Le fiamme che hanno avvolto i mitra ieri mattina nella valle montuosa di Jasana, nel nord dell’Iraq, hanno illuminato non solo una cerimonia simbolica, ma un momento decisivo per un intero popolo. Davanti agli occhi di funzionari turchi, iracheni e curdi, trenta combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – metà dei quali donne – hanno dato fuoco al proprio arsenale, suggellando con quel gesto la fine di una lotta armata durata oltre quarant’anni. Con le armi allineate in un grande calderone di metallo, i militanti, in uniformi beige, hanno consegnato simbolicamente un pezzo della propria identità e della loro esistenza.

Al centro della cerimonia Bese Hozat, comandante del PKK, che ha letto ad alta voce – prima in turco, poi in curdo – la dichiarazione con cui il movimento armato nato nel 1978 annunciava la sua trasformazione: «Distruggiamo volontariamente le nostre armi, in vostra presenza, come gesto di buona volontà e determinazione». Alle sue spalle i militanti più giovani, molti dei quali nati quando il conflitto era già in corso, e quelli dei funzionari dei servizi segreti turchi e iracheni, rappresentanti del governo regionale del Kurdistan, esponenti del partito filo-curdo turco DEM. Presenze che fino a pochi anni fa sarebbero state impensabili accanto a dirigenti del PKK.

Il processo di disarmo era stato annunciato pubblicamente già a maggio, dopo un appello di Abdullah Ocalan, storico leader del PKK detenuto dal 1999 nell’isola-prigione turca di Imrali. In un raro videomessaggio diffuso mercoledì scorso, Ocalan è tornato a parlare, invocando la creazione di una commissione parlamentare turca che supervisioni il disarmo e apra la strada a una pace duratura.

Un conflitto lungo quattro decenni

La nascita del PKK, nel 1978, fu la risposta di una generazione curda all’annichilimento delle istanze culturali e politiche nel sud-est della Turchia. La svolta armata arrivò nel 1984, con il primo attacco contro obiettivi militari turchi. Da allora, ondate di repressione, operazioni militari, controinsurrezioni e una diaspora curda sempre più politicizzata hanno accompagnato la storia del movimento. Negli ultimi anni, pressato militarmente, il PKK aveva arretrato oltreconfine, rifugiandosi in zone montuose nel nord dell’Iraq. È da lì che, paradossalmente, ora arriva il segnale più forte di cambiamento.

La portata di quanto accaduto ieri non si ferma al gesto simbolico del rogo delle armi. La fine delle ostilità tra il PKK e Ankara potrebbe incidere direttamente anche in Siria, dove milizie curde alleate del PKK, come le YPG, controllano ampie porzioni del nord-est del Paese. Gli Stati Uniti, che hanno sostenuto tali forze nella lotta all’ISIS, premono da mesi per una loro integrazione nella futura architettura di sicurezza siriana post- Bashar Assad, il presidente caduto a dicembre. Ankara, che ha sempre considerato le YPG un’estensione del PKK, potrebbe ora attenuare le proprie opposizioni.

Un processo fragile

Secondo fonti del governo turco, il disarmo rappresenta una «svolta irreversibile». I prossimi passi, dicono, includeranno la reintegrazione dei membri del PKK nella società turca, un’amnistia selettiva e programmi per la riconciliazione nelle province curde. Un processo che non sarà privo di ostacoli. All’interno del partito di governo e tra i vertici dell’apparato militare e giudiziario, rimane forte l’opposizione a qualsiasi concessione percepita come una “legittimazione” del PKK. Allo stesso tempo, esiste un’aspettativa crescente tra le comunità curde per riforme concrete: il riconoscimento della lingua curda nei programmi scolastici, la decentralizzazione amministrativa, la fine dello stato di emergenza de facto in molte province orientali.

Il partito DEM, che ha svolto un ruolo di mediazione nel processo e che ha ottenuto importanti successi alle recenti elezioni amministrative, ha già presentato una lista di richieste che includono la revisione delle leggi antiterrorismo e l’abolizione dei limiti alla partecipazione politica dei curdi. La loro posizione è chiara: la pace non potrà fondarsi soltanto sulla resa delle armi, ma dovrà costruirsi sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza.

Oltre il disarmo, una questione politica

Il disarmo del PKK segna un passaggio epocale, ma non rappresenta la conclusione della “questione curda” in Turchia. Come sottolineano numerosi osservatori, la vera sfida è politica. E la figura di Ocalan, pur detenuto da oltre venticinque anni, rimane centrale. La sua immagine, ben visibile alla cerimonia di Jasana, ha confermato che il suo ruolo simbolico non è venuto meno. Ma ora serve altro, soprattutto occorre verificare le reali intenzioni di Erdogan che riceve il “regalo” della fine della lotta armata del PKK offrendo in cambio garanzie vaghe su diritti fondamentali che i curdi reclamano da decenni. Uno dei pericoli è che il leader turco, liberatosi della spina nel fianco rappresentata dal PKK, usi il rafforzamento della sua leadership per portare avanti la sua politica ultranazionalista in forma più attenuata verso i curdi in patria e allo stesso tempo continui la linea del pugno di ferro contro gli altri curdi nella regione.