La foto è di Gage Skidmore
Il crescente uso della forza militare da parte di Washington nel Sud America si conferma sempre più una strategia politica mascherata da lotta al narcotraffico. Le parole del presidente Donald Trump, pronunciate ieri alla Casa Bianca, non lasciano spazio a equivoci: «Non penso che chiederemo necessariamente una dichiarazione di guerra. Credo che uccideremo solo le persone che introducono droga nel nostro Paese. OK? Le uccideremo», ha detto ai giornalisti, scandendo una linea che trasferisce sul piano militare un problema che fino a ieri veniva gestito prevalentemente dalle forze di polizia e dalla Guardia Costiera.
Nei primi giorni di settembre ha dichiarato di avere colpito più navi e battelli sospettati di narco-traffico; dall’inizio della campagna i morti si contano ormai in decine. Il Pentagono fornisce informazioni frammentarie, limitandosi a confermare l’azione ma non a mostrare prove pubbliche che colleghino sempre i bersagli ai cartelli.
A rafforzare il carattere di pressione strategica, e non solo di contrasto al traffico, c’è la natura della forza schierata: cacciatorpediniere lanciamissili, caccia F-35, un sottomarino a propulsione nucleare e migliaia di truppe poste in posizione avanzata. Secondo i resoconti, l’operazione ha comportato lo spostamento di asset navali e aerei e l’impiego di una componente terrestre valutata in alcune migliaia di militari, uno schieramento che oltrepassa abbondantemente le necessità tipiche di un’operazione di polizia marittima.
Il contrasto tra gli obiettivi dichiarati e gli strumenti effettivamente impiegati è al centro delle critiche di esperti e osservatori. Il traffico di fentanyl che preoccupa gli Stati Uniti percorre per la gran parte rotte terrestri e passa dalla produzione e dal transito in Messico; un uso massiccio di portaerei, sottomarini e missili nel Caribe appare a dir poco sproporzionato rispetto al problema logistico reale. Piuttosto, la campagna appare mirata a esercitare una pressione politica sul Venezuela.
La risposta ufficiale di Caracas è stata immediata. Il presidente Nicolás Maduro, intervenendo in un comizio, ha avvertito che qualunque intervento statunitense scatenerebbe una mobilitazione popolare e che «la classe operaia si solleverebbe; verrebbe dichiarato uno sciopero insurrezionale generale nelle strade finché il potere non verrà riconquistato», aggiungendo che «milioni di uomini e donne armati di fucili marcerebbero in tutto il Paese».
La gestione pratica degli episodi solleva ulteriori interrogativi legali e politici. La scorsa settimana due presunti narcotrafficanti sono sopravvissuti a un attacco statunitense nel Caribe; sono stati soccorsi e imbarcati su una nave da guerra della Marina, per poi essere rimpatriati in Colombia ed Ecuador. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha difeso la scelta, paragonandola alle procedure adottate sui campi di battaglia in Iraq e Afghanistan e sottolineando che in quei conflitti la stragrande maggioranza dei catturati era stata consegnata alle autorità locali. Le analogie tra teatri di guerra e operazioni nel mare dei Caraibi, però, non sono neutre: convertono cittadini e sospettati in «obiettivi militari», ridefinendo i confini tra diritto penale internazionale, uso della forza e responsabilità di uno Stato sovrano.
Il quadro strategico suggerisce che gli obiettivi di Washington non siano in alcun modo di ordine giudiziario. Colpire rotte marittime indica la volontà di colpire Stati ritenuti nemici. Se questo è l’intento, allora la lotta al narcotraffico diventa lo strumento con cui perseguire una trasformazione politica che fino a ieri era affidata dagli USA ad altre leve: sanzioni, diplomazia parallela e sostegno ad opposizioni interne. Marchiare l’azione come lotta alla droga serve evidentemente a costruire consenso interno e a ridurre l’opposizione internazionale.














