Boluarte non c’è più, cambia il presidente del Perù, e ricominciano i morti in piazza. Come dopo l’arresto di Castillo e l’inizio del governo di Dina Boluarte è la repressione a tenere in sella chi si siede sulla poltrona presidenziale. José Jerí, considerato vicino all’esercito, pare aver confermato la sua nomea e allargato le preoccupazioni della popolazione. Nel profondo del popolo peruviano convive la gioia per la fine del governo Boluarte, la paura che Jerí decida una svolta autoritaria, e la frustrazione, per l’ennesima volta, di non aver strappato ciò che si voleva: elezioni anticipate. E così l’altro giorno decine di migliaia di persone sono tornate in piazza, in una protesta che ha attraversato Lima e numerose regioni del paese, mobilitandosi contro il nuovo esecutivo e chiedendo risposte concrete.

La protesta è iniziata in gran parte come una mobilitazione giovanile, spontanea e frammentata, alimentata da hashtag, video, appelli lanciati sui social e da un diffuso senso di stanchezza verso la corruzione e la precarietà democratica. A Lima la folla ha cercato di dirigersi verso il Congresso, simbolo di un potere percepito come complice del disastro politico. Le forze dell’ordine hanno risposto come piace fare: con gas lacrimogeni, cariche a cavallo, proiettili di gomma e manganelli. In molte zone del centro si sono viste barricate improvvisate e corse disperse, mentre in altre città – da Arequipa a Cusco, fino a Puno – la protesta assumeva toni di resistenza comunitaria, con assemblee e presidi davanti ai municipi.

A dare la spinta alla nuova ondata di mobilitazione sono ancora i giovani e le giovani, la cosiddetta Generazione Z, che negli ultimi mesi è diventata il cuore del dissenso peruviano, e non solo. In mezzo alla nebbia dei lacrimogeni, ancora una volta, è tornata a sventolare la bandiera pirata dell’anime One Piece, divenuta simbolo della rivolta giovanile mondiale.

Il governo ha tentato una mossa preventiva, convocando una “mesa de diálogo” per il 14 ottobre, invitando autorità regionali, accademici, organizzazioni sociali e studenti. Doveva essere un gesto di apertura, ma è apparso piuttosto come una strategia di decompressione politica, un modo per guadagnare tempo e frammentare la protesta. Intanto Jerí ha consolidato il suo governo nominando come primo ministro Ernesto Álvarez, ex presidente della Corte Costituzionale e figura vicina ai settori più conservatori. I primi atti del nuovo esecutivo – tra retorica di ordine e repressione in piazza – hanno mostrato la continuità con il modello Boluarte, più che una sua rottura.

La sera del 15 ottobre, mentre la manifestazione principale attraversava il centro di Lima, la protesta ha assunto il volto tragico che il Perù conosce fin troppo bene. Eduardo Mauricio Ruiz Sanz, 32 anni, artista di strada e rapper conosciuto come Trvko, è stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco al torace. Le prime ore sono state di confusione: testimoni parlavano di un agente in borghese che avrebbe sparato verso la folla, mentre la polizia, in un primo momento, parlava di “legittima difesa”. Poi, la svolta: la Polizia Nazionale del Perù ha ammesso la responsabilità diretta di un proprio agente. A confermarlo è stato il comandante generale Óscar Arriola, indicando il suboficial di terza Luis Magallanes, appartenente alla Direzione di Investigazione Criminale (Dirincri), come colui che ha esploso il colpo mortale. Magallanes è stato posto in stato di detenzione, e la stessa polizia ha annunciato l’apertura di procedimenti disciplinari e penali.

La conferma ufficiale segna un punto di non ritorno. Non si tratta più di un eccesso isolato, ma della prova che la repressione è strutturale, incorporata nei meccanismi dello Stato e nelle sue catene di comando. I video diffusi dai manifestanti mostrano agenti in borghese armati, operanti dentro la folla senza alcuna identificazione visibile. Le autorità hanno parlato di “infiltrati” e di “provocatori”, ma a cadere è stato un artista che fino a poco prima stava documentando la marcia. Sul luogo restano i segni della violenza: bossoli, tracce di sangue, cellulari distrutti, zaini e cartelli abbandonati nella fuga. La famiglia di Trvko e diverse organizzazioni per i diritti umani chiedono ora un’inchiesta indipendente e trasparente, temendo che l’ammissione della PNP si trasformi presto in un tentativo di chiusura simbolica, utile solo a contenere la rabbia popolare.

Questa morte non è un fatto isolato. È la continuazione di un ciclo di repressione che dal dicembre 2022 ha segnato la vita politica peruviana, lasciando decine di vittime e un’eredità di impunità. Ogni volta che il paese prova a respirare, il potere stringe la morsa. Come osservano diversi analisti, il limite strutturale del regime peruviano non è la crisi istituzionale, ma la sua incapacità di legittimarsi senza ricorrere alla violenza. Cambiano i presidenti, si alternano i ministri, ma il sistema resta identico: centralizzato, militarizzato, incapace di ascoltare.

Oggi, mentre Jerí parla di ordine e stabilità, la strada racconta un’altra verità. Chi scende in piazza non chiede solo le dimissioni di un presidente, ma la fine di un ciclo di autoritarismo che si traveste da transizione. Ogni proiettile sparato contro un manifestante, ogni lacrimogeno lanciato contro un volto scoperto, è il segno di una democrazia che non riesce a respirare. Finché il Perù non romperà il legame tra potere e violenza, tra Stato e impunità, e finchè il potere non ascolterà ciò che la popolazione chiede da anni, le elezioni anticipate, il sangue rischia di continuare ad essere l’inchiostro con cui il potere vuole imporre la la sua storia. Pagine Esteri