Si chiuderanno domani, 21 novembre, i lavori della Cop30 a Belém, in Brasile. Si potrà presto sapere quali risoluzioni avranno condiviso e ratificato gli Stati riuniti nella Conferenza delle Parti per il clima – assenti gli Stati Uniti di Trump, e anche la delegazione di Israele – e quanto queste rispetteranno uno dei moniti dichiarati in apertura di questo summit: che a “pagare” per i danni della crisi ambientale siano i suoi responsabili. Il surriscaldamento climatico prodotto dai gas serra emessi dai Paesi del cosiddetto “nord globale” viene, infatti, ancora scontato dai Paesi del “sud del mondo” in termini di disastri ambientali, siccità e incendi, e conseguenti sfollamenti massivi e carestie. L’impegno reiterato in questa come di altre Cop, invece, è proprio quello che siano i Paesi inquinatori a investire di più per rimediare a una catastrofe annunciata.

Con la firma dell’accordo di Parigi per il clima, i Paesi sviluppati – tra i quali gran parte degli Stati europei, gli Stati Uniti, il Giappone – promisero di aiutare quelli poveri attraverso la “finanza climatica”. Nel 2009, i Paesi ricchi e inquinanti riuniti nella Cop a Copenhagen si impegnarono a stanziare annualmente 100 miliardi di dollari, a partire dal 2020, per aiutare i Paesi poveri a tagliare le proprie emissioni di gas e ad affrontare una progressiva conversione ecologica di cui non avrebbero potuto farsi carico. La promessa fu rispettata con due anni di ritardo rispetto alla deadline, quando nel 2022 finalmente furono elargiti 116 miliardi secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), mentre secondo l’ONG Oxfam anche in quell’anno il target non fu raggiunto, arrivando a 95 miliardi di dollari, dei quali appena 35 disponibili come grant. L’anno scorso, l’obiettivo è stato portato a 300 miliardi di dollari annui da stanziare a partire dal 2035. Ma a chi sono destinati questi fondi?

Tracciare i movimenti dei finanziamenti climatici secondo gli analisti non è semplice, ma secondo un’inchiesta del Guardian e di Carbon Brief appena un quinto dei fondi raggiungono effettivamente i Paesi poveri del mondo, ovvero 44 Stati tra i più vulnerabili agli effetti della crisi climatica, tra i quali Sud Sudan, Yemen, Ciad, Sierra Leone, Niger. La maggior parte dei finanziamenti climatici arriva, invece, in Paesi a medio reddito, come l’Egitto, le Filippine e il Brasile. L’indagine rivela che i flussi maggiori del denaro della finanza climatica tra il 2021 e il 2022 hanno favorito Paesi tutt’altro che “vulnerabili”: compaiono tra i primi beneficiari, infatti, anche l’India, la Cina e le petromonarchie del Golfo.

La distribuzione dei finanziamenti climatici ai Paesi in fase di sviluppo segue una classificazione delle Nazioni Unite che è rimasta immutata dal 1992. Nel frattempo, la classificazione della Banca Mondiale, basata sul reddito nazionale lordo, tra Paesi a basso reddito, a reddito medio-basso, a reddito medio-alto e ad alto reddito è drasticamente mutata, con un netto shift negli ultimi anni dai Paesi a basso reddito, attualmente appena il 12% del totale, e i Paesi ad alto reddito, il 40%. I movimenti di denaro della finanza climatica, però, continuano a seguire le rotte disegnate negli anni ‘90.

L’India, il primo beneficiario della finanza climatica, ha ricevuto, nel 2021 e nel 2022, 14,1 miliardi di dollari, per la maggior parte come prestiti, investiti in buona parte nella costruzione di linee ferroviarie e metropolitane. Anche la Cina, che ha superato gli Stati Uniti diventando il primo inquinatore del pianeta, e che è la seconda economia mondiale, continua ad essere considerata secondo la classificazione delle Nazioni Unite come un Paese in via di sviluppo, e così, mentre da una parte viene invitata a elargire fondi nella finanza climatica, dall’altra parte dalla stessa finanza climatica ha ricevuto cifre ingenti: oltre 3 miliardi di dollari.

A beneficiare della finanza climatica ci sono anche gli Emirati Arabi Uniti: il loro PIL pro capite, raggiunto in buona parte esportando combustibili fossili, eguaglia quello di Canada e Francia, eppure hanno ricevuto dal Giappone oltre 1 miliardo di dollari, registrati come “finanziamenti climatici”. Sono stati investiti in buona parte per realizzare un inceneritore di rifiuti a Dubai e un progetto di trasmissione elettrica offshore ad Abu Dhabi. Anche l’Arabia Saudita, tra i primi 10 emettitori di carbonio, ha goduto dei finanziamenti climatici, ricevendo oltre 328 milioni di dollari in prestiti giapponesi.

Un’altra criticità della finanza climatica è sotto quale forma gli aiuti economici vengono erogati. Se almeno un quinto dei finanziamenti climatici sono arrivati effettivamente ai Paesi in via di sviluppo, sostenendo, come rivela l’inchiesta, anche la realizzazione di 500 progetti di energia pulita in Africa, è interessante notare come la maggior parte di questi fondi – almeno i due terzi – siano stati devoluti ai Paesi poveri non come “sovvenzioni”, ma come “prestiti”, spesso con alti tassi di interesse. 

Un meccanismo che sembra assurdo, eppure che continua ad essere portato avanti dai grandi contributori della finanza climatica. I Paesi in via di sviluppo ricevono in questo modo aiuti apparenti di sostegno climatico, ma sotto forma di prestiti e spesso anche con il vincolo di assumere aziende del Paese donatore per realizzare i progetti ambientali nei quali investirli. Non solo: per quanto una parte dei prestiti erogati nella finanza climatica siano a tasso “agevolato”, la maggior parte di questi (per il valore di almeno 30 miliardi di dollari) sono prestiti “non agevolati”, da restituire quindi con gli interessi. Questo impegnerà anche per gli anni a venire i Paesi poveri “beneficiari” a impiegare una parte delle loro casse per restituire i finanziamenti climatici ricevuti dai Paesi ricchi a condizioni svantaggiose. 

Quanto ai donatori, i principali sono il Giappone, gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, ma il trend in miglioramento del 2022 che aveva permesso di raggiungere il target fissato a Copenhagen è di nuovo a rischio. Se nel 2022, infatti, l’amministrazione Biden aveva erogato i finanziamenti climatici promessi, con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca gli investimenti sono stati messi ancora una volta in discussione. L’agenzia USAID è stata chiusa ed è difficile che gli Stati Uniti, assenti alla Cop30 e guidati da un Presidente che definisce la crisi climatica “la più grande truffa” al mondo, si impegnino nello stanziare aiuti nella finanza climatica. Anche altri Paesi ricchi potrebbero seguirne l’esempio e restringere ulteriormente i rubinetti di aiuti per il clima

Per questo, nella finanza climatica iniziano a introdursi sempre con maggiore influenza i donatori privati, che potrebbero nei prossimi anni addirittura superare, per capitali erogati, quanto stanziato dai Paesi sviluppati e dalla Banca mondiale. Il “nuovo obiettivo collettivo quantificato”, calcolato tenendo conto delle reali esigenze dei Paesi in via di sviluppo, è stato fissato a una erogazione di finanziamenti climatici per una somma di 1,3 miliardi di dollari all’anni. Un miliardo di dollari in più rispetto a quanto i Paesi ricchi della Cop si sono sentiti di impegnare a partire del 2035. Ciò significa che il nuovo target sarà perseguibile soltanto con il contributo di finanziatori privati. Secondo gli analisti, questo comporterà un rischio molto più alto che i movimenti economici della finanza climatica diventino ulteriormente meno trasparenti e tracciabili.

Alla luce di tante contraddizioni, la “Roadmap da Baku a Belém”, un rapporto pubblicato in occasione della Cop30 da Azerbaijan e Brasile, il penultimo e l’attuale Paese ospite della Conferenza delle parti, ha promosso nuove strategie per la finanza climatica: la riduzione, ad esempio, dell’erogazione di prestiti non agevolati, che rischiano di danneggiare i Paesi poveri incrementandone il debito, e il reperimento di finanziamenti climatici a fondo perduto attraverso la tassazione sui combustibili fossili e sulle attività inquinanti dei Paesi più ricchi del pianeta. Resta da vedere con quali impegni si chiuderà la Cop di Belém e quali di questi verranno rispettati – e se tra questi, ci sarà anche l’impegno a gestire la finanza climatica con maggiore trasparenza, per liberarla dal marchio di “Far west” verde che oggi le viene attribuito.