Il piano di deportazione della popolazione palestinese di Gaza si sta avverando sotto gli occhi del mondo. Ma nessuna azione concreta è ancora stata intrapresa e sembra che nessun Paese abbia la forza (e la reale volontà) di fermare Israele. Il quale, impunito e senza freni, è diventato una minaccia globale. L’occupazione dell’intera Palestina storica è solo uno degli obiettivi israeliani e forse, al momento, non è neanche quello principale. Nel “nuovo Medioriente” disegnato da Benyamin Netanyahu, Tel Aviv interpreta il ruolo dello sceriffo armato che persegue i propri interessi attraverso le bombe e le esecuzioni sommarie, distruggendo (letteralmente) qualsiasi gruppo o stato minacci una reazione. È la stessa politica inaugurata da Donald Trump alla Casa Bianca, ma con meno chiacchiere e più fatti. Mentre Washington minaccia mezzo mondo, Israele occupa e attacca sei Paesi della regione. Il gioco delle parti non inganna (quasi) più quasi nessuno ed è chiaro chi sia, tra le due potenze nucleari, quella che detta la linea.
Trump si dimostra persino disposto a rinunciare a una delle più care tra le sue creature: gli Accordi di Abramo. Il programma di investimenti militari ed economici che lega Stati Uniti, Israele e Paesi del Golfo. Si tratta di tantissimi soldi, investimenti trilaterali in armi e nuove tecnologie. Certo, la maggior parte dei Paesi arabi ha dimostrato più di una volta di esser ben predisposta a sorvolare sull’occupazione dei territori palestinesi e in generale sulle politiche di Tel Aviv. I rapporti economici, seppur nascosti alla vista, non sono stati mai del tutto interrotti in questi due anni di stragi nella Striscia di Gaza. Tuttavia, è possibile che l’attacco israeliano al Qatar abbia cambiato qualcosa. Per lo meno nella percezione dei governi arabi e di quelli del Golfo. Non che prima si fidassero di Israele ma si fidavano del suo principale alleato, gli Stati Uniti. E credevano che i rapporti privilegiati con Washington bastassero a tenerli al sicuro dalla prepotenza dello stato ebraico. Ma si sbagliavano. Lo ha spiegato bene Trump e lo ha ripetuto il segretario di stato Marco Rubio: le scelte di Netanyahu hanno la priorità su qualsiasi altra cosa. Gli USA si limiteranno a ripartire da dove erano rimasti prima del bombardamento – fallito – che ha preso di mira i vertici di Hamas ospiti in Qatar. “Quello che è successo è successo” ha dichiarato Rubio. Un manifesto della politica di Trump quando si tratta di Israele.
Oggi a Doha i leader arabi e islamici si incontrano per discutere una risposta all’attacco della scorsa settimana. Potrebbero forse annunciare un freno alle collaborazioni economiche con Tel Aviv e una pausa degli Accordi di Abramo. Ma non sarebbe abbastanza per mettere a sicuro le capitali degli stati arabi. In fondo, Netanyahu ha già più volte minacciato di farlo ancora e ancora, in Qatar e dovunque ritenga che sia opportuno. La sovranità degli stati non ha alcuna importanza, così come non ne hanno gli accordi di cessate il fuoco. In Libano le esecuzioni non si sono mai fermate, i bombardamenti nemmeno, nonostante il piano di pace siglato con Hezbollah, che dal canto suo non ha mai risposto ai raid. In fondo, è stata proprio la diplomazia il reale obiettivo del bombardamento di Doha.
Per anni, Israele ha utilizzato i colloqui di pace con l’Autorità nazionale palestinese come una maschera, dietro cui nascondere il lento ma continuo e inesorabile avanzamento dell’occupazione. Ma oggi quella maschera è diventata un ostacolo. Perché questo non è più il tempo della lentezza. L’attuale amministrazione statunitense è la più connivente di sempre; l’Unione europea è debole e non produce misure svantaggiose per Tel Aviv; il ridimensionamento di Hezbollah in Libano e la caduta di Bashar al-Assad in Siria hanno aperto praterie per l’esercito. E a Gaza e in Cisgiordania Israele ha l’occasione di porre fine a qualsiasi idea di stato palestinese. È il tempo di accelerare i tempi. Anche se gli obiettivi militari non sono chiari, nonostante le perplessità dei vertici dell’esercito e della sicurezza interna, senza pensare al sanguinoso domani a cui la violenza e l’instabilità inevitabilmente porteranno.
È anche per questo che l’azione militare a Gaza City è e sarà estremamente spietata. Non c’è tempo per aspettare che la popolazione palestinese si faccia convincere dal suono delle bombe ad andar via. Ci vogliono massacri. Nelle case ma anche nelle tende, perché pure i profughi devono abbandonare la terra. Già alla fine di ottobre 2023 l’idea accarezzata da Tel Aviv era quella di spostare l’intera popolazione palestinese verso sud. Una settimana dopo l’altra, i militari hanno occupato, ucciso e sfollato. E poi distrutto per evitare il ritorno. Questa di Gaza City è la fase definitiva. Sono circa 300mila le persone che hanno lasciato la città sotto gli ordini di evacuazione e la distruzione di edifici residenziali, grattacieli e tende. Dall’11 agosto, l’Ufficio media di Gaza segnala la distruzione di 1.600 edifici residenziali multipiano e di 13.000 tende dei profughi, con 100.000 persone rimaste senza riparo. L’esercito sta svuotando interi quartieri di Gaza City e Jabalia, e oltre l’86% della Striscia si trova ora sotto ordine di evacuazione o rientra in aree militari. Ma Tel Aviv sperava in numeri ancora maggiori. La popolazione di Gaza City sta fuggendo più lentamente del previsto. E tra chi va via sempre più spesso c’è chi decide di ritornare. Perché, nonostante Israele la presenti come una valle incantata, ricca di possibilità e di servizi, al-Mawasi è una tendopoli invivibile. Senza spazio, acqua, cibo, servizi igienici, circa metà della popolazione della Striscia vive in condizioni umilianti e disperate. Non ci sono ripari, non c’è terra libera per piantare le tende, non esiste intimità, sicurezza, sanità per tutti. Si vive tra i rifiuti e le deiezioni, cercando ogni giorno il minimo che basti per sopravvivere.
Pur di favorire lo sfollamento di Gaza City, pare che Netanyahu sia disposto ora a far entrare le tende delle organizzazioni umanitarie che per mesi ha tenuto bloccate nei camion. L’esercito ha promesso addirittura di ricostruire l’ospedale Europeo di Khan Younis e di far entrare le forniture mediche che il suo assedio ha messo al bando insieme a tutto ciò che è necessario all’umana sopravvivenza. E poi di aprire altri due centri di “distribuzione cibo” gestiti dalla fallimentare e mortale Ghf. Così arriverebbero ad essere cinque i depositi alimentari, per una popolazione di più di 2milioni di persone.
Nonostante i proclami, ciò che ad oggi ricevono i palestinesi sono bombe e ordini di sfollamento. All’ospedale Nasser di Khan Younis i medici hanno denunciato in un giorno solo la morte di tre neonati prematuri, causata dalla mancanza di alimentazione specifica. Anche le gravidanze sempre più spesso terminano con un aborto. Nella cosiddetta “zona umanitaria” di Mawasi, almeno tre persone sono state uccise oggi da un attacco aereo. A ovest di Gaza City, le bombe hanno colpito una tenda, uccidendo almeno sette palestinesi, tra cui due gemellini di sei anni e un altro bambino. Dieci edifici dell’Unrwa (agenzia Onu per i profughi palestinesi) sono stati colpiti in quattro giorni. Tutti erano stati trasformati in rifugi per i profughi. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’esercito potrebbe portare avanti l’avanzata di terra anche con la popolazione ancora presente, che verrebbe così minacciata anche dal fuoco dei carri armati oltre a quello degli aerei e dei droni militari.