Per Andry Rajoelina, presidente del Madagascar dal 2019, la parabola politica si è chiusa là dove tutto era cominciato quindici anni fa: tra i militari e la piazza. Dopo due settimane di proteste popolari e di crescente dissenso all’interno delle forze armate, il capo dello stato è stato ufficialmente deposto da un intervento del Capsat, il Corpo d’amministrazione del personale e dei servizi tecnici, che nei giorni scorsi aveva scelto di non aprire più il fuoco contro i manifestanti e di unirsi a loro. Il 14 ottobre i soldati sono entrati nel palazzo presidenziale di Antananarivo, ormai vuoto: Rajoelina aveva lasciato l’isola due giorni prima, secondo Radio France Internationale, con l’aiuto di settori delle forze francesi e un tacito accordo con Emmanuel Macron, non confermato però dall’Eliseo.

Gli ultimi tentativi del presidente di mantenere un’apparenza di legittimità sono naufragati in poche ore. Dalla località sconosciuta in cui si trovava, Rajoelina ha ordinato via Facebook lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, proprio mentre i deputati si accingevano a votare la sua messa in stato d’accusa per abbandono dell’incarico. I parlamentari hanno approvato l’impeachment con 130 voti a favore e un solo astenuto, mentre dall’ufficio della presidenza continuavano a partire comunicati surreali che parlavano di un capo dello stato “pienamente in carica”.

Il vuoto di potere è stato immediatamente colmato dai militari. Dalla piazza 13 maggio, epicentro delle proteste, il colonnello Michael Randrianirina ha annunciato la sospensione della Costituzione del 2010, del Senato, dell’Alta corte costituzionale, della commissione elettorale e di tutte le istituzioni chiave, fatta eccezione per l’Assemblea nazionale. Un Consiglio di difesa nazionale della transizione, guidato dallo stesso Randrianirina, avrà il compito di gestire la fase di transizione e di organizzare elezioni entro 60 giorni, anche se i vertici del Capsat hanno già parlato di un periodo che potrebbe durare fino a due anni e culminare in un referendum costituzionale.

Il ruolo del Capsat non è una novità nella storia politica del Madagascar. È lo stesso reparto che nel 2009 rovesciò l’allora presidente Marc Ravalomanana e portò al potere proprio il giovane Rajoelina, ex dj e sindaco di Antananarivo. Quindici anni dopo, il cerchio si chiude con lo stesso corpo militare che pone fine al suo dominio, in un paese che resta fragile e diviso.

Le proteste che hanno travolto il presidente sono iniziate il 25 settembre, convocate da tre consiglieri comunali dell’opposizione per denunciare i continui blackout e la mancanza d’acqua. In pochi giorni sono diventate un movimento nazionale, trainato da giovani della “generazione Z”, che si sono riconosciuti nel collettivo Gen Z Mada. Privi di una leadership formale, hanno usato i social media per mobilitare il paese, adottando simboli ispirati al manga One Piece e collegandosi idealmente ad altre proteste giovanili in Asia.

Dietro la facciata generazionale, però, si muovevano spinte più profonde. La GenZ Mada ha dato voce a un malcontento trasversale, che coinvolge sindacati, organizzazioni civiche e settori della borghesia urbana, stanchi di corruzione e nepotismo. Le richieste andavano ben oltre la crisi energetica, chiedendo la fine del sistema di potere costruito da Rajoelina e dal suo alleato Mamy Ravatomanga, potente uomo d’affari accusato di monopolizzare le risorse del paese.

Il presidente ha reagito con una serie di mosse disperate. Prima ha rimosso il ministro dell’energia e poi sciolto il governo. In seguito ha nominato primo ministro un militare, il generale Ruphin Fortunat Zafisambo, nel tentativo di contenere la protesta con una svolta autoritaria. Ma il risultato è stato opposto: l’esercito si è spaccato, e una parte consistente si è schierata con la popolazione. Anche il tentativo di organizzare una “giornata di dialogo nazionale” è fallito, boicottato dai movimenti.

Quando il presidente ha denunciato un presunto complotto per ucciderlo, smentito dagli stessi militari, la sua caduta era già scritta. Le immagini che arrivano oggi da Antananarivo mostrano una capitale in festa ma anche attraversata da timori. Alcuni celebrano la fine di un’era di corruzione e impunità; altri temono che la transizione si trasformi in un regime militare come quelli che si sono moltiplicati nel Sahel negli ultimi anni.