La guerra lungo il confine tra Thailandia e Cambogia è riesplosa con una violenza che smentisce ogni illusione di stabilità. Nelle ultime quarantotto ore gli scontri si sono estesi a più province di frontiera, in un crescendo di artiglieria, droni, razzi e raid aerei che ha rimesso in moto la macchina militare dei due Paesi. La tregua siglata poche settimane fa, presentata come un primo passo verso la normalizzazione, è crollata alla prima frizione: da Bangkok si accusa Phnom Penh di aver colpito postazioni thailandesi con armi pesanti; dalla Cambogia si risponde che l’esercito ha atteso ventiquattr’ore prima di reagire, dopo ripetute incursioni e provocazioni dell’altra parte.

Il conflitto, che si trascina da decenni lungo una frontiera mai completamente delimitata, ha preso nelle scorse ore una direzione più netta. L’aviazione thailandese ha lanciato bombardamenti contro posizioni cambogiane, sostenendo di aver agito per respingere attacchi simultanei su più punti del confine. Phnom Penh denuncia invece un’aggressione pianificata, con colpi di artiglieria che hanno raggiunto villaggi abitati e costretto centinaia di famiglie a fuggire all’alba, lasciando tutto dietro di sé. I primi bilanci indicano vittime civili in Cambogia e militari morti e feriti in Thailandia, mentre le autorità locali avviano evacuazioni di massa temendo un’estensione ulteriore dei combattimenti.

Il fronte umanitario si sta deteriorando rapidamente. Ospedali e scuole nelle zone più esposte sono stati chiusi; migliaia di persone cercano riparo verso l’interno dei due Paesi, trascinando con sé quel che possono, mentre i governatori provinciali parlano di una crisi pronta a ingrossarsi se la controffensiva thailandese dovesse proseguire. I video diffusi online mostrano colonne di fumo che si alzano dai villaggi colpiti, strade tagliate dai crateri e i convogli militari che attraversano zone normalmente agricole e tranquille.

La radice della crisi è sempre la stessa: una frontiera di oltre ottocento chilometri, eredità dell’epoca coloniale, mai demarcata in modo definitivo. Questioni che sembrano tecniche si trasformano in rivendicazioni nazionaliste e diventano micce accese dal minimo incidente. Solo a ottobre, dopo settimane di combattimenti, le due parti avevano firmato un accordo di tregua con la mediazione di Stati regionali. Era stato presentato come un gesto di responsabilità, un tentativo di sottrarre il confine alla logica militare. Ma i meccanismi di verifica erano deboli, le misure di de-escalation affidate più alla fiducia reciproca che a un sistema reale di monitoraggio. Bastato un soldato ferito da una mina, con le accuse incrociate su chi l’avesse piazzata, e il castello diplomatico si è sbriciolato.

La sproporzione tra le forze in campo aggiunge un ulteriore elemento di instabilità. La Thailandia dispone di una capacità militare ampiamente superiore: aviazione moderna, mezzi corazzati, artiglieria più numerosa. Una pressione così forte rischia di spingere la Cambogia in una posizione difensiva permanente, alimentando narrazioni vittimiste e reazioni imprevedibili. Al tempo stesso, l’uso di bombardamenti e droni in aree abitate può trasformare rapidamente una disputa di confine in un conflitto più ampio, con conseguenze difficili da contenere.

Le diplomazie regionali osservano con crescente preoccupazione, sapendo che ogni ora di combattimenti aggiunge un nuovo ostacolo al ritorno al dialogo. Nelle capitali dell’Asia sud-orientale si teme che la crisi possa destabilizzare corridoi commerciali cruciali, innescare nuove ondate di profughi e bruciare quel poco che resta della fiducia accumulata negli ultimi anni tra i due Paesi. Intanto, sul terreno, restano le immagini di una popolazione sospesa tra paura e attesa, mentre le sirene e i boati dell’artiglieria continuano a scandire il ritmo di una crisi che nessuno sembra più in grado di controllare. Pagine Esteri