione, ma l’istituzionalizzazione di una debolezza strutturale. È una politica senza blocco storico, senza organizzazione, senza fondamento nei rapporti di produzione. È il culmine di un fallimento nella costruzione delle basi materiali dell’azione trasformativa.

La sinistra come identità isolazionista

La sinistra egiziana non è riuscita per lungo tempo ad affermarsi come movimento di massa. Storicamente, le sue organizzazioni più grandi raramente hanno superato i 1.000 membri, con poche eccezioni come il Partito Comunista Egiziano nel 1958, smantellato poco dopo la sua nascita, e il Partito Unionista Nazionale Progressista (al-Tagammu) negli anni ’70, sponsorizzato dallo Stato e rapidamente indebolito.

La maggior parte dei gruppi di sinistra ha operato come circoli insulari e semi-segreti dominati da élite intellettuali. Piuttosto che costruire basi di massa, riproducevano l’isolamento attraverso un discorso rivolto all’interno e strutture rigide. Il risultato: cricche ideologiche definite da un atteggiamento di difesa, elitarismo e incapacità di relazionarsi con classi più ampie.

Questo isolamento organizzativo è diventato strutturale; si è gradualmente trasformato in una condizione oggettiva che ha prodotto una cultura politica specifica. Staccati dai rapporti di produzione, questi gruppi hanno sviluppato linguaggi e comportamenti improntati alla fragilità e al sospetto. L’impegno politico è diventato una questione di identità teorica piuttosto che di lotta concreta. “Socialismo”, ‘liberazione’ e “classe” sono stati ridotti a slogan e a tratti di identità, non a strumenti di organizzazione.

Storicamente, non tutti i movimenti sociali che portavano avanti istanze di sinistra si identificavano come tali. Il Partito Nazionale di Mohammed Farid, ad esempio, non era un partito marxista, ma fondò il primo sindacato egiziano nel 1909 ed espresse visioni sociali chiaramente emancipatrici. Le richieste di giustizia sociale facevano parte del programma del Partito Wafd e l’era nasserista ha portato avanti molte politiche di carattere socialista, nonostante le sue contraddizioni strutturali. Ma invece di impegnarsi con questa storia per estrarne gli elementi progressisti, la sinistra ha scelto di separarsi da essa.

Questa critica non è personale. È rivolta al modello politico dominante emerso nel vuoto post-rivoluzione. Tale modello, plasmato dalla repressione, dal crollo della politica di partito e dall’espansione delle ONG, ha prodotto contraddizioni interne che impediscono all’attivismo di evolversi in uno strumento politico.

Quelle che seguono sono nove caratteristiche fondamentali di questa impasse, non per derisione o denigrazione, ma come base per la ricostruzione.

  1. Contro la definizione delle priorità: Il rifiuto come metodo

Al centro della stagnazione degli attivisti c’è il rifiuto di stabilire delle priorità. Questo concetto non è visto come uno strumento strategico per organizzare e dirigere l’azione politica, ma è invece implicitamente considerato come una forma di autoritarismo o di esclusione. Il risultato è una falsa uguaglianza tra questioni strutturalmente diverse, ad esempio trattare la povertà rurale e l’emarginazione alla stregua di questioni ugualmente urgenti nelle terminologie del discorso postmoderno.

Ma senza stabilire delle priorità, un progetto politico non può esistere. Qualsiasi sforzo serio per cambiare la realtà richiede un senso di ciò che è più urgente e di quali questioni sono strutturalmente fondamentali per smantellare il dominio imposto. La politica non è un elenco di richieste o di argomentazioni morali; è una disposizione delle battaglie in base all’equilibrio del potere e a ciò che aiuta a costruire lo slancio per la consapevolezza e l’organizzazione.

Il rifiuto di stabilire delle priorità riflette un vuoto analitico più profondo; rivela l’incapacità di pensare in modo strategico, di identificare l’avversario principale, la classe dominante e le contraddizioni più pressanti che possono creare opportunità di lotta efficace. Ne consegue un impegno reattivo e dispersivo che non serve né alla chiarezza né all’impatto.

  1. Un centro vuoto: La politica senza una spina dorsale

Questo rifiuto di stabilire delle priorità è legato all’avversione a identificare ciò che è “centrale” nella crisi egiziana. Piuttosto che mappare la struttura sociale del Paese, gli attivisti adottano sempre più spesso approcci decostruttivi che dissolvono tutto in “questioni” isolate, senza alcuna analisi strutturale che le leghi insieme. Frasi come “tutto è interconnesso” vengono ripetute senza alcun serio tentativo di esaminare l’implicazione più ovvia di questa idea: se molte linee si intersecano, allora deve esserci un centro. Si potrebbe letteralmente provare a disegnare sulla carta linee che si intersecano senza un punto centrale.

L’analisi marxista riconosce la società come un campo di lotte di classe interconnesse, strutturate da un sistema economico-sociale che rende alcune contraddizioni più centrali di altre. L’identificazione di un centro non cancella le altre contraddizioni: è ciò che permette di creare alleanze reali e tattiche politiche efficaci che collegano questioni diverse all’interno di una visione unitaria della lotta.

Senza questo, il discorso politico diventa incoerente. Non c’è un avversario, non c’è un antagonista materiale, ma solo lamentele disperse. Il sistema prospera in questo disorientamento, dove la rabbia viene facilmente deviata verso sbocchi culturali o simbolici che non rappresentano una vera minaccia per le fondamenta dell’ordine esistente.

  1. La politica come moralità: Tra santificazione e stagnazione

Al posto dell’analisi materiale, l’azione politica in Egitto si è trasformata in un discorso puramente morale, che giudica le posizioni e le persone attraverso la lente del giusto e dello sbagliato, del bene e del male, piuttosto che della posizione di classe, della funzione politica o dell’impatto effettivo. Ci si aspetta che gli attori politici siano impeccabili, privi di contraddizioni e pienamente allineati a principi astratti. Questa logica crea tre problemi.

In primo luogo, l’analisi politica viene sostituita dal giudizio morale. Domande come “Questo sposta l’equilibrio di potere? Indebolisce l’avversario? Crea uno slancio politico?“ sono sostituite da ”È rispettabile? È abbastanza sensibile?”.

In secondo luogo, la politica si trasforma in una piattaforma di condanna e scomunica simbolica. Le deviazioni dal consenso morale, anche se dettate da necessità tattiche o da analisi di classe, scatenano diffamazioni e accuse di tradimento. Questo erode la fiducia e frammenta l’azione collettiva. Ogni attore politico diventa vulnerabile all’esclusione dalla sfera pubblica per un “errore morale” percepito, che spesso si riduce a un pregiudizio teorico o a una differenza di giudizio.

In terzo luogo, questo formato mette da parte il vero dibattito politico e crea un clima di paura e autocensura. Le persone si preoccupano di evitare gli “errori” e l’arena politica diventa un palcoscenico per la virtù, non per la lotta.

Spogliando la politica del suo fondamento materiale e dell’organizzazione collettiva, e sostituendola con un moralismo libero, si finisce per paralizzarla. Anche se rivestito con un linguaggio radicale, questo moralismo manca di potere, persone e scopi e spesso replica dinamiche autoritarie all’interno dei circoli di attivisti.

  1. Individualismo e crollo dell’organizzazione

Una caratteristica del lavoro politico in Egitto, soprattutto nell’ambito della società civile, è l’eccessivo individualismo che trasforma l’azione politica in una scelta di vita personale piuttosto che in uno sforzo collettivo per modificare le dinamiche di potere. La politica diventa qualcosa di praticato come l’arte, la moda o un’identità personale e un atto di auto-espressione piuttosto che una risposta a condizioni oggettive.

La repressione statale ha indubbiamente contribuito a questo stato di cose. L’erosione della libertà di opinione e di espressione ha creato un’idea sbagliata di ciò che significa essere politicamente attivi. La logica dell’azione è stata sostituita dalla logica dell’articolazione personale. L’azione politica diventa una serie di iniziative emotive, che crollano a ogni ondata di repressione o di sfinimento emotivo.

Senza organizzazione, non c’è accumulo, né apprendimento, né strategia condivisa. Ogni sforzo parte da zero e finisce senza eredità. Ogni battuta d’arresto viene interiorizzata come un fallimento personale piuttosto che come una sconfitta condivisa che richiede analisi e aggiustamenti. Ciò che emerge è un ciclo di “mobilitazioni” di breve durata che non lasciano memoria politica e non costruiscono nulla per il futuro.

Questo non è un aspetto secondario. È un elemento centrale della crisi attuale. L’individualismo mina qualsiasi sforzo per costruire basi di massa o sostenere la lotta. (fine Parte 1).