Negli uffici adiacenti il Parlamento, in Venezuela, un gruppo di giornalisti comunitari produce contenuti per la multipiattaforma internazionale Rompiendo fronteras, comunicando alternativas (rompiendofronterasmundial@gmail.com), che intende la comunicazione in termini di informazione, formazione e mobilitazione globale: dai territori al mondo. Al contempo, riceve i report dei colleghi che stanno accompagnando il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, nella sua visita al quartiere popolare di Petare, il più grande dell’America latina. Le televisioni venezuelane trasmettono l’evento in diretta.

“Ehi, guardate qui!” esclama Franklin, che segue in particolare i social. Tutti si voltano verso lo schermo del computer, dove un cronista di opposizione sta trasmettendo “en vivo y en directo” un programma in YouTube. Con tanto di immagini e video di appoggio, sostiene che, in quello stesso momento, Maduro sta scappando in Iran. Nei giorni precedenti, lo davano in fuga verso il Brasile, il Qatar, la Russia… e dipingevano una Forza armata nazionale bolivariana (FANB) sull’orlo di disintegrarsi per le contraddizioni interne. Davano anche per certa la fuga del generale Jesús Rafael Suárez Chourio, figura storica del chavismo, oggi deputato. Per l’estrema destra, in Venezuela, è già iniziata la “transizione post-socialista”.

Tra il serio e il faceto, i giornalisti sbugiardano l’operazione e girano un piccolo video esplicativo. Serve a mostrare come il bombardamento di questo tipo di “informazione tossica”, lanciato da poderose piattaforme con l’algoritmo in poppa, non sia tanto rivolto all’interno del paese, quanto all’esterno, dove si situano i centri di finanziamento del fascismo venezuelano: quelli che spingono per un’aggressione militare da parte di Trump, sponsorizzati dal segretario di Stato, Marco Rubio.

Quegli stessi che accompagneranno il 10 di dicembre la golpista Maria Corina Machado a ritirare il lucroso Premio Nobel della pace: a cominciare dai governanti europei, passando per quelli dei paesi latinoamericani tornati a destra all’ombra di Trump. Gli altri, quelli che manifestano negli Stati uniti e in altre parti del mondo contro l’aggressione al Venezuela, non avranno buona stampa. Anzi, non ne avranno affatto: se non se ne parla, la realtà non esiste.

E così, i venezuelani all’estero rinviano le bufale di cui sopra ai loro parenti rimasti nel paese, i quali li amplificano nelle chat di condominio o in quelle nazionali. Si dà così luogo a un delirio di allarmi e dicerie, già ben descritto dal Manzoni a suo tempo: il meccanismo per cui un pettegolezzo che passa di bocca in bocca si arricchisce di particolari, fino a tornare a chi lo ha inventato per primo senza che questi lo riconosca, e lo rimetta in circolo ulteriormente arricchito di nuove invenzioni.

La funzione di questi think tank della disinformazione globale è quella di alimentare una bolla in gran parte inesistente, anche se basata su minacce reali. Per questo, il governo bolivariano sta moltiplicando le occasioni pubbliche, politiche, culturali e conviviali: con l’obiettivo di riconoscersi e farsi riconoscere rinnovando il legame sociale, e per testare il livello di reazione popolare in caso di aggressione armata. “Continuiamo tutto come sempre, ma stando attenti ai dettagli e in offensiva permanente”, ha riassunto Diosdado Cabello, ministro degli Interni giustizia e pace e vicepresidente del Psuv durante un evento pubblico con le organizzazioni di base.

I “dettagli” sono, per esempio, la cattura di un’aeronave “ostile” entrata nello spazio aereo venezuelano. Sono la “chiusura” dei cieli, imposta alle compagnie aeree dalla pressione Usa, che le ha spinte a interrompere i viaggi verso il paese bolivariano. Un boicottaggio che ha di fatto impedito  l’arrivo di centinaia di invitati internazionali che avrebbero dovuto assistere alle giornate di solidarietà internazionali previste a Caracas in questi giorni.

Intanto, il presidente Maduro ha annunciato il passaggio “dalla lotta non armata a quella armata, basata sulla guerra popolare prolungata”. In tutti gli stati di frontiera, e soprattutto in quelli che custodiscono importanti raffinerie, come Falcón o Zulia, la vigilanza è permanente. Si effettuano esercizi di difesa preventiva in unione civico-militare, e si esibisce la forza, la preparazione e la coesione della Fanb, equipaggiata con tecnologie di difesa fornita da Russia, Cina e Iran.

 Il messaggio lanciato a Trump è chiaro: gli conviene di più una guerra di aggressione in cui la resistenza popolare può decidere di distruggere i pozzi petroliferi e infiammare tutto il continente, oppure fare affari con il Venezuela in un rapporto di mutuo guadagno? Valutazione costi-benefici che deve aver pesato nella decisione del tycon Trump di chiamare al telefono il presidente venezuelano: una procedura inedita per l’amministrazione nordamericana, abituata a esigere e a farsi servire, e non a dialogare da pari a pari.

La telefonata, commentata da Maduro, ha innescato una ridda di speculazioni da parte dell’opposizione, subito riprese dalla stampa occidentale: Trump avrebbe dato un ultimatum a Maduro; questi avrebbe chiesto una montagna di dollari per lasciare il paese; l’aggressione militare al Venezuela sarebbe imminente perché il Pentagono ha ordinato una insolita quantità di pizza, come fece per l’aggressione all’Iraq, eccetera eccetera.

Suonando un tamburo o imbracciando un mitra di ultima generazione, cantando un rap contro la guerra o gridando consegne rivoluzionarie, il presidente venezuelano moltiplica gli incontri pubblici, si circonda di popolo e mostra l’ampiezza del consenso di cui gode la rivoluzione: né lui né la direzione civico-militare del governo bolivariano si nascondono nei bunker, come invece assicura la stampa di opposizione.

Per festeggiare la prima vittoria elettorale di Chávez, il 6 dicembre del 1998, la cittadinanza ha riempito le sale dei cinema in cui si sta proiettando la serie “Maduro, de Yare a Miraflores”, che racconta la gestazione del processo bolivariano, e fa a gara per farsi fotografare con gli attori.

Nonostante anni di misure coercitive unilaterali, illegali, denunciate con forza in una giornata internazionale indetta all’Onu, l’economia venezuelana continua a vantare la crescita più alta della regione. Lo dice la Cepal e lo ha commentato la vicepresidenta, Delcy Rodriguez, ministra degli Idrocarburi, durante l’esposizione del bilancio annuale in Parlamento. Ormai, come si vede dalle code alle casse dei supermercati e dalle merci che abbondano nei negozi, i venezuelani producono quasi il 90% di quel che consumano anche se devono vedersela con un nuovo picco di devastante inflazione, ossia un nuovo capitolo della “guerra alla moneta”.

Il parlamento ha votato l’Accordo di ripudio che riguarda il saccheggio del patrimonio venezuelano all’estero, e in particolare la vendita fraudolenta della grande raffineria Citgo, basata negli Stati uniti. Un furto derivato dall’autoproclamazione di un governo parallelo, inventato da Juan Guaidó e voluto dagli Usa. Una finzione che mantiene in piedi da 10 anni, un “parlamento” parallelo, messo in atto dall’opposizione nel 2015 e che ora serve a svendere Citgo a pressi irrisori (dopo averla fatta fallire con una gestione appositamente fraudolenta) per pagare onorari milionari agli “autoproclamati” che vivono all’estero. Anche i fondi di Citgo destinati a programmi di assistenza sociale, come il programma di trapianto di midollo osseo della Fondazione Simón Bolívar, sono stati dirottati per i consumi e i piani del “governo parallelo”. Una truffa sbugiardata anche dalla destra che ora fa vita in parlamento, e che ne conosce bene i meccanismi.

Una realtà che, però, non fa notizia, come non trovano spazio sui media internazionali le minuziose inchieste presentate dal governo bolivariano circa i “falsi positivi” che si producono da quando Trump ha deciso di inviare le truppe nel mar dei Caraibi per una presunta lotta al narcotraffico. Intanto, sono state bombardate numerose imbarcazioni, con un bilancio di 83 persone morte, la maggior parte pescatori o civili. Il presidente colombiano, Gustavo Petro, ha invitato la stampa a non usare il termine “narcolancia”, già abbondantemente in uso, per definire le imbarcazioni attaccate, parlando invece di vittime civili e pescatori che cercano di guadagnarsi la vita: persone che sono state disintegrate insieme alle eventuali prove di narcotraffico, e senza diritto al processo.

E tanti conti non tornano. Dalla propria esperienza di lotta al narcotraffico – i cui dati mostrano l’aumento esponenziale del numero di tonnellate di droga sequestrate da quando Chávez ha espulso la Dea – il governo bolivariano evidenzia alcune grossolane incoerenze nei video diffusi dagli Usa: per esempio l’assenza su queste lance della grande quantità di taniche di carburante, necessarie per non rimanere a secco nel percorrere lunghe distanze (quella con la Florida supera i 2.500 km) con un carico illegale che si deve occultare.

L’uso di attacchi aerei contro piccole imbarcazioni ha d’altronde suscitato interrogativi di diritto internazionale e discussioni accese nello stesso Congresso nordamericano, a cui spetta autorizzare azioni di guerra, dicono i deputati Dem, che promettono di presentare una risoluzione in merito. Intanto, in Venezuela, sono arrivate per un’udienza in parlamento le famiglie dei pescatori ammazzati, e anche le voci di alcuni sopravvissuti, che raccontano un’altra realtà.

Nel piazzale del parlamento venezuelano, i giornalisti aspettano i deputati, accompagnati dall’orchestra che si scatena nei ritmi caraibici. Un marcantonio dall’aria gioviale si avvicina per stringerci la mano. Si tratta del generale Chourio, quello che secondo l’ultimo “scoop” dell’opposizione, sarebbe fuggito in Russia. Pagine Esteri