Venerdì 1° agosto l’ex presidente colombiano, Alvaro Uribe, dichiarato colpevole di frode processuale e corruzione in atto penale, è stato condannato a 12 anni, da scontare agli arresti domiciliari. La lettura della sentenza, di oltre 1.000 pagine, ha messo un primo punto fermo a una vicenda processuale in corso da 13 anni e che ha subito ogni tipo di ostacolo. La difesa presenterà appello.
Intanto, si è prodotta una sentenza storica, perché per la prima volta, in Colombia, un presidente viene condannato penalmente per reati comuni. Il caso iniziò nel 2012, quando Uribe denunciò l’allora deputato Iván Cepeda per aver presumibilmente manipolato testimonianze contro di lui. Nel 2018, la Corte Suprema non solo scartò l’indagine su Cepeda, ma ne aprì una contro Uribe per presunta manipolazione di testimoni.
Da allora, il caso ha attraversato vari momenti chiave: la detenzione domiciliare di Uribe nel 2020, le sue dimissioni dal Senato e il trasferimento del processo alla giustizia ordinaria, dove ha finalmente affrontato una fase di giudizio di 67 giorni, culminata con la sentenza di lunedì scorso. Ora, se la corte non tratta entro il 16 ottobre il ricorso d’appello, che la difesa di Uribe presenterà l’11 agosto, vi sarà la prescrizione.
E questa è sempre stata la strategia dell’ex presidente, a lungo l’uomo più potente della Colombia, che muove ancora molti interessi in un paese profondamente segnato da decenni di conflitto, disuguaglianza strutturale e dipendenza economica dagli Stati uniti.
Per voce del segretario di Stato, Marco Rubio, gli Usa hanno protestato per la sentenza, mentre il deputato della Florida, Mario Díaz-Balart, ha definito la sentenza una “farsa” e ha avvertito del “deterioramento della democrazia” in Colombia… Dello stesso tenore le dichiarazioni della rappresentante dell’estrema destra venezuelana, Maria Corina Machado, che ha espresso tutta la sua “solidarietà, fiducia e affetto” al “genuino alleato della democrazia e della libertà in Venezuela”.
L’ex presidente colombiano, Ivan Duque, il “figlioccio politico” di Uribe, ha affermato che un gruppo di ex presidenti, membri dei think tank neoliberisti, Idea e Libertà e Democrazia, hanno chiesto una supervisione internazionale a fronte delle “gravi irregolarità” commesse nel processo contro Uribe.
La sentenza avrà il suo peso nel complesso scenario politico del paese, già in fermento per le elezioni delle presidenziali del maggio 2026. Il presidente Gustavo Petro che, al pari di Lula in Brasile, cerca un nuovo consenso consolidando la sua figura a livello internazionale, non ha potuto compiere passi sostanziali verso un affrancamento pieno dalle tutele internazionali, data la pervasività degli interessi politico-militari nordamericani, e israeliani, presenti nel suo paese, che pullula di basi statunitensi. Nonostante la boccata di ossigeno determinata dal progressismo del governo e dal freno imposto alle ricette ultraliberiste dei governi precedenti, l’economia, fortemente legata all’estrazione di risorse naturali (petrolio, carbone, oro) e ai flussi finanziari internazionali, riproduce una divisione internazionale del lavoro che penalizza le classi subalterne.
Il ruolo storico degli Stati uniti, attraverso aiuti militari (come fu il Plan Colombia) e accordi commerciali, ha funzionato come via d’accesso a queste risorse e per imporre una politica della “sicurezza” a tutela degli interessi del capitale transnazionale, a scapito della sovranità e dello sviluppo autonomo.
Le impennate d’orgoglio di Petro, navigato uomo di sinistra che ha combattuto e poi governato le istituzioni colombiane, vanno perciò appena un po’ oltre la politica degli annunci: la Colombia potrebbe uscire dalla Nato, smentendo la scelta dei precedenti governi di destra; la Colombia ritira i suoi diplomatici da Israele (ma non rompe i contratti multimilionari con le sue imprese tecnologiche per la sicurezza); la Colombia inalbera la bandiera di Bolivar e rinnova il suo progetto di un Patria Grande per l’America latina, però Petro non lesina critiche alla vicina Venezuela, patria e continuatrice del progetto del Libertador, con la quale pure ha firmato un accordo per una Zona economica speciale binazionale. Eccetera. Di tanto in tanto, i discorsi pronunciati da Petro nel contesto internazionale in base a un’analisi precisa delle dinamiche in corso, lasciano senza dubbio il segno, com’è stato di recente in merito al genocidio in Palestina e al ruolo del regime sionista.
L’elezione di Gustavo Petro, il primo presidente di sinistra nella storia del paese, ha indubbiamente aperto una nuova fase: o meglio, più che altro una breccia nel sistema di potere esistente che, dall’assassinio del leader liberale Eliecer Gaitán (nell’aprile del 1948) ha sistematicamente chiuso con la violenza ogni spazio di agibilità politica per l’opposizione di sinistra. Attentati e complotti – veri o presunti – influenzano, però, tutt’ora la scena politica.
Lo si è visto con l’attacco del 7 giugno scorso al politico del Centro democratico, Miguel Uribe Turbay, senatore e pre-candidato alla presidenza nelle elezioni del 2026. Per l’attentato a Turbay, ancora in ospedale per le gravi ferite ricevute, i media “che contano” hanno gettato forti sospetti su Petro, riprendendo la campagna contro la sua figura di ex guerrigliero del gruppo armato M19.
Lo si è visto, però, anche con il nuovo scandalo su un audio filtrato, reso ampiamente pubblico da El País in merito a un presunto complotto per destituire Petro, presumibilmente orchestrato dall’ex Ministro degli Esteri e un tempo fidato alleato del presidente, Álvaro Leyva.
L’ottantaduenne Leyva si sarebbe incontrato segretamente all’inizio di quest’anno con operatori repubblicani negli Stati uniti, inclusi consulenti legati alla cerchia politica di Donald Trump, a cui avrebbe chiesto appoggio per la rimozione di Petro, anche con la partecipazione di cartelli criminali che gli Usa possono controllare, come il Clan del Golfo, la più grande organizzazione narcotrafficante della Colombia, responsabile di un’ondata di violenza, estorsioni e omicidi in tutto il paese.
Leyva ha anche affermato di contare sul sostegno di importanti leader imprenditoriali, ha messo in mezzo la ex presidente colombiana, Francia Marquez, e ha espressamente chiesto agli Usa di giocare un ruolo chiave nella “transizione”: uno schema ricorrente in America latina e specialmente in Colombia, che ha suscitato allarme nel campo progressista.
Il ritorno della destra più oscura – composta da narcos, paramilitari e settori dello Stato direttamente governati dagli Usa -, che in due decenni ha assassinato oltre 6.000 leader e militanti dell’Unión Patriotica, oltre a due suoi candidati presidenziali, potrebbe generare oggi una vendetta analoga. I governi precedenti si sono serviti del paramilitarismo e delle nuove forme di violenza come strumenti per reprimere le mobilitazioni sociali, difendere i territori strategici per l’estrazione e il narcotraffico, e destabilizzare qualsiasi tentativo di riforme strutturali che minacci lo status quo, con il pretesto della “sicurezza”.
Il governo di Gustavo Petro ha rappresentato un tentativo di riposizionare lo Stato come strumento per affrontare alcune di queste contraddizioni. Le proposte di riforma agraria, riforma sanitaria, riforma del lavoro e la ricerca di una “Paz Total” con i gruppi armati rimanenti (come l’ELN e le dissidenze delle FARC) hanno evidenziato lo sforzo per modificare le relazioni di potere e migliorare le condizioni di vita delle classi popolari.
Le riforme proposte si sono però scontrate con la resistenza delle classi dominanti, che controllano settori chiave dell’economia, i media tradizionali e influenzano profondamente l’apparato giudiziario e legislativo, e non permettono di affrontare i problemi alla radice.
La destra ha accusato Petro di aver inventato il complotto per alzare una cortina di fumo sulle difficoltà interne alla sua compagine in vista delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo.
Senza una riforma costituzionale (per ora improbabile), Petro non può più ripresentarsi, ma sta tessendo l’architrave di un nuovo scenario che impedisca il ritorno della destra più estrema: anche cooptando nell’alleanza di governo le parti più moderate.
Intanto, nonostante il silenzio dei media che hanno trascurato la notizia, in Colombia si è dato un passo altamente significativo: i principali partiti della sinistra hanno scelto di sciogliersi e di unirsi in una nuova formazione politica, con un chiaro indirizzo anticapitalista, ecologista, femminista, antirazzista e antimperialista. Il nuovo partito si chiama Pacto Historico (Colombia Puede) e, come ha ricordato Petro, dev’essere un partito-movimento. Per questo, con un lavoro di preparazione che dura da anni, si è costruito un sistema di norme, basato su pesi e contrappesi, per cercare di non scontentare nessuna delle componenti interne. Secondo le inchieste, la nuova formazione è favorita nei sondaggi elettorali.
Di fronte all’avanzare dell’estrema destra in America latina, il nuovo partito si misurerà intanto con i primi due momenti elettorali dei prossimi mesi: il primo sarà il 26 ottobre di quest’anno, quando le forze del Patto Storico si misureranno al loro interno per eleggere il candidato o la candidata alle presidenziali del maggio 2026 (secondo turno, il mese successivo). Alle primarie potrà partecipare tutta la cittadinanza.
Visto l’esito del processo contro Uribe, il senatore che ha iniziato la denuncia, Iván Cepeda, potrebbe ottenere l’appoggio delle varie anime che compongono il partito. Fra le candidate c’è anche la senatrice Maria José Pizarro, quella che ha posto la banda presidenziale a Petro quando è stato eletto. È figlia di Carlos Pizarro, il candidato dell’M19 dopo che il gruppo ebbe abbandonato la lotta armata, e che venne ucciso dalla narco-politica di governo mentre era in volo.
Il secondo momento si presenterà a marzo del prossimo anno, quando il candidato del Pacto si misurerà con un’altra elezione all’interno di un Fronte ampio in cui vi saranno anche i rappresentanti della destra più moderata (“il santismo” dell’ex presidente, Manuel Santos), i verdi e alcune figure difficili da catalogare, che pure hanno una loro cerchia che le appoggia, e hanno anche il sostegno di Petro. Il presidente guarda infatti allo schema delle democrazie europee: la sinistra da sola non può farcela, per cui deve ricorrere a figure più moderate della destra per arginare la destra estrema.
Uno schema che non convince la sinistra radicale e i movimenti popolari, che temono i potenti cavalli di troia ai proprio interno, di cui pure la Colombia, e lo stesso governo Petro, ha dovuto fare esperienza. Ma, intanto, la sinistra cerca di capitalizzare il significato della “sentenza del secolo” contro Uribe. Cepeda sta scaldando i motori, ma così sta facendo anche la camaleontica Claudia López, ex senatrice ed ex sindaca più gradita al campo moderato, che ha scelto di smarcarsi sia dal “petrismo” che dall’”uribismo”, e di candidarsi per il movimento cittadino “Imparables”. López ha già intascato il plauso della destra per le recenti dichiarazioni riguardo il Venezuela. Ha definito il governo Maduro “la principale minaccia per la sicurezza nazionale della Colombia”, e ha proposto un’alleanza con il Brasile, Panama, la Guyana e gli Stati uniti per “recuperare la libertà in Venezuela”.
Dal Caracas, le ha risposto ironicamente il ministro degli Interni, giustizia e pace, Diosdado Cabello durante il suo programma settimanale, Con el Mazo dando. Riferendosi agli 8 cadaveri chiusi nei sacchi della spazzatura, ritrovati in diversi punti della capitale colombiana e ritenuti frutto di un’altra feroce lotta fra bande criminali, Cabello ha detto: “È il colmo. Questa signora dà giudizi sul Venezuela che soffre da anni per la violenza importata dalla Colombia: da dove viene il sicariato e il narcotraffico? Da dove vengono i paramilitari?”, e ha invitato “la signora López” a non esprimere giudizi incongrui sul paese vicino, ma a rimuovere i sacchi della sua spazzatura. Pagine Esteri