(In foto, Edward Lomonov)

Mi trovavo a Sarajevo nei primi anni 2000. La città appariva profondamente segnata da una guerra che era terminata una manciata di anni prima. Quattro inverni di assedio, fame, privazioni per una tra le popolazioni al tempo più multietniche, tolleranti e cosmopolite che l’Europa avesse mai conosciuto.

I condomini e le abitazioni portavano tutti, o quasi, i segni ben visibili dei proiettili e dei colpi di artiglieria. Gli alberi da poco ripiantati, le panchine completamente assenti, perché per scaldarsi gli abitanti della città avevano tagliato e bruciato tutto il legno reperibile, spesso sfidando i cecchini a costo della vita in una disumana lotta per la sopravvivenza.

Oggi a Bascarsija sono tornati anche i piccioni.

Per un decennio i torraioli del centro di Sarajevo erano quasi spariti, finiti nelle pentole come fonte di proteine.

In quegli anni si trovava nei negozi di souvenir del centro, un libro, con la copertina grigia, che aveva raccolto alcune delle ricette d’emergenza create durante l’assedio (dalle lumache alle rane passando per i piccioni e i funghi la popolazione assediata si nutrì con qualsiasi cosa fosse disponibile) e che aveva il titolo di Sarajevo Cooking Book.

Nei primi anni 2000, qualcuno aveva da poco iniziato a riempire,inizialmente con della vernice colorata, e solo successivamente con della resina rossa, i fori dei proiettili di mortaio sull’asfalto,trasformandoli in opere d’arte commemorativa simili a rose sfiorite con i petali strappati e sparsi dal vento.

Sono le rose di Sarajevo, ancora visibili oggi nel centro della città tra Bascarsija e Skenderija.

Il palazzo del parlamento era uno scheletro, così come la biblioteca nazionale, bruciata con un lancio di granate incendiarie per cancellare il simbolo di sei secoli di multiculturalismo.

Oltre agli esseri umani quell’assedio aveva colpito i simboli dell’identità plurale bosniaca.

In quella guerra a morire fu anche la Bosnia, come idea di un paese plurale, multiculturale, accogliente in cui per secoli avevano convissuto identità, storie, tradizioni profondamente diverse tra loro.

Al museo del tunnel, aperto ancora oggi (anche se oggetto di un contenzioso con i proprietari dell’abitazione da cui uno dei due lati del tunnel iniziava) e realizzato nell’edificio da cui si accedeva al tunnel, oggi smantellato, che dal quartiere a maggioranza serbadi Dobrinja portava a Butmir, oltre le linee serbe, passando sotto la pista dell’aeroporto, e che fu dal 1993 al 1996 la principale via di accesso alla città assediata, vidi un filmato.

Il filmato in serbo croato, e che l’operatore spiegava in inglese come meglio poteva, raccontava sommariamente i quattro anni di assedio, il tram fermo sui binari e crivellato di colpi, le persone nascoste agli angoli delle strade o che si riparavano dietro ai blindati di colore bianco dell’Unprofor.

Chiesi all’operatore del museo semi deserto di farmi rivedere il filmato.

Come tutte le opere che raccontano una guerra etnica alcuni passaggi storici importanti erano stati omessi, come il fatto che quel conflitto sia stato anche un conflitto delle campagne contro le città ed omettendo il ruolo di oltre diecimila volontari serbi, cittadini di Sarajevo, che difesero la città contro l’esercito serbo bosniaco.

Questo elemento destabilizzò profondamente gli assedianti a tal punto che si rifiutavano di parlare con Jovan Divjak, generale serbo, che guidò con successo la difesa di Sarajevo.

I comandanti dell’esercito serbo bosniaco dichiararono che avrebbero parlato con Divijak solo se si fosse convertito all’islam, lui con ironia rispose che avrebbe parlato con loro solo se fossero scesi dalle piante.

Di quel filmato ad avermi colpito l’immagine di un cecchino che sparava a raffica con uno Zastava M76, senza indossare la divisa dell’esercito serbo bosniaco.

Chiesi chi fosse quell’uomo, con indosso un giubbotto di pelle nero.

Mi fu detto che si trattava di Edward Limonov, un politico e scrittore russo, ultranazionalista, che si divertiva, pagando, ad unirsi ai cecchini serbi, per sparare in direzione della Ulica Zmaja of Bosne, la via di comunicazione est-ovest che attraversava Sarajevo.

Mi fu raccontato che, oltre ai mercenari pagati per combattere, da varie parti d’Europa esisteva una sorta di turismo dell’assedio dove pagando si poteva sparare dalla parte degli assedianti.

Rimasi allibito, mi interrogai su quanto ci fosse di vero e quanto di propaganda (che spesso non termina con la fine della guerra ma prosegue ben oltre).

Sapevo dei volontari greci a Srebrenica dei neo fascisti italiani che si erano uniti alle milizie croate per affinità ideologica (Andrea Insabato, autore di un attentato dinamitardo contro la sede del Manifesto nel 2000, pubblicò nel 1991 sul periodico di annunci Porta Portese, un’inserzione in cui reclutava volontari per combattere in Bosnia) ma l’idea che fosse esistito in quegli anni un safari per sparare contro altri esseri umani mi sembrò una cosa oltre l’umano.

Eppure quell’assedio di disumanità si nutrì abbondantemente.

Quell’assedio fu un affare lucroso per gli assedianti, come lucrose per alcuni sanno essere le guerre.

Nella primavera del 1992, la sproporzione delle forze in campo avrebbe consentito alle truppe serbe, con le armi pesanti della JNA, di prendere la città in poche settimane se non in pochi giorni.

Le truppe serbe non lo fecero.

Non vollero farlo.

In parte perché non erano interessati a prendere la città ma le aree della Bosnia a maggioranza serba, o in prossimità del confine con la Serbia ed il Montenegro, eliminando la popolazione non serba, in parte poiché trovarono più conveniente e lucroso assediare la città anziché conquistarla.

Si garantirono ricavi spaventosi con il mercato nero del gasolio, degli aiuti umanitari e degli aspiranti rifugiati.

La multinazionale serbo croata dell’esproprio fece in Bosnia affari d’oro.

L’assedio produsse ricchezze e capitali enormi tra gli assedianti, visse di indifferenza e di un embargo sulle armi che colpiva la sola Bosnia (e quindi coloro che in quell’assedio si difendevano) senza essere esteso a Serbia e Croazia, i cui governi in quella guerra non solo erano parte attiva, ma prima che la tragedia bosniaca iniziasse, Tudjman e Milosevic, due diverse facce del nazionalismo arrembante dei primi anni novanta, si erano già spartiti la Bosnia sulla pelle dei bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) e di quei bosniaci che continuavano a credere in una Bosnia multietnica e plurale.

L’inchiesta aperta dalla Procura di Milano non mi sembra affatto inverosimile.

Mi sembra invece surreale che ciò avvenga per un esposto fatto da uno scrittore, Ezio Gavazzeni, che, nelle informazioni raccolte e fornite alla Procura, parla anche di un rapporto informativo già esistente all’epoca dei fatti tra servizi segreti bosniaci e servizi segreti italiani.

Edin Subasic, al tempo agente dei servizi segreti militari dell’Esercito Bosniaco, in un’intervista rilasciata a balcanicaucaso.org racconta di come i servizi segreti bosniaci informarono sia l’Unprofor che il SISMI in merito a quanto emerso dall’interrogatorio di un prigioniero serbo che ha raccontato di essere arrivato a Sarajevo dalla Serbia assieme a cinque italiani vestiti da cacciatori.

Il regista sloveno Miran Zupanic ha raccontato nel 2022 la vicenda in un documentario, Sarajevo Safari ma già nel 1995 la notizia trapelò sia sulla stampa bosniaca, che su quella italiana (con articoli sia della Stampa che del Corriere della Sera).

Sarebbe auspicabile che l’indagine, oltre che sul fenomeno, raccontato da più fonti, facesse luce sugli eventuali meccanismi di complicità ed omissione di cui godettero i protagonisti coinvolti, in un paese, l’Italia, che scoprì la tragedia balcanica solo quando si trovò in casa propria coloro che da quella guerra fuggivano. Pagine Esteri