Testo e foto di Silvia Casadei, con la collaborazione di Baderkhan Ahmad
“Qui è il mio deserto e il mio silenzio.”
Friedrich Nietzsche probabilmente ripeterebbe queste parole osservando la distesa arida, sabbiosa e priva di alberi, che si estende inesorabile lungo la strada verso Al-Hol.
Quasi tutto il Rojava è un susseguirsi di terre desertiche, dove la polvere si mescola al caldo di ottobre: le temperature infatti raggiungono ancora i 30 gradi durante il giorno. Arriviamo al campo di Al-Hol verso le 10:30 del mattino, dopo circa due ore e mezza di macchina. Il campo prende il nome dalla cittadina adiacente, ma la supera di gran lunga in densità e dimensioni. Non esistono alberi né ombra, solo polvere e filo spinato che circondano l’intero perimetro, suddiviso in sezioni. È un campo fatto di tende, per lo più rattoppate e in condizioni di degrado.
Il campo si trova a circa 45 minuti di macchina dalla città di, Hesekê in direzione della frontiera con l’Iraq. Fu costruito nel 1991, a seguito della Prima Guerra del Golfo, per accogliere i numerosi profughi iracheni, data la vicinanza con il confine. Negli anni successivi ospitò sempre più rifugiati: prima quelli della Seconda Guerra del Golfo, poi, a partire dal 2014, dopo l’attacco dell’ISIS all’Iraq, molti rifugiati iracheni che si spostarono in Siria. Nel 2016, durante gli anni più bui della guerra siriana, il campo fu istituito dall’AANES (Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est) come centro di custodia e di detenzione di siriani e stranieri, arrivando nel 2019 a contenere circa 63.000 persone, di 55 nazionalità diverse.
Oggi Al-Hol ospita circa 26.000 individui, il 90% sono donne con i rispettivi figli, di cui 6.300 donne e bambini stranieri provenienti da diverse nazioni: tra i foreign il gruppo più numeroso è originario della Russia, ma anche da Turchia, Germania e Francia; mogli di combattenti dell’ISIS arrestate dopo la battaglia di Baghuz e Raqqa. Difficile poter dare una stima precisa delle nazionalità, poiché molte donne durante l’arresto si sono rifiutate di fornire le generalità, ma si stima che ad oggi oltre a siriani e iracheni vi siano all’interno donne di altre 42 nazionalità. Queste donne, insieme ai loro figli, sono detenute in un’area separata, nella quale non è possibile entrare per ragioni di sicurezza: il rischio è di essere attaccati con lanci di pietre sia dalle donne sia dai bambini. Molte di loro non erano soltanto mogli, ma parte integrante dell’organizzazione dello Stato Islamico e ancora oggi ne auspicano la rinascita. Perfino le SDF e le forze di sicurezza interne Asayish entrano in questa sezione solo a bordo di mezzi blindati.
Abbiamo parlato con la direttrice del campo, Gihan Hanan, che ricopre questo ruolo da circa tre anni. È lei a descrivere con lucidità e precisione la complessa realtà di Al-Hol.
Secondo Hanan, il problema principale è il “radical background” della maggioranza delle persone all’interno del campo. Durante il colloquio ci mostra alcuni video, ripresi nelle settimane precedenti, in cui un gruppo di bambini attacca le strutture delle ONG presenti con lanci di sassi e dando fuoco alle strutture interne. Molti di questi bambini non possono essere definiti adolescenti, data la loro giovanissima età, ma come ci dice Hanan, la loro pericolosità sta nel fatto che “ considerano il campo come un territorio dell’ISIS”. Il nodo centrale, spiega, resta la mentalità: un contesto sociale in cui anche i più piccoli crescono radicalizzati.
Siamo riusciti a entrare scortati nella parte di Al-Hol che ospita iracheni e siriani, percorrendo il mercato. Molte donne non hanno voluto essere riprese, ma hanno accettato di parlare. Anche loro sono state arrestate dalle forze di sicurezza curde, ma in alcuni casi cercano di nasconderlo, preferendo raccontare di essere arrivate autonomamente, fuggendo dalle zone di guerra. Quasi tutte le donne siriane in questa sezione dichiarano di voler tornare nelle proprie città, negano legami con l’ISIS e raccontano soprattutto la durezza della vita nel campo: la mancanza di servizi essenziali come acqua corrente ed elettricità. Molte provengono da Aleppo e Deir Er Zor e sono state arrestate dopo la battaglia di Baghuz, che segnò l’ultimo grande scontro contro l’ISIS in Siria nel 2019.
Hanan ci spiega che, dopo la caduta di Bashar al-Assad, nella sezione delle foreign fighters è cresciuto l’entusiasmo: molte detenute continuano a sperare che Al-Jolani possa un giorno liberarle. Allo stesso tempo, sono aumentati anche gli attacchi esterni contro il campo e le infiltrazioni dell’ISIS all’interno. La direttrice sottolinea come la combinazione tra la presenza ancora attiva dell’ISIS in Siria e la radicalizzazione di molte donne all’interno del campo, che sostengono e fomentano la ricostruzione dello Stato Islamico, renda la situazione altamente esplosiva.
Al-Hol è una struttura vecchia e difficile da controllare. Ogni giorno camion entrano ed escono per portare beni di prima necessità, ma attraverso questo flusso, racconta Hanan, l’ISIS riesce a introdurre denaro, cellulari e informazioni, facilitando così attacchi dall’esterno da parte dei miliziani. La sezione Annex, dove sono detenute le donne più radicalizzate, è probabilmente la più instabile: qui le detenute, quasi tutte foreign fighters, non hanno mai espresso il desiderio di lasciare il campo, in parte anche perché nei paesi di origine sarebbero condannate per terrorismo, ma aspettano il ritorno di Daesh. Crescono i propri figli nelle tende, impedendo loro di andare a scuola e creando così una nuova generazione di jihadisti. Molti di questi bambini sono nati all’interno di Al-Hol, molti non hanno mai visto un banco di scuola, ma sono cresciuti nell’idea e nell’educazione della sharia, imposta dalle madri.
Un altro grande problema, ci spiega Hanan, riguarda i rimpatri. Il governo curdo non ha giurisdizione legale sulle donne straniere detenute, in quanto l’AANES non è riconosciuta come Stato sovrano, né da Damasco né dalla comunità internazionale. Per tale ragione la responsabilità di riportare in patria e di processare i detenuti di Al-Hol, così come anche del campo di Roj, spetterebbe ai rispettivi governi di appartenenza.
Negli ultimi anni l’Iraq ha condotto operazioni di rimpatrio di molti dei propri cittadini, soprattutto donne e bambini; al contrario, molti Stati europei hanno agito con estrema lentezza o non sono intervenuti. Questa inattività ha creato un vuoto giuridico dove né i governi di origine, né l’istituzione di un tribunale internazionale, così come richiesto dall’ AANES, si stanno assumendo l’onere di giudicare queste donne per i crimini commessi. Il risultato è uno stallo legale che tiene migliaia di persone sospese in un limbo: non processate, non rimpatriate; ed è in questo vuoto che i bambini continuano a crescere senza percorsi educativi strutturati, restando sotto l’influenza di una mentalità radicale trasmessa dalle madri stesse.
Le donne radicalizzate, quelle che ancora oggi credono nella ricostruzione dello Stato Islamico, continuano a comportarsi come facevano durante il Califfato: il loro obiettivo, come ci dice la direttrice, è “fare figli che diventeranno il futuro di Daesh”. Con questa mentalità cercano di corrompere le guardie per poter avere nuovi figli oppure costringono le figlie a contrarre matrimoni con altri adolescenti del campo, acutizzando una situazione già al collasso.
Anche la responsabile per la sicurezza del campo di Roj, Shilan e la Direttrice del campo Hikmiya Ibrahim affermano i medesimi problemi. Il campo di Roj è una struttura più recente rispetto al campo di Al -Hol, costruita nel 2015; dall’anno successivo il campo ha iniziato ad avere una funzione detentiva per le donne affiliate all’ISIS. Oggi ospita circa duemilacinquecento persone: nella sezione tre, la più pericolosa, sono detenute 145 famiglie, tutte donne e bambini appartenenti allo stato islamico, tutte portate al campo dopo la battaglia di Baghuz.
Siamo entrati nella sezione tre del campo di Roj ed è proprio la nuova generazione nata nel campo a creare sempre maggiori problemi, come riferito anche dalla responsabile della sicurezza, che ci fa entrare ma ci avvisa che proprio i bambini potrebbero attaccarci con lanci di pietre. Al nostro ingresso qualcuno si copre il volto, qualcuno con un finto fucile costruito con del legno fa il gesto di spararci, nessuno si avvicina, nessuno vuole parlare. In questa sezione proprio quest’anno un bambino di nove anni è stato ucciso dal cugino di sedici, questo ha segnato il primo caso di omicidio all’interno di Roj. Il problema principale sia per Shilan, sia per la direttrice del campo è quello di separare i bambini dalle madri: il campo offre attività educative, gestite da alcune ONG, tra cui anche Save The Children, ma le attività terminano alle ore 15 del pomeriggio e anche i pochi bambini che vi partecipano, tornano poi nelle loro tende dove le madri impartiscono la loro personale apologia. L’aspetto educativo e di supporto psicologico per questi bambini e adolescenti, è un aspetto di fondamentale importanza per Hikmiya Ibrahim, ma di difficile gestione. Nella campagna di Qamishile sono stati creati dei centri di recupero per adolescenti, al fine di separarli dalle famiglie: sono centri chiusi in cui ai ragazzi viene dato supporto psicologico ed educativo, ma, come ci spiega Hikmiya Ibrahim, questi centri sono ad oggi pochi e tutti pieni.
Shilan riferisce di come, dopo la presa al potere di Al-Jolani, molte delle donne abbiano ripreso a portare il niqab integrale e abbiano deciso di interrompere le interviste con i media stranieri, sostenendo di voler rimanere in Siria sotto un nuovo califfato. La responsabile per la sicurezza riferisce, inoltre, di come dopo i massacri di Tartous siano girati video all’interno del campo che mostravano miliziani con i vessilli dell’ISIS massacrare gli alawaiti e di come le donne all’interno abbiano risposto con slogan di “speranza” e di “gioia”, affermando: “ questo è un messaggio per noi”.
Nel campo di Roj è attivo un piccolo servizio di Money Transfer, attraverso il quale le donne possono ricevere denaro dalle proprie famiglie e chiamare i familiari. Il controllo sui trasferimenti di denaro è estremamente rigido, anche se la tracciabilità delle somme non è sempre chiara. Shilan ci racconta che una parte consistente di questo denaro proviene dalla città di Idlib.
All’interno della sezione tre vi sono anche due donne italiane, con le quali abbiamo parlato. Una di loro si chiama Meriem Rehaily, è una ragazza italo marocchina, attualmente detenuta dal 2018 nel campo di Roj. Meriem ci chiede di non essere ripresa ma si presta con gentilezza a rispondere alle domande.
Meriem oggi ha quasi 29 anni, è arrivata in Siria nel 2015 per scelta, senza costrizioni: ci tiene a sottolineare “sono arrivata in Siria perché era qui che volevo venire”, dice di essersi informata attraverso i media, di aver fatto ricerche e di aver conosciuto la “bellezza” dello stato islamico tramite la loro propaganda. Meriem non è affatto pentita della sua scelta e non teme di nasconderlo, in più di un’occasione durante l’intervista sottolinea come la sua vita fosse bella durante il califfato, affermando con convinzione “non uscirei mai dallo Stato islamico”. Meriem abitava a Raqqa, con il marito, un combattente palestinese dell’ISIS, ad oggi disperso. È arrivata dalla Turchia e per i primi sei mesi è stata all’interno di una Singer House, o case per donne nubili, prima di trovare un marito. Alla fine del conflitto come molte altre donne affiliate all’ISIS si è spostata a Deir Er Zor e qui è stata arrestata dalle forze curde. Alla domanda di come fosse la sua vita durante il califfato, Meriem risponde con una tranquillità spiazzante, raccontando la daily routine di una ragazza normale, escludendo completamente dalla narrazione gli eventi della guerra: “ la maggior parte del tempo stavo a casa, ma se volevo potevo andare al mercato e il venerdì andavo al ristorante e al fiume con mio marito”. Parla del matrimonio con il marito come di un atto di amore e che per tali ragioni non si risposerebbe più nella sua vita.
Di fronte alla domanda se fosse a conoscenza degli omicidi, delle teste esposte in pubblica piazza a Raqqa, della guerra, risponde con la freddezza di chi non prova pentimento, affermando che lei era a conoscenza di tutto, ma afferma: “non abbiamo iniziato noi per primi, è stata la coalizione che ci ha bombardato” e “ alcuni di coloro che sono stati uccisi è perché in qualche modo se la sono cercata”. Per Meriem il ritorno ad una Stato Islamico è qualcosa di possibile, perché sostiene sia la promessa fatta da Dio ed è l’unico luogo dove lei vorrebbe vivere insieme ai suoi figli, Faruq di nove anni e Adnani di sette. Meriem non intende tornare in Italia, anche perché ad aspettarla ci sarebbe il carcere, essendo già stata condannata dallo stato italiano, l’unica cosa che si augura è la libertà per i propri figli.
L’altra detenuta italiana preferisce rimanere nell’anonimato e chiede che il suo nome non venga riportato. È arrivata in Siria nel 2015, anche lei attraverso la Turchia e poi a piedi attraverso il confine, si trova attualmente nel campo di Roj dal gennaio 2018, arrestata mentre cercava di scappare dal confine turco. Aveva 17 anni quando è arrivata nello Stato Islamico, riporta di aver ricevuto una richiesta di amicizia su facebook da parte di un ragazzo più grande di lei di dieci anni e di aver iniziato a scriversi con lui per circa sei mesi, di averlo poi incontrato in Turchia e di essere arrivata con lui in Siria, dove si sarebbero sposati. Anche S. parla con leggerezza di un matrimonio contratto per amore, esclude dal racconto le dinamiche della guerra, delle uccisioni, di cui sostiene di non aver mai visto nulla. S. viveva a Raqqa con il marito, ma ci dice che lui non era un combattente, (versione smentita dalle forze curde), morto nella città durante la battaglia del 2017. Ci racconta di essersi convertita all’Islam in Italia nel 2012 e descrive la sua vita nel Califfato come una vita tranquilla, nel rispetto della religione, nel modo di vestire e nelle abitudini quotidiane, come per esempio recarsi al mercato, affermando inoltre “nella nostra religione la donna è molto importante”.
S. vuole tornare in Italia e l’impressione è che le sue risposte, focalizzate su una “normalizzazione” degli eventi, per i quali potrebbe essere accusata di terrorismo, siano strumentali al suo desiderio di lasciare il campo. Anche S. ha due figli, una femmina e un maschio, il più giovane di quasi otto anni è stato partorito all’interno di Roj, li educa lei stessa, sostenendo di insegnargli l’inglese e l’italiano perché vorrebbe che il loro futuro fosse in Italia. Alla domanda su come immagina il proprio futuro, S. rimane vaga. Dice che il primo passo sarà il rimpatrio, ma l’unica certezza che esprime è che una volta in Italia vorrebbe continuare a vestirsi come in Siria.
Con la collaborazione di Baderkhan Ahmad