(Parte seconda)
Alle elezioni il DPS-NN ottenne l’11.13% e l’APS il 7.24, ma nessuno dei partiti che componevano la coalizione GERB-BPS-ITN intendeva governare con Peevdki, e fu all’APS che si rivolsero per ottenere appoggio che fu prontamente concesso. La formazione del Governo fu caotica e lunghissima e fu resa ancora più caotica dal ricorso di uno dei partiti della destra nazionalista, Velichie, che chiese un riconteggio perché si era fermato al 3.99%, mancando lo sbarramento del 4% per poche migliaia di voti: il riconteggio confermò che lo sbarramento era stato passato, il partito fu ammesso in Parlamento e fu necessario rivedere l’assegnazione dei seggi. C’erano inoltre molti malumori di fronte all’idea che Borisov tornasse a occupare la carica di Primo Ministro, e alla fine ci si accordò per Rosen Zhelyazkov, sempre di GERB, per cui il governo si insediò solo il 16 gennaio 2025. Ad aprile, viste le difficoltà che il governo affrontava nelle votazioni, Peevski dichiarò che era disposto, se necessario, a sostenerlo; l’APS dichiarò a sua volta che in questo caso si sarebbero ritirati, ma dato che Peevski aveva più deputati dell’APS il governo riuscì comunque a metter su una maggioranza minimamente più stabile al costo però di assestare un duro colpo alla sua credibilità per via dell’associazione a una figura così controversa, con la quale avevano in passato giurato di non voler mai governare. I due partiti di opposizione approfittarono della situazione iniziando subito a lavorare contro il governo, seguendo ognuno la sua strada: PP-DB scagliandosi contro Peevski e contro le forze politiche che lo avevano accolto, Vazrazhdane continuando la sua campagna di manifestazioni contro l’Euro, che si mantennero sostanzialmente pacifiche tranne il 22 febbraio, quando la sede della Commissione UE a Sofia fu fatta oggetto di lanci di vernice e bombe-carta e vi furono feriti e arresti.[1] Il 9 maggio la campagna anti-Euro ricevette un insperato aiuto dal Presidente Radev che in un discorso alla nazione propose di indire un referendum sull’adozione dell’Euro nel 2026, formalizzato con una proposta ufficiale fatta in Parlamento il 12.[2] Il Parlamento non approvò e costituzionalmente non era possibile che lo facesse, per cui è ovvio che la mossa di Radev era politica, per colpire sia il governo e l’opposizione liberale, che per una volta compatti si schierarono a favore della moneta unica, che l’opposizione nazionalista togliendole l’esclusiva delle proteste anti-Euro.
In questo clima di guerra per bande il Governo era alle battute finali della preparazione della legge di bilancio per il 2026, e dalle prime indiscrezioni pareva certo che anche in quel caso si sarebbe profilata, come in effetti è stato, una decisa opposizione, quando inaspettatamente l’amministrazione Trump decise, il 22 ottobre, di sanzionare la Rosneft e soprattutto la Lukoil, incluse le loro sussidiarie tra le quali vi è la Litasco SA, con sede in Svizzera e che dal 1999 detiene l’89.97% delle quote azionarie della raffineria Lukoil Neftochim di Burgas. L’impatto di una simile decisione per l’economia bulgare minacciava di essere letteralmente catastrofico: la Neftochim è una delle più importanti imprese del paese e prima dell’inizio del conflitto processava circa tre milioni di barili di greggio russo al mese, il che faceva della Bulgaria il quarto acquirente mondiale dopo India, Cina e Turchia. Forniva, e fornisce tuttora (anche se il greggio che arriva adesso a Burgas non è più russo) l’80% del diesel e della benzina venduta in Bulgaria, oltre alla quasi totalità del carburante per aerei, e contribuisce al PIL bulgaro per il 10%, impiegando tra la raffineria e il vicino terminale di Rosenets, anch’esso gestito da Litasco, circa 5000 persone senza considerare l’indotto e senza contare la rete di distributori di benzina Lukoil che costellano il paese. A queste condizioni è facile immaginare che il peso economico di Lukoil si è spesso tradotto in peso politico, il che spiega anche la riluttanza, da parte dei governi che in questi anni si sono succeduti in Bulgaria, ad affrontare la questione del destino ultimo della raffineria. Pur aderendo subito sia ai meccanismi sanzionatori contro la Russia che all’invio di armi e materiale all’Ucraina, anche le coalizioni più accesamente liberali e atlantiste, come quella guidata da Petkov (PP) fino all’agosto 2022, hanno provato a minimizzare le ricadute sulla raffineria e sul rapporto privilegiato tra Bulgaria e Lukoil. Asen Vasilev, dello stesso partito liberista ed “europeista” di Petkov e all’epoca vice-primo ministro, aveva chiesto con insistenza a Bruxelles una deroga al bando del 5 dicembre 2022, che vietava le importazioni di greggio russo, arrivando a minacciare il veto bulgaro all’intero pacchetto di sanzioni, e l’aveva ottenuta fino al dicembre 2024.[3] Oltre alla minaccia di affondare le sanzioni, deve aver giocato a suo favore il fatto che nel 2022, senza che la cosa fosse pubblicizzata, la Bulgaria aveva esportato in Ucraina gasolio proveniente proprio dalla raffineria Lukoil per 700 milioni di €, pagati in larga parte da USA e Gran Bretagna, e fornito sempre in segreto un gran numero di munizioni. La notizia era stata resa di dominio pubblico solo nel gennaio 2023 in un’intervista di Petkov, Vasilev e dell’allora Ministro degli esteri ucraino Kuleba a Die Welt, quando il governo Petkov, che aveva approvato l’operazione, era già caduto da qualche mese e aveva bisogno di un po’ di pubblicità positiva per le prossime elezioni (Petkov e Vasiliev, a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate al giornale, avevano convinto da soli l’intera Unione Europea che bisognava aiutare lUcraina, ma al tempo stesso avevano dovuto tenerlo nascosto in patria per timore degli elementi filorussi).[4] Nel novembre 2023 però un’indagine condotta congiuntamente dalla associazione non-profit Global Witness, dal CREA (Centre for Research on Energy and Clean Air) e dal CSD (Center for the Study of Democracy) riportava che il volume delle importazioni di greggio russo a Burgas era cresciuto dopo l’invasione dell’Ucraina dal 70 al 93%;[5] soprattutto, stando ai risultati dell’indagine, era stato per buona parte esportato dopo la raffinazione e non più in Ucraina ma sia fuori che all’interno dei confini dell’Unione Europea, sfruttando alcune clausole relative al bando sui prodotti raffinati russi entrato in vigore il 5 febbraio 2023, soprattutto quella che consentiva alla Bulgaria di esportare prodotti raffinati, anche provenienti da greggio russo, in caso non fosse possibile conservarli sul territorio bulgaro senza rischi per l’ambiente perché la produzione eccedeva le capacità di stoccaggio nelle cisterne bulgare.[6] Stando all’indagine questo avrebbe portato a ricavi per la Russia per circa un miliardo di dollari. La risposta di Lukoil Bulgaria era arrivata già il giorno dopo, affidata alle dichiarazioni del vicepresidente Aleksander Veličkov che aveva respinto tutte le accuse di esportazioni illegali, anche se i sospetti perduravano e anzi un articolo di Euractiv aggiungeva altri dettagli.[7] Anche Vasilev, che nel 2023 era passato a reggere il Ministero delle Finanze (carica occupata per tre volte tra il 2021 e il 2024) aveva difeso l’operato di Lukoil e ammesso che la Bulgaria aveva guadagnato, nel 2023, circa 250 milioni di € in tasse da queste vendite, che giudicava assolutamente legali e ossequiose del regime di sanzioni.[8] Ad aprile del 2023 il governo bulgaro multava Lukoil Bulgaria per 195 milioni di leva, poco meno di 100 milioni di Euro, per abuso di posizione dominante,[9] ma si trattava di un procedimento avviato già nel 2021, prima quindi della guerra e delle sanzioni, e ad agosto trasferiva il controllo del terminale di Rosenets dalla Lukoil alla compagnia statale delle infrastrutture portuali.[10] La situazione si faceva caotica tra ottobre e dicembre 2023, con l’aumento delle pressioni europee per risolvere la questione che ormai, come abbiamo visto, era diventata di dominio pubblico e minacciava di mettere in cattiva luce l’intero meccanismo sanzionatorio. Il governo bulgaro annunciava improvvisamente una tassa di 20 leva a megawatt-ora sul transito del gas russo (mossa che riguardava quindi Gazprom e non Lukoil), che ne avrebbe aumentato il costo finale di circa il 20%: la mossa provocava una reazione molto dura da parte della Serbia e dell’Ungheria, destinatarie finali del gas che transita dalla Bulgaria attraverso il gasdotto Turkstream, oltre che della Russia. Alla fine la tassa veniva revocata ma, in una sorta di compensazione, veniva annunciato tra novembre e dicembre che le importazioni di greggio russo sarebbero cessate il 1 marzo 2024, quindi ben prima della data di scadenza negoziata nel 2022.[11] Visto anche che dal gennaio 2024 le importazioni di greggio russo cessavano, per essere sostituite da greggio kazako, tunisino e iracheno, Lukoil dichiarava la sua intenzione di mettere in vendita la raffineria. Il governo bulgaro dichiarava una disponibilità di massima ad acquistarla ma senza finalizzare alcuna offerta (a seconda delle valutazioni il costo di acquisto si aggirerebbe tra 1 e 2 miliardi di Euro), mentre varie voci riferivano dell’interesse della compagnia petrolifera statale azera SOCAR, della KazMunayGas kazaka e dell’ungherese MOL. Nonostante l’urgenza, il governo non sembrava curarsi troppo della faccenda, che si trascinava senza sostanziali novità fino appunto alle sanzioni dell’Office of Foreign Assets Control (OFAC) statunitense, la cui entrata in vigore era stata fissata per il 21 novembre: un mese per risolvere una situazione di cui per tre anni nessuno si era mai occupato veramente. Mentre il paese rimaneva attonito, la risposta iniziale del governo fu di provare a rassicurare l’opinione pubblica ma senza annunciare una linea di condotta, come testimoniato dall’intervista rilasciata a caldo dal premier Zhelyazkov, raggiunto dalla notizia a Bruxelles dove si trovava per un vertice UE e apparso sinceramente stupito della novità.[12] Fu subito evidente che al di là di annunciare vaghi progetti di nazionalizzazione o vendita non esisteva nessun piano, e che la preoccupazione principale era rassicurare la popolazione che c’erano scorte di carburante sufficienti per almeno un paio di mesi senza ipotizzare cosa sarebbe successo in caso non si fosse riusciti a vendere la raffineria. La strategia più percorribile, ma che non dava nessuna garanzia di riuscita, era quella di richiedere una proroga, ed è in quella direzione che si orientò il governo.
Il 27 ottobre, mentre qualcuno calcolava che lo stop alla produzione della raffineria di Burgas avrebbe aumentato i prezzi del carburante del 50% e in molti cominciavano a fare scorte, la Lukoil annunciava di avere messo in vendita i suoi asset internazionali, che ovviamente non comprendevano solo la Neftochim,[13] e il 30 ottobre comunicava di avere ricevuto una formale proposta di acquisto da parte della Gunvor per l’acquisto del 100% delle quote della Lukoil International, specificando che la vendita era subordinata al parere positivo dell’OFAC.[14] L’entusiasmo fu di breve durata. La Gunvor Group Ltd., registrata a Cipro e con sede a Ginevra, era stata fondata nel 2000 da Torbjörn Törnqvist e Gennadii Timchenko; entrambi possedevano originariamente il 43,5% delle azioni a testa, ma Timchenko aveva venduto la sua quota a Törnqvist il 19 marzo 2014, letteralmente il giorno prima che gli USA lo sanzionassero per la sua ‟prossimità” a Putin.[15] Törnqvist possedeva dunque l’87% delle azioni e presiedeva il consiglio d’amministrazione ma il sospetto che Timchenko non avesse realmente abbandonato il suo ruolo nel gruppo rimaneva forte, tanto che la stampa bulgara presentò immediatamente la proposta di acquisto come fatta ‟da un amico di Putin” con interessi in Bank Rossiya.[16] Il giorno successivo all’annuncio, 31 ottobre, la Bulgaria dichiarò la sua volontà di chiedere una proroga alle sanzioni paventando scenari di crisi, soprattutto politica: i partiti populisti, era la tesi, avrebbero potuto approfittare della scarsità di petrolio (scarsità che, nota bene, era stata precedentemente esclusa in maniera netta dal governo) e fomentare disordini.[17] Il 6 novembre gli USA diedero parere negativo alla cessione, con un tweet insolitamente duro e nient’affatto diplomatico del Dipartimento del Tesoro che definiva senza mezzi termini la Gunvor ‟un pupazzo del Cremlino”, concludendo che finché ‟Putin non porrà fine alle uccisioni insensate” non le sarebbe stata concessa alcuna autorizzazione;[18] lo stesso giorno la Gunvor ritirava la sua offerta,[19] e 7 novembre il Parlamento bulgaro approvava in tutta fretta un disegno di legge che consentiva al Governo di nominare un manager esterno che avesse il pieno controllo della raffineria, inclusa la possibilità di venderla o nazionalizzarla anche senza il consenso del proprietario, con decisioni non soggette a revisione giudiziaria.[20] L’opposizione, sia quella liberale che quella nazionalista, protestò per quello che definì un piano pessimo e scritto senza riflettere, con tratti chiaramente incostituzionali e, come al solito, col timore che il tutto sarebbe stato gestito da Peevski, presentato ormai coma una sorta di novello Rasputin che manovrava l’intero governo. Dalla Russia, intanto, Peskov faceva sapere che gli interessi della Lukoil andavano tutelati, e che la Russia non sarebbe stata a guardare in caso di irregolarità nella vendita.
[1] https://www.euronews.com/my-europe/2025/02/22/bulgarian-nationalists-vandalise-eu-building-in-protest-against-plans-to-join-eurozone
[2] https://www.reuters.com/markets/europe/bulgarian-president-proposes-referendum-euro-zone-entry-2025-05-12/
[3] https://www.newbalkanslawoffice.com/new-bulgarian-act-implements-eu-sanctions-on-russian-oil-and-petroleum-products/
[4] https://www.welt.de/politik/ausland/plus243262783/Bulgarien-Das-Land-das-heimlich-die-Ukraine-rettete.html; https://www.politico.eu/article/bulgaria-volodymyr-zelenskyy-kiril-petkov-poorest-country-eu-ukraine/; https://www.euractiv.com/news/investigation-ukraine-buys-huge-amounts-of-russian-fuels-from-bulgaria/
[5] https://energyandcleanair.org/russian-oil-on-eu-soil-bulgarian-refinery-skirts-sanctions-and-buys-russian-crude/
[6] https://www.newbalkanslawoffice.com/new-bulgarian-act-implements-eu-sanctions-on-russian-oil-and-petroleum-products/
[7] https://www.euractiv.com/news/lukoil-bulgaria-claims-it-can-legally-export-fuels-to-the-eu/
[8] https://www.politico.eu/article/how-russia-made-e1b-from-an-eu-sanctions-loophole-for-bulgaria/
[9] https://www.cpc.bg/en/news-317
[10] https://www.mtc.government.bg/en/category/1/procedure-transfer-port-terminal-rosenets-state-has-started
[11] https://www.enerdata.net/publications/daily-energy-news/bulgaria-revokes-tax-russian-gas-transit-hardens-stance-russian-oil.html
[12] https://www.24chasa.bg/biznes/article/21561369
[13] https://www.lukoil.com/PressCenter/Pressreleases/Pressrelease/on-international-assets-of-lukoil-group
[14] https://www.lukoil.com/PressCenter/Pressreleases/Pressrelease/lukoil-receives-offer-from-gunvor-to-purchase
[15] https://home.treasury.gov/news/press-releases/jl23331
[16] https://www.24chasa.bg/biznes/article/21609885
[17] https://www.politico.eu/article/bulgaria-lukoil-burgas-refinery-donald-trump-oil-sanctions-fuel-shortages/
[18] https://x.com/ustreasury/status/1986536068410405305?s=46
[19] https://www.mediapool.bg/gunvor-ottegli-ofertata-za-lukoil-sled-kato-be-narechena-marionetka-na-kremal-news376998.html
[20] https://www.mediapool.bg/praven-chobanizam-za-7-chasa-parlamentat-prie-natsionalizatsiyata-na-lukoil-news377007.html
















