Di Emmanuel Haddad – L’Orient-Le-Jour
(traduzione di Federica Riccardi)
Domenica 26 ottobre, ore 1:00. Un’automobile con i fari accesi svolta in un vicolo del campo profughi palestinese di Shatila, a sud-ovest di Beirut. Il conducente, Elio Abou Hanna, uno studente libanese di 24 anni, viene ucciso quando i colpi di arma da fuoco provenienti da un posto di blocco mobile gestito dalle forze di sicurezza palestinesi perforano il finestrino della sua auto.
La pattuglia era stata dispiegata in collaborazione con l’esercito libanese nell’ambito delle recenti operazioni antidroga e di un piano governativo per confiscare le armi illegali.
La condanna è stata immediata e unanime sia da parte libanese che palestinese. Parlando con L’Orient-Le-Jour, il Comitato di Sicurezza Palestinese in Libano ha definito l’accaduto un “tragico errore”. Le Forze di Sicurezza Nazionale Palestinese, guidate da Fatah, hanno consegnato all’esercito libanese cinque sospetti – un libanese e quattro siriani – il 29 ottobre.
“Altri tre sospetti devono ancora essere consegnati”, ha specificato una fonte dell’esercito due giorni dopo. La rapidità e la divulgazione degli arresti dimostrano la determinazione di entrambe le parti a chiudere rapidamente il caso, date le circostanze oscure e le potenziali ed esplosive ripercussioni politiche. Sui social media, le dichiarazioni di condanna sono state intervallate da retorica anti-palestinese che ricorda l’era della guerra civile e che ha rischiato di trasformare una tragica morte in una granata viva.
Otto morti per droga solo quest’anno a Shatila
“La campagna di odio dopo la morte di Elio ha preso di mira i palestinesi, non le condizioni in cui vivono a Shatila”, lamenta Khaled Ibade, capo della sicurezza di Fatah a Beirut.
La mattina del 28 ottobre, seduto in una piccola piazza del campo, Mahmoud* guarda alternativamente i bambini che rovistano tra i rifiuti di plastica e lo schermo del suo telefono, mentre scorre i messaggi di odio scritti dai libanesi e ricondivisi dai residenti del campo su un gruppo WhatsApp locale.
Mahmoud, nato e cresciuto nel campo, capisce la rabbia, ma dice di essere ferito dal linguaggio duro. Continua a scorrere e si imbatte in un altro video che mostra una donna distesa in una pozza di sangue. “È stata uccisa questa mattina in un luogo di spaccio nel campo”, a pochi passi da lì, dice senza mostrare alcun segno di sorpresa.
Il problema è profondo. Proprietà, lavoro, salute, istruzione: quali diritti hanno i rifugiati palestinesi in Libano?
La morte di Elio viene presto oscurata da quella di una giovane donna libanese, tossicodipendente che, secondo Ali Fayad, capo della sicurezza di Fatah a Shatila, è stata uccisa da un trafficante di Baalbeck. Un altro cadavere legato alla droga. Una triste routine in questo campo di meno di un chilometro quadrato, dove sono ammassate circa 20.000 persone.
Simbolo vivente del diritto al ritorno dei palestinesi e luogo di solenne commemorazione del massacro del 1982, Shatila è diventata nel corso degli anni anche un importante centro di traffico di droga, sede di diversi punti vendita gestiti da spacciatori libanesi, palestinesi e siriani. Ogni giorno, clienti provenienti da Beirut e oltre vengono ad acquistare droga dal campo, mentre uomini in scooter la consegnano dal campo a diverse parti della capitale.
Questo commercio redditizio ma illegale lascia dietro di sé una scia di morti. Alla fine di giugno, due persone sono state uccise e cinque ferite in guerre tra spacciatori per il controllo del territorio. “Solo nel 2025, ci sono stati otto decessi legati alla droga a Shatila”, ha dichiarato Khaled il 30 ottobre. La presenza di questi punti vendita ha trasformato i vicoli in campi di battaglia, di violenza e dipendenza. “Quasi tutti fanno uso di droga”, dice Mahmoud, recitando i nomi delle pillole in vendita per strada con la stessa facilità con cui elenca i nomi degli spacciatori che le vendono. “Qui la violenza è costante. Basta dire una parola sbagliata e ti possono sparare”, deplora.
Una storia di violenza. Tre feriti in uno scontro armato tra trafficanti di droga nel campo di Shatila.
“Non vogliamo la droga”. Ma questa volta, l’omicidio della giovane donna libanese – trovata senza documenti – sembrava essere una morte di troppo. Sul gruppo WhatsApp, i messaggi vocali davano il tono: “Basta con gli spacciatori, dobbiamo porre fine alla loro presenza nel campo”.
Quel giorno alle 15:00 è stata indetta una manifestazione davanti alla moschea del campo. Lì, sotto una rete di cavi elettrici, Manar, con indosso una maglietta a fiori e i capelli raccolti in uno chignon, sfoga la sua rabbia: “Gli spacciatori e coloro che alimentano le divisioni tra libanesi e palestinesi sono tutti agenti [pagati da Israele]”.
Donne, uomini e bambini si sono riuniti sotto lo sguardo dei numerosi “martiri” del campo, i cui volti sono raffigurati su manifesti affissi sui muri fatiscenti. Ahmad* ricorda uno di loro, soprannominato Abou Wissam. “Ex capo della sicurezza del campo, è stato assassinato nel 2016 da sicari legati agli spacciatori”, racconta. L’uomo alto sottolinea che non è la prima volta che Shatila si ribella alla droga: «Nel 2017, i residenti hanno attaccato i luoghi di spaccio e i trafficanti sono stati costretti a fuggire. Ma sono tornati due settimane dopo e hanno ripreso la loro attività in modo ancora più massiccio di prima».
“Protestiamo spesso, ma senza alcun risultato. Quando l’esercito libanese è arrivato a settembre, è stato accolto a braccia aperte. Ma non ha portato a termine il lavoro: i luoghi di spaccio sono rimasti aperti e gli spacciatori sono tornati subito”, dice Mohammad Afif, uno dei manifestanti. Oltre alle morti, la droga danneggia la reputazione di Shatila, sostiene, aggiungendo: “L’eredità della resistenza in questo campo è il nostro orgoglio. Dietro questi spacciatori c’è il nemico sionista che lavora per distruggere la causa palestinese”.
“Non vogliamo la droga… gli spacciatori sono agenti [israeliani]”, gridano le donne mentre marciano con determinazione attraverso gli stretti vicoli. Improvvisamente, la marcia si ferma. “Questo è un posto dove si spaccia”, grida una donna, indicando un edificio in fondo a una strada senza uscita. Immediatamente, alcuni giovani salgono al piano superiore, ma uno di loro torna indietro con il volto pallido. “Hanno agitato i loro kalashnikov e ci hanno detto di andarcene”, dice, imitando il suono di un’arma carica.
“Dove sono le fazioni armate quando servono?”, chiede una donna, individuando uno dei loro membri in lontananza su uno scooter, con un’arma a tracolla. “Non abbiate paura di parlare! Le fazioni fanno parte del traffico e lasciano che siano le donne ad affrontarlo da sole”, interviene un’altra donna, mentre la marcia prosegue verso il prossimo punto di spaccio.
*Questi nomi sono pseudonimi.















