Le urne si aprono oggi in Siria per le prime elezioni parlamentari dalla caduta di Bashar al Assad, ma il voto libero e democratico invocato per lungo tempo dai siriani resta un miraggio. Il nuovo leader, Ahmed Al Sharaa, autoproclamatosi presidente dopo aver guidato per anni il gruppo qaedista Ha’yat Tahrir al Sham, ha deciso di inaugurare la fase politica post-Assad con un sistema elettorale tutt’altro che rappresentativo.

Il meccanismo scelto prevede che 140 dei 210 seggi dell’Assemblea Popolare siano attribuiti da comitati elettorali regionali, formati da rappresentanti locali selezionati attraverso consultazioni comunitarie poco trasparenti. I restanti 70 parlamentari saranno nominati direttamente dal presidente.

Alcune aree del paese non voteranno affatto. Il mese scorso Damasco ha escluso il governatorato druso di Sweida, teatro nei mesi estivi di violenti scontri tra clan beduini (aiutati apertamente dalle truppe governative) e la comunità drusa che hanno causato tra 1500 e 2000 vittime, secondo diverse fonti. Fuori dal processo elettorale restano anche Raqqa e Al-Hasakah, controllate dalle fazioni curde, con la motivazione di “problemi di sicurezza”. In queste province i seggi parlamentari resteranno vacanti fino a data da destinarsi.

Le autorità siriane sostengono che il modello indiretto è stato scelto per fronteggiare le sfide logistiche e demografiche di un paese devastato da oltre un decennio di conflitto, con milioni di sfollati e pèrofughi i all’estero e con un numero elevato di cittadini privi di documenti validi. Il Comitato Supremo per le Elezioni parla di un sistema pensato per ridurre i brogli e contenere l’influenza del denaro politico.

Ma attivisti politici e organizzazioni per i diritti umani accusano Al Sharaa di voler perpetuare il controllo diretto sulla scena politica e chiedono il monitoraggio indipendente del voto. Avvertono che la selezione dei 70 deputati da parte del presidente potrebbe dare vita a un parlamento obbediente al leader.

Al Sharaa, subito dopo la caduta di Assad, aveva promesso che sarebbero stati necessari almeno quattro anni per arrivare a un voto democratico. A marzo ha invece firmato una  controversa costituzione provvisoria che prevede un periodo di transizione di cinque anni e la creazione di un parlamento temporaneo in attesa di una carta fondamentale definitiva.

Il voto, che potrebbe protrarsi oltre sabato in caso di necessità, segna dunque l’inizio di una nuova fase politica in Siria, ma non elimina i dubbi sempre più forti sulla reale volontà di apertura democratica. L’ombra del passato, le tensioni etniche e confessionali, l’esclusione di intere regioni e la concentrazione di poteri nelle mani di Al Sharaa potrebbero lasciare il paese intrappolato in un sistema di autoritarismo rinnovato, più che avviato verso un’autentica transizione.