Di Ahmed Ahmed e Ahmed Alsammak
(traduzione di Federica Riccardi)
La mattina del 28 settembre dello scorso anno, Abdulaziz Jouda, 67 anni, e il suo amico Jabr Musleh sono partiti per raccogliere le olive da un uliveto a nord del campo profughi di Nuseirat, nella parte centrale della Striscia di Gaza. L’area, vicina al corridoio di Netzarim occupato all’epoca dall’esercito israeliano, era stata designata zona rossa, ovvero “pericolosa”, ma i due uomini erano determinati a raccogliere i frutti di stagione.
La figlia di Jouda, Ola, 31 anni, ha raccontato alla rivista +972 Magazine che un giornalista locale, Ahmed Allouh – che sarebbe stato ucciso tre mesi dopo da un attacco aereo israeliano – aveva visto i due uomini quella mattina e più tardi aveva sentito due colpi di cannone sparati in direzione dell’uliveto. Il continuo bombardamento della zona gli aveva impedito di andare a controllare come stavano.
Alla sera, né Jouda né Musleh erano tornati a casa e non rispondevano al telefono. Le loro famiglie hanno cominciato a temere il peggio.
Quando il bombardamento è cessato la mattina seguente, i parenti dei due uomini si sono precipitati al boschetto. Hanno trovato il corpo di Musleh, insieme alla bicicletta, al telefono e agli effetti personali di Jouda, ma non il suo corpo.
Le famiglie sono fuggite alla ripresa del fuoco israeliano. Quando sono tornate un mese dopo, non hanno trovato nulla. Ci hanno riprovato durante il cessate il fuoco nel marzo di quest’anno, solo per scoprire che il boschetto era stato raso al suolo dall’esercito israeliano.
La famiglia di Jouda ha contattato alcune organizzazioni per i diritti umani, che a loro volta hanno interpellato l’esercito israeliano per verificare se fosse stato arrestato. Il suo nome non compare in nessuna lista.
Jouda è uno degli oltre 11.000 palestinesi segnalati come dispersi a Gaza, secondo le Nazioni Unite, la maggior parte dei quali, secondo l’organizzazione, sono donne e bambini. Queste persone potrebbero essere intrappolate sotto le macerie, detenute nelle prigioni israeliane o scomparse in altre circostanze. Si ritiene che molti di quelli della prima categoria si trovino in zone della Striscia che rimangono sotto il controllo militare israeliano, rendendo impossibile il recupero dei loro corpi.
Il Centro Palestinese per i Dispersi e le Vittime di Sparizioni Forzate, un’iniziativa locale avviata all’inizio di quest’anno, sta cercando di coordinare le attività di ricerca tra i gruppi per i diritti umani e le autorità competenti a Gaza. Ahmed Masoud, direttore dell’organizzazione, ha spiegato che un team di ricerca sta lavorando con le famiglie delle persone scomparse per raccogliere il maggior numero possibile di dettagli sulle circostanze della loro scomparsa, ma il loro lavoro è limitato dalla mancanza di informazioni disponibili e di macchinari pesanti, che le autorità israeliane si rifiutano di fornire.
Laddove sono stati recuperati i resti, è emersa una crisi parallela di identificazione. Gaza non dispone di laboratori funzionanti per la conservazione o l’analisi dei campioni di DNA, mentre le cartelle cliniche e dentistiche sono state rese in gran parte inaccessibili a causa della distruzione del sistema sanitario di Gaza da parte di Israele.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), che dall’inizio della guerra ha ricevuto oltre 13.500 richieste di ricerca di persone scomparse a Gaza, ha collaborato con le autorità locali negli ultimi due anni per creare cimiteri contrassegnati per i corpi non riconosciuti, un passo necessario per consentirne la futura identificazione. Ma nelle condizioni attuali, l’organizzazione non è in grado di allestire un laboratorio per i test del DNA.
I corpi che Israele ha restituito a Gaza il mese scorso nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco non hanno portato molta chiarezza, poiché l’esercito non ha fornito nomi o altri elementi identificativi. Yahya Muhareb, esperto di diritto internazionale presso il Centro Al-Mezan per i diritti umani di Gaza, ha dichiarato a +972 che ciò costituisce una violazione delle Convenzioni di Ginevra, che richiedono la divulgazione del nome di ogni persona restituita e il trasferimento di eventuali effetti personali, nonché la causa, la data e il luogo della morte.
Dei 285 corpi che Israele ha restituito dall’inizio del cessate il fuoco, solo 86 sono stati identificati dalle loro famiglie. Gli altri sono stati sepolti in un cimitero per i dispersi a Deir Al-Balah.
“Alcuni dei cadaveri presentavano ferite da arma da fuoco alla nuca e in altre parti del corpo, il che indica che potrebbero essere stati uccisi nelle prigioni israeliane e sottoposti a torture letali”, ha affermato il dottor Ahmed Dahir, direttore del Dipartimento di Medicina Legale dell’ospedale Nasser.
In passato Israele ha sempre reso noti i nomi dei palestinesi quando restituiva i loro corpi. Il fatto che ora non lo stia facendo, secondo Muhareb, sembra indicare un inasprimento della politica: “È una guerra psicologica”.
“Fisso i volti delle persone per strada, alla ricerca dei miei fratelli”
Molti dei dispersi sono persone che sono andate a ritirare generi alimentari e non sono più tornate, spesso presso i centri di distribuzione gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), dove i soldati israeliani e le forze di sicurezza private hanno ucciso oltre 2.600 persone da maggio. Ma anche prima della GHF, trovare cibo a sufficienza durante la guerra era un’impresa pericolosa.
Shawqi Al-Helu, 32 anni, padre di quattro figli, originario della città di Gaza, è scomparso il 29 ottobre dello scorso anno dopo essere andato a raccogliere aiuti sulla strada costiera di Gaza, vicino al valico di Zikim. All’epoca, la sua famiglia e le altre nove persone sfollate che vivevano con loro sopravvivevano con un solo pasto al giorno.
“Detestava andare lì, ma non sopportava di vedere i suoi figli piangere e morire di fame”, ha raccontato a +972 la sorella di Al-Helu, Laila.
Quel giorno, l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sulla folla in attesa degli aiuti, uccidendo almeno sei persone. Al calar della notte, Al-Helu non era ancora tornato e la famiglia era sempre più preoccupata. Hanno cercato negli obitori degli ospedali e chiamato chiunque potesse sapere cosa gli fosse successo, ma il suo corpo era introvabile.
“Alcuni ci hanno detto di aver visto il suo corpo contro un muro vicino all’incrocio; altri hanno detto di averlo incontrato vivo nel sud; altri ancora hanno affermato che fosse in prigione”, ha spiegato Laila. “Abbiamo contattato il CICR e altre organizzazioni per i diritti umani, che ci hanno riferito che l’esercito israeliano aveva dichiarato che non era detenuto. Siamo esausti per tutte queste voci e non sappiamo dove si trovi”.
Quando la famiglia di Al-Helu è fuggita dalla propria casa pochi mesi dopo, sua moglie Aya ha messo in valigia alcuni dei suoi vestiti nella speranza che potessero ricongiungersi. È rimasta profondamente delusa quando ha saputo che lui non era tra i palestinesi rilasciati nel recente scambio di prigionieri.
Tragicamente, la scomparsa di Al-Helu significa che Laila ha perso due fratelli a causa della guerra: il primo, Mohammed, è stato ucciso nel dicembre 2023, anche lui mentre cercava di comprare del cibo.
“Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco, fisso i volti delle persone per strada, cercando i miei due fratelli”, ha detto. “La guerra è finita, quindi perché non sono tornati?”
Fosse comuni per i non identificati
Quando un corpo viene riconosciuto dai parenti, le autorità mediche lo rilasciano per la sepoltura. Se i resti non possono essere identificati, esiste un protocollo specifico: le squadre forensi raccolgono campioni e li conservano negli ospedali per un massimo di 10 giorni prima che le autorità locali seppelliscano il corpo, ha spiegato Ahmed Obeid, direttore del dipartimento cimiteri del Ministero dei Beni e degli Affari Religiosi di Gaza.
Ma questo processo è diventato sempre più impraticabile. L’anno scorso, Israele ha trasferito a Gaza due camion carichi di cadaveri senza alcun coordinamento né informazioni identificative. Non essendo in grado di riconoscerli, i corpi sono stati sepolti in una fossa comune, un evento che Obeid ha descritto come una “grave catastrofe”.
Il collasso dei servizi ha spesso costretto i civili ad assumersi il ruolo dei becchini. Durante i periodi di bombardamenti intensi, quando le squadre di soccorso non potevano raggiungere i quartieri bombardati, la gente seppelliva i morti dove erano caduti, anche senza sapere chi fossero.
Mohammad Imad, 35 anni, si era rifugiato nel quartiere Tal Al-Hawa della città di Gaza quando l’esercito israeliano ha bombardato la zona il 23 dicembre 2023. “Molti edifici sono stati colpiti”, ha raccontato a +972. “Abbiamo sentito i nostri vicini urlare dopo che la loro casa era stata bombardata durante la notte, ma non abbiamo potuto aiutarli e le squadre di soccorso non sono potute intervenire: era troppo pericoloso”.
La mattina seguente, Imad e un altro vicino sono andati a ispezionare uno degli edifici distrutti. “Più di 20 persone erano state uccise”, ha raccontato. “Ho visto il corpo di un uomo senza testa, poi una testa e poi altri pezzi di corpi. Eravamo estremamente spaventati e scioccati”.
Non riuscendo a identificare nessuno dei morti, hanno scavato una buca nella strada e hanno seppellito i resti. “C’erano molte parti di corpi e temevamo che i cani le avrebbero mangiate”, ha spiegato.
Quella notte, un altro edificio nelle vicinanze che ospitava decine di persone è stato bombardato. “Era troppo rischioso uscire di casa o soccorrere qualcuno”, ha detto Imad. “Abbiamo deciso di andarcene il giorno dopo, quando la situazione si fosse calmata un po’, senza seppellire [i nuovi defunti]. Se fossimo rimasti quella notte, saremmo stati uccisi”.
Quando lui e suo zio sono tornati, hanno scoperto che la tomba che avevano scavato per le prime vittime era stata profanata dai cani e che alcuni corpi erano stati divorati. Hanno ricoperto la buca, ma sono fuggiti quando sono ripresi i bombardamenti pesanti. Mesi dopo, un vicino gli ha detto che i corpi erano stati spostati, ma Imad ancora non sa quando, come e da chi.
“Sono ancora tormentato dagli incubi”, ha detto Imad. “Non dimenticherò mai quel giorno”.
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Ahmed Ahmed è lo pseudonimo di un giornalista di Gaza City che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di ritorsioni.
Ahmed Alsammak è un giornalista palestinese di Gaza. Ha conseguito un MBA presso la Dublin Business School. In precedenza ha lavorato come assistente di progetto presso We Are Not Numbers.
















