Il voto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nella tarda serata di venerdì 17 novembre, sancisce l’adozione della risoluzione americana che abbraccia integralmente il progetto di Donald Trump per la governance della Striscia di Gaza. La risoluzione, elaborata dagli Stati Uniti e presentata come dispositivo di stabilizzazione, offre una copertura formale a un disegno operativo che consegna il territorio a un’autorità transitoria da guidare e a una forza internazionale di stabilizzazione da dispiegare.

Nel testo votato si prevede che gli Stati membri possano partecipare al cosiddetto “Board of Peace” presieduto da Trump e includere una forza internazionale con mandato per la demilitarizzazione di Gaza, lo smantellamento di infrastrutture militari e il controllo dell’intero processo di ricostruzione. I Paesi che avrebbero potuto opporsi, come Russia e Cina, hanno preferito astenersi, segnalando che la risoluzione “non assegna all’Onu un ruolo chiaro” nella futura gestione del territorio e non indica chiaramente l’obiettivo della nascita di uno stato palestinese.

La dinamica assume una portata politica più che diplomatica: non è solo la gestione dell’emergenza, ma la ridefinizione di un ordine regionale. La risoluzione non contiene un meccanismo efficace di supervisione indipendente né chiarisce tempi e condizioni per il passaggio del potere alla popolazione locale palestinese. Alla luce di ciò, l’intervento appare come una trasformazione del conflitto in un modello di amministrazione controllata dall’esterno, con l’alleato più stretto di Israele che riceve mandato internazionale per assumere funzioni strategiche sul campo.

Il sostegno espresso dall’Autorità nazionale palestinese e da alcuni Paesi arabi consegna maggior potere agli Stati Uniti e impedisce l’uso del veto da parte della Russia. Ma questo allineamento appare come compromesso tattico: la scelta non impone alla risoluzione obblighi concreti verso la fine dell’occupazione israeliana né sancisce in modo vincolante il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Nel voto si apre un “percorso verso l’autodeterminazione” solo a condizioni generiche e indeterminate.

Dal punto di vista della popolazione della Striscia, poco cambia nella sostanza: l’idea di una forza internazionale si presenta come tutela, ma in realtà può tradursi in controllo esterno, con scarso coinvolgimento reale delle autorità e della società palestinese. Non è un caso che i palestinesi non siano stati ascoltati nella stesura del progetto trumpiano, mentre Netanyahu ha avuto un ruolo di primo piano nella sua redazione. Hamas ha dichiarato che la risoluzione non rispetta i diritti di autodeterminazione del popolo palestinese e che non accetterà il disarmo, perché la resistenza all’occupazione è legittima.

In Israele il dibattito si concentra sulla parola “stato palestinese”. Il premier Benjamin Netanyahu ha ribadito che Tel Aviv si oppone all’istituzione di uno Stato palestinese e ha garantito che Gaza sarà smilitarizzata “in modo facile o difficile”. Questo atteggiamento rende evidente l’equilibrio della risoluzione: un riconoscimento formale di un “orizzonte politico” palestinese, ma senza caratteristiche certe, che lascia il quadro strategico nelle mani americane e israeliane. Il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ieri ha dichiarato che se l’Onu avesse votato per la nascita di uno stato palestinese, Israele avrebbe dovuto dare ordine di uccidere tutti i leader dell’autorità nazionale palestinese e di imprigionare il suo leader 90enne, Abu Mazen.

Ma la narrativa dominante celebra la svolta come la fine del conflitto o come un inizio di pace. In realtà, l’approvazione del piano americano genera un cambio di paradigma: l’Onu ratifica un modello di governance imposto dall’alto, anziché promuovere un’autodeterminazione dal basso. La Striscia di Gaza non entra in una fase di vera emancipazione, ma in un regime in cui il filo decisionale è orientato fuori dal territorio, e la ricostruzione è subordinata a condizioni esterne e non a una partecipazione reale dei residenti.

Il voto del Consiglio di sicurezza funge anche da dichiarazione politica: gli Stati Uniti assumono una funzione di “architetto della pace”, mentre gli stati convenzionali e i territori in conflitto vengono ridisegnati in funzione degli interessi strategici e del potere. La risoluzione — presentata come dispositivo tecnico e umanitario — è in buona parte un atto politico: consegna a Washington la leadership dell’assetto post-bellico nella Striscia e, potenzialmente, un precedente per altre aree di intervento. Pagine Esteri