Pagine Esteri – Nel continente americano – dalla Groenlandia a Panama, dal Venezuela alla Colombia – Donald Trump sta applicando una versione quanto mai esasperata e brutale della “dottrina Monroe”.
Ma è anche verso il continente africano che si allungano ora le minacce di quello che a dar retta a molti analisti – e a quanto in candidato repubblicano aveva promesso ai suoi elettori – doveva essere un presidente isolazionista.
Sabato sera infatti l’inquilino della Casa Bianca ha informato il paese di aver chiesto al Dipartimento della Difesa di prepararsi a realizzare un’azione militare “rapida” in Nigeria se il governo del paese africano – in attesa di essere ammesso tra i Brics – non riuscirà a fermare le uccisioni di cristiani.
In un post su Truth – il social aperto da Trump dopo la sua cacciata da Twitter – il presidente ha avvisato che gli Stati Uniti interromperanno immediatamente tutti gli aiuti e l’assistenza alla Nigeria e che in caso di intervento militare agirebbero “a tutto spiano” per annientare «i terroristi islamici che stanno commettendo queste orribili atrocità».
Trump ha definito la Nigeria – il paese più popoloso e tra i principali produttori di petrolio del continente – «un paese caduto in disgrazia» ed ha invitato il governo ad agire rapidamente. «Se attaccheremo lo faremo in modo rapido e violento, proprio come i terroristi che attaccano i nostri AMATI cristiani» ha scritto.
Dopo il presidente è stato Pete Hegseth, il Segretario alla Difesa statunitense, a confermare che «Il Dipartimento della Guerra si sta preparando all’azione. O il governo nigeriano protegge i cristiani, oppure uccideremo i terroristi islamici che stanno commettendo queste orribili atrocità».
Le bellicose dichiarazioni sono giunte dopo che venerdì Washington aveva già inserito la Nigeria nella lista dei paesi con più alto rischio di violazione della libertà di religione, insieme a Cina, Myanmar, Corea del Nord, Russia e Pakistan. Trump lo aveva già fatto durante il suo primo mandato, ma la Nigeria era stata poi rimossa dalla lista da Joe Biden nel 2021.
Sabato mattina la mossa aveva già spinto il presidente nigeriano Bola Ahmed Tinubu a respingere le accuse di intolleranza religiosa. Il governo nigeriano è stato colto di sorpresa dalle minacce provenienti da quello che reputa il suo principale alleato a livello internazionale. Domenica l’esecutivo africano ha dichiarato che accoglierà con favore l’aiuto degli Stati Uniti nella lotta contro gli insorti islamici, a patto però che venga rispettata la sua integrità territoriale.
Ma domenica Trump ha rincarato la dose, dicendo ad alcuni giornalisti che l’esercito americano potrebbe non solo effettuare degli attacchi aerei contro i miliziani islamici ma addirittura schierare un certo numero di truppe in Nigeria.
D’altronde negli ultimi anni la presenza militare statunitense in Africa è diminuita sensibilmente, dopo che lo scorso anno circa mille soldati si sono dovuti ritirare dal Niger. Comunque circa 5 mila militari di Washington rimangono nella grande base presente a Gibuti, nel Corno d’Africa.
È evidente che le stragi compiute dai fondamentalisti islamici di Boko Haram nel nord-est della Nigeria rappresentano un pretesto. La Nigeria, che conta circa 200 milioni di abitanti appartenenti a 200 diversi gruppi etnici che praticano il cristianesimo, l’islam e diverse religioni tradizionali, ha una storia di pacifica convivenza, solo in parte intaccata dagli attacchi alle popolazioni cristiane da parte di gruppi islamisti ma anche, all’opposto, dalle persecuzioni dei musulmani da parte di gruppi cristiani. A ben guardare, inoltre, la maggior parte delle vittime di Boko Haram sono musulmane e comunque negli ultimi anni le attività di questa milizia si sono fatte più sporadiche.
Nella Nigeria centrale si sono verificati frequenti scontri tra pastori per lo più musulmani e agricoltori per lo più cristiani per l’accesso all’acqua e ai pascoli, ma in Nigeria «non esiste nessun genocidio di cristiani» ha detto Daniel Bwala, portavoce del presidente Bola Tinubu, che nelle scorse settimane ha nominato un generale cristiano a capo delle forze militari del paese.
A spingere per un intervento in Nigeria sono alcuni ambienti della destra radicale e vari deputati repubblicani che fanno riferimento soprattutto all’arcipelago evangelista, sempre più attivo nel chiedere all’amministrazione Trump un intervento a difesa dei cristiani nel mondo, oltre che una difesa incondizionata dell’operato del governo israeliano.

Non è solo sulla Nigeria, però, che si appuntano le attenzioni dell’amministrazione Trump. Venerdì infatti il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione – la 2797 – sostenuta dagli Stati Uniti che rinnova la missione dell’ONU (Minurso) nel Sahara Occidentale avallando però per la prima volta le pretese del Marocco sui territori occupati da Rabat nel 1975 dopo il ritiro dei colonizzatori spagnoli.
Con 11 voti a favore la risoluzione afferma che «un’autentica autonomia rappresenta la soluzione più praticabile per risolvere il conflitto tra il territorio e il Marocco».
Le rimostranze di Russia e Cina hanno fatto pensare che i due paesi volessero esercitare il diritto di veto e bloccare la risoluzione, da loro definita “troppo sbilanciata” a favore del Marocco, ma alla fine i due paesi si sono astenuti insieme al Pakistan permettendone l’approvazione dopo aver ottenuto dei piccoli cambiamenti del testo. L’ambasciatore algerino non ha invece partecipato alla votazione.
Si tratta di una formulazione che per la prima volta esclude il referendum per l’autodeterminazione e l’indipendenza dai possibili esiti del negoziato a vantaggio di un riconoscimento implicito dell’annessione della regione al Marocco che in cambio concederebbe una non meglio precisata autonomia, come previsto da un piano che Rabat ha presentato nel lontano 2007.
Per 34 anni, ogni ottobre, il Consiglio di Sicurezza ha rinnovato il mandato alla missione militare dei Caschi Blu che tra i loro obiettivi avevano anche quello di sovrintendere alla celebrazione di un referendum per l’autodeterminazione delle popolazioni occupate. Ora nella risoluzione questo obiettivo è scomparso, sostituito da quello di perseguire “una soluzione giusta, duratura e reciprocamente accettabile”.
La bozza di risoluzione presentata dagli Stati Uniti ha ovviamente suscitato l’indignazione del Fronte Polisario (il movimento che si batte per la liberazione del Sahara Occidentale), che ha definito il testo «una deviazione molto pericolosa e senza precedenti dai principi del diritto internazionale» ed ha dichiarato che «non parteciperà ad alcun processo di pace» che sia basato sulla posizione di Washington.
Nei campi profughi di Tindouf e di altre località nel deserto, che ospitano in condizioni che l’Unhcr definisce “preoccupanti” decine di migliaia di profughi saharawi, si sono svolte per tutta la settimana manifestazioni di massa contro il piano Trump.
«Dopo 50 anni di sacrifici, apriamo un nuovo e vittorioso capitolo nel processo di definizione dell’identità marocchina del Sahara, con l’obiettivo di porre fine definitivamente a questo conflitto artificiale attraverso una soluzione consensuale basata sull’Iniziativa per l’autonomia» ha invece esultato Mohammed VI. Nel suo discorso, il re del Marocco ha anche esortato il presidente dell’Algeria (il principale alleato del Fronte Polisario in chiave anti-marocchina) Abdelmadjid Tebboune, ad avviare un dialogo «fraterno e sincero» per ricomporre la rottura diplomatica del 2021 tra i due paesi.
Il passo di Washington è il frutto delle pressioni del governo marocchino nei confronti dell’amministrazione Trump e del resto dei componenti del Consiglio di Sicurezza, convinti alla fine a seppellire definitivamente il diritto delle popolazioni saharawi all’indipendenza. In cambio, il Marocco ha offerto ai suoi alleati un accesso privilegiato allo sfruttamento dei mari e del sottosuolo della regione annessa da Rabat, ricca di pesce, fosfati e terre rare.
Il “Piano Trump” prevede sostanziosi investimenti nei territori occupati da Rabat, al fine di trasformare il Sahara occidentale in un hub di corridoi logistici ed energetici tra l’Atlantico e il Sahel, realizzando porti, dorsali digitali, miniere e gasdotti attirando anche capitali europei e arabi.
Da parte sua, Donald Trump potrà vantare di aver mediato l’ennesima “pace”; nel suo intervento alle Nazioni Unite, l’ambasciatore statunitense Mike Waltz ha di fatto già celebrato l’esito del voto affermando che grazie agli sforzi di Washington nella regione “sta per iniziare una nuova era di pace”.
Il riconoscimento delle pretese marocchine sul Sahara Occidentale è arrivato dopo che il paese nordafricano ha normalizzato le relazioni con Israele nell’ambito degli accordi di Abramo nel dicembre del 2020. Da quel momento non solo Rabat ha rafforzato le relazioni economiche e militari con Washington ma ha avviato una crescente cooperazione militare ed economica con Israele.
Intanto al Congresso degli Stati Uniti è stato depositato un progetto di legge che se approvato designerebbe il Fronte Polisario – che governa un terzo del Sahara Occidentale, il cui governo in esilio è riconosciuto e rappresentato presso l’Unione Africana – come organizzazione terrorista. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, si occupa di geopolitica e movimenti sociali. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria.
						
							
			
			
			
			













