Pagine Esteri – Mentre proseguono i combattimenti tra l’esercito e le cosiddette “Forze di Supporto rapido” (RSF) e altre milizie in diverse zone del paese, le notizie che provengono dal Sudan sono sempre più terribili.

Un’organizzazione medica locale ha accusato le milizie di aver portato avanti un “tentativo disperato” di nascondere le prove delle uccisioni di massa nel Darfur bruciando i corpi delle vittime o seppellendoli in fosse comuni.
La “Sudan Doctors Network” ha dichiarato che i paramilitari stanno raccogliendo “centinaia di corpi” dalle strade di el-Fasher, la città della regione occidentale del Darfur conquistata dalle RSF il 26 ottobre. «Ciò che è accaduto a el-Fasher non è un episodio isolato, ma un altro capitolo di un vero e proprio genocidio perpetrato dalle Forze di Supporto Rapido» scrive l’associazione.

Si ritiene che molti residenti siano ancora intrappolati in alcune zone della città. Altre persone in fuga da el-Fasher verso il nord sarebbero morte, secondo Al Jazeera, «perché non avevano cibo né acqua, o perché avevano riportato ferite a causa degli spari».
Molti civili fuggiti da el-Fasher hanno raccontato agli operatori di “Medici senza frontiere” di essere stati «presi di mira a causa del colore della loro pelle» dai miliziani appartenenti per lo più alle componenti arabe o arabizzate della società sudanese.

Gli Zaghawa, il gruppo etnico dominante a el-Fasher, all’inizio sono rimasti neutrali, ma hanno deciso di combattere a fianco dell’esercito alla fine del 2023, dopo che le RSF hanno compiuto i primi massacri contro la tribù Masalit nella capitale del Darfur occidentale, el-Geneina, uccidendo 15.000 persone.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) stima che 82.000 dei 260.000 abitanti totali di el-Fasher siano fuggiti dopo che le RSF hanno conquistato l’ultima roccaforte dell’esercito sudanese nella regione, denunciando uccisioni di massa, stupri e torture.

Sono gli stessi video realizzati e diffusi da membri delle RSF a mostrare i crimini compiuti dalla milizia composta dai cosiddetti “Janjaweed” (letteralmente “demoni a cavallo”) che da decenni è impegnata in una brutale pulizia etnica ai danni delle popolazioni africane del Darfur e di altre regioni limitrofe.

Tra il 2003 e il 2008, si stima che i Janjaweed abbiano ucciso circa 300.000 persone e che altre 2,7 milioni siano state costrette a sfollare a causa delle violenze etniche. I massacri sono ripresi nell’aprile del 2023, dopo la rottura tra il presidente golpista Abdel Fattah al-Burhan (a capo dell’esercito) e le Forze di Supporto Rapido comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, che ha provocato l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Finora il conflitto ha provocato almeno 150 mila vittime, 13 milioni di sfollati e una gravissima emergenza umanitaria.


Turchia, Egitto e Arabia Saudita incrementano gli aiuti al governo
Nei giorni scorsi i comandi dell’esercito sudanese hanno respinto la proposta degli Stati Uniti di un cessate il fuoco, preparandosi a lanciare un’offensiva contro le RSF dopo che, grazie ad un ponte aereo, la Turchia ha rifornito le truppe di droni e sistemi di difesa aerea. Sostegno finanziario e militare è giunto al governo di Port Sudan (sede provvisoria del governo sudanese) anche dall’Arabia Saudita e dall’Egitto.

L’esercito al comando di al-Burhan avrebbe siglato un importante accordo con il Pakistan per la fornitura di armi finanziata da Riadh, che garantirebbe al Sudan un certo numero di motori per i caccia, sistemi di difesa aerea, missili terra-aria e droni da ricognizione e da bombardamento.

La “generosità” saudita, secondo alcune fonti, mirerebbe non solo a contenere l’espansione dei propri competitori regionali, ma anche a convincere il governo sudanese a rinunciare al sostegno iraniano e a impedire così a Teheran di rafforzare la sua influenza sulla sponda africana del Mar Rosso.

Da parte sua l’Egitto, che ha avviato un’inedita cooperazione con i rivali turchi, intenderebbe istituire una forza di comando congiunta con Port Sudan e i sauditi per impedire alle milizie di Dagalo di avvicinarsi ai propri confini meridionali, ora maggiormente presidiati e pattugliati dalle forze armate del Cairo.

La caduta di el-Fasher e la previsione di un imminente attacco su grande scala delle RSF per riprendersi Omdurman, città gemella a nord di Khartum, ha coinvolto i paesi che sostengono il “governo legittimo” sudanese ad aumentare i propri sforzi mentre le immagini dei miliziani che, supportati da mercenari provenienti da altri paesi, si dedicano a trucidare migliaia di persone indifese, hanno acceso i riflettori dei media internazionali sulla spesso dimenticata tragedia sudanese.

Forze di Supporto Rapido

Le responsabilità degli Emirati Arabi Uniti
Sul fronte opposto, è sempre più evidente che il rafforzamento delle RSF – che ha permesso alle milizie di lanciare negli ultimi mesi un’efficace offensiva – è conseguenza soprattutto del massiccio sostegno degli Emirati Arabi Uniti, che paradossalmente fanno parte della rosa di quattro paesi scelta nel 2023 dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana per tentare di mettere fine alla guerra civile

Sebbene Abu Dhabi continui a negare, ormai esiste un’ampia documentazione – tra immagini satellitari, dati di tracciamento di voli e navi, riprese video e prove sulla provenienza delle armi in uso alle milizie – che dimostrano il pieno coinvolgimento del piccolo ma potente stato. Le responsabilità emiratine emergono con sempre maggiore evidenza da numerosi rapporti delle Nazioni Unite, oltre che di varie organizzazioni internazionali ed istituti di ricerca.

Negli ultimi anni Abu Dhabi ha creato un network di soggetti politico-militari a carattere regionale – che spazia dalle Forze della Cintura di Sicurezza (Sbf) dello Yemen alle Forze Armate del Somaliland, dall’Esercito Nazionale Libico alle Forze di polizia marittima del Puntland in Somalia – sostenuto da un esteso arcipelago di reti commerciali, finanziarie e logistiche che amplificano il potere degli Emirati su una vasta area e lo rendono una potenza regionale sempre più influente, in competizione principalmente con il Qatar e la Turchia oltre che con gli altri attori attivi nell’Africa nord-orientale e in Medio Oriente.

I legami tra gli Emirati e le milizie di Dagalo risalgono al 2015 quando le RSF, con il consenso dell’allora dittatore Omar al Bashir, hanno inviato circa 40 mila combattenti in Yemen a sostegno della coalizione sunnita schierata dalle petromonarchie contro gli Houthi sciiti. Negli anni successivi gli Emirati ritirarono il sostegno e i finanziamenti al regime sudanese, ritenuto troppo vicino alla Fratellanza Musulmana che Abu Dhabi considera una minaccia ai propri interessi e al proprio modello, ma rafforzarono quello a Dagalo e alle sue milizie.

Dagalo, che ha accumulato un enorme patrimonio – stimato in 7 miliardi di dollari – detiene ingenti investimenti negli Emirati, principalmente in oro, che rappresenta una delle principali ricchezze del paese dopo che nel 2011, dopo decenni di guerra civile strisciante o aperta, Khartum ha perso il sud del paese. L’indipendenza del Sudan del Sud sottrasse a Khartum il 75% delle riserve di petrolio, aumentando la propria dipendenza da quelle aurifere, un terzo delle quali sono concentrate proprio nel Darfur.

Sin dai tempi della dittatura di al Bashir, caduta sotto l’onda delle proteste popolari nel 2019 e poi rimpiazzata da un governo golpista guidato da al Burhan, Dagalo e le sue RSF – così come l’ex “compagnia militare russa” Wagner, anche se la Russia dopo aver sostenuto inizialmente le milizie ribelli è passata poi dalla parte di Port Sudan – possono contare sul monopolio delle esportazioni illegali dell’oro del Darfur, inviato principalmente negli Emirati, divenuti uno dei principali hub internazionali del commercio del metallo prezioso. Anche il fratello minore del leader delle milizie, Algoney Dagalo, è a capo di ingenti attività economiche e fondiarie basate negli Emirati.

Attualmente l’oro rappresenta quasi il 50% delle esportazioni del Sudan e la compagnia statale Sudanese Mineral Resources Company ha dichiarato a febbraio che la produzione di metallo giallo nelle aree controllate dall’esercito regolare ha raggiunto le 74 tonnellate nel 2024, esportata per il 97% ad Abu Dhabi. Le esportazioni ufficiali rappresentano però solo una piccola frazione della produzione totale, che per il 90% – per un valore di circa 13,5 miliardi di dollari – viene contrabbandata attraverso rotte che attraversano Ciad, Egitto, Etiopia, Uganda e Sud Sudan prima di raggiungere gli Emirati.

In cambio del sostegno ricevuto, il petro-stato sunnita ha ottenuto dalle RSF la possibilità di proiettare il proprio potere economico e politico sul Mar Rosso e sull’Africa orientale. Inoltre la International Holding Company, la più grande società quotata in borsa degli Emirati Arabi Uniti, e la Jenaan Investment Group coltivano più di 50.000 ettari di terreni in Sudan, mentre la DP World, l’operatore portuale statale emiratino, ha esteso il controllo sulle coste del Sudan sul Mar Rosso, area strategica dove transita un terzo del traffico mondiale di container.

Utilizzando varie rotte che includono il porto di Bosaso, nella regione somala del Puntland, le basi nella Libia sudorientale sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, il Ciad, la Repubblica Centrafricana e le basi aeree in Uganda, gli Emirati sono riusciti a trasportare ingenti rifornimenti in due basi all’interno del Sudan, Nyala nel Darfur meridionale e Al Malha, a 200 chilometri da el-Fasher. Altre armi raggiungono il Fezzan, la regione più meridionale della Libia, per poi essere trasportate in Sudan via terra da alcune milizie fondamentaliste.

Nel maggio scorso, ad esempio, Amnesty International ha denunciato che gli Emirati Arabi Uniti stavano inviando nel Darfur armi cinesi all’avanguardia, come droni, bombe teleguidate e obici fabbricati dal gruppo statale cinese Norinco.

Periodicamente il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, lancia accorati appelli alla pace e alla stabilità in Sudan, continuando però a foraggiare le milizie stragiste e a finanziare il dispiegamento al loro fianco di mercenari stranieri, principalmente colombiani.

Il regime sudanese ha provato a convincere le istituzioni internazionali a operare pressioni sugli Emirati, ad esempio portando Abu Dhabi davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che però nel maggio scorso ha rigettato l’istanza per assenza di giurisdizione.

Dal canto loro invece le pressioni degli Emirati sui loro alleati hanno prodotto vari risultati, come quando il governo britannico intimò lo scorso anno ai diplomatici sudanesi di non insistere sulle responsabilità di Abu Dhabi nella guerra civile. Nell’aprile scorso invece si è tenuta a Londra una conferenza internazionale sulla crisi sudanese, alla quale sono stati invitati i delegati emiratini ma paradossalmente non quelli del governo di Port Sudan. Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e saggista, si occupa di geopolitica e movimenti sociali. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria.